Fauna

Mia cara Berenice,

non esiste un modo elegante di dirlo: gli uccelli hanno defecato sulla biancheria che avevo messo a stendere.

In questi giorni si fa un gran parlare di natura che si riprende i suoi spazi. L’episodio di oggi è un sunto icastico della perplessità con cui ho sempre accolto queste affermazioni, basata con ogni probabilità sulla mia esperienza personale.

A F., il paesino di poche centinaia di anime dove ho trascorso la mia infanzia, i pollai presenti in ogni casa erano assaltati nottetempo da volpi e faine. Nei campi, nei boschi e lungo i canali di scolo capitava di incontrare grossi innocui serpenti neri, chiamati nel dialetto locale “cararoncoi”. Se ne occupavano cani e gatti. I secondi, raffinatissimi cacciatori, facevano la posta a uccelli e perfino lepri. I primi, in improvvisati branchi notturni, emulavano volpi e faine. Sempliciotti come i ladri dei film muti, capitava che finissero rinchiusi nel pollaio, nel qual caso l’interessato ti riportava il loppide, ricevendo in cambio tante galline quante erano quelle cadute in servizio.

D’estate, si andava in montagna a L. Sui prati che circondavano le malghe pascolavano le vacche, massicce e indolenti nello scuotere i loro campanacci al collo. Erano padrone dell’erba e dei sentieri, e ti veniva raccomandato di non farti fuorviare dalla loro aria serafica. Sui boschi sovrastanti capitava raramente di imbattersi, sui pianori più elevati, in cervi. Anche in quel caso, raccomandazione analoga. Non farsi tentare da romantiche fantasie di incontri ravvicinati e stare alla larga. Una volta trovai un corno, perfettamente intatto, penzolante da un albero.

In un’altra occasione ridiscendendo in paese, al limitare dell’abitato, io e zio ci imbattemmo in una vipera. La paura durò poco, dalla casa più vicina calò una vecchina che fulminò il serpente con pochi, ben assestati colpi di bastone alla testa.

A Venezia, a farla da padrone erano i volatili, piccioni e gabbiani, questi ultimi grossi come tacchini, entrambi molto aggressivi e inclini a strapparti, letteralmente, il cibo dal piatto; facevano la ronda intorno al mercato del pesce di Rialto con l’aria di incaricati alla raccolta del pizzo e non andavano contraddetti. In Piazza San Marco, da tempo ormai erano stati vietati la compravendita e il getto di becchime; ogni tanto si parlava, addirittura, dell’acquisto di falchi pellegrini da parte del Comune, per ingaggiare un’improbabile quanto impari battaglia.

Almeno a Roma, dirai tu, niente animali. Ebbene, innanzitutto la città ha un legame particolare con i gatti. In moltissime strade vengono lasciati a loro disposizione, per privata iniziativa, piattini di cibo e acqua. Le rovine romane di Largo Argentina, poi, ospitano una colonia felina ufficiale, autorizzata e visitabile. Inoltre, io l’ho sempre trovata una città piena di uccelli. Pur senza giungere agli estremi di Venezia, gli alberi sono talvolta letteralmente gremiti di volatili, il cui canto è un suono più comune di quanto si pensi. Sul tetto del mio palazzo nidificano spesso, prendendo letteralmente a calci gli offendicula metallici.

Roma, caput mundi, è ricca anche di pappagalli verdi, la cui venuta è relativamente recente e ancora avvolta nel mistero.

Probabilmente, costituiscono il tributo di qualche provincia esotica.

Ave atque vale.

Stan

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