Neve

Mia cara Berenice,

mentre il Belgio alterna, more solito, sole e pioggia, in Italia nevica, almeno nel Nord.

Cos’è la neve, per l’Italia?

Certo è spensieratezza, leggerezza, settimane bianche, sciate ciaspolate e fiaccolate sulle Alpi. Mondanità, anche, per via della fama salottiera di alcune località come Cortina d’Ampezzo. Un mondo frizzante e futile ritratto in decine di film natalizi, ma, ancora prima, nella saga di Fantozzi.

Eppure, la candida crudezza della neve ha anche un retrogusto amaro, come un ghiacciolo al limone che un bambino si ostina a far comprare al padre perché goloso di ghiaccioli, salvo esserne disgustato alla prima leccata.

Un freddo umido che sa di sofferenze e privazioni, di boscaioli montanari e taglialegna, ma anche di soldati, quelli decimati dalla disastrosa ritirata dalla Russia, durante la Seconda Guerra Mondiale. Il regime fascista, spinto in parte da furia ideologica anticomunista, in parte dal desiderio di riscattare il disastro della campagna di Grecia, insistette pervicacemente con Berlino per inviare prima un Corpo di Spedizione, poi un’intera Armata.

Dopotutto, l’Italia disponeva del Corpo degli Alpini, le migliori truppe di montagna del mondo, non era forse così? Solo che, in Russia, si combatteva in pianura, nella steppa. Le avanguardie italiane erano appunto schiarate in pianura, a protezione del fianco tedesco, quando la controffensiva sovietica di Stalingrado le travolse.

E così la neve si impastò di sangue, un’anabasi che ispirò “Il sergente nelle nave” di Mario Rigoni Stern (Einaudi, Torino, 1953) e “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi (Mursia, 1994). Un’epopea che entrò nella leggenda popolare, tanto da condurre all’ingenua invenzione di un presunto Ordine del Giorno con cui Stalin in persona lodava il valore delle truppe italiane in Russia.

I pochi superstiti rientrarono in Italia su tradotte sigillate, nascosti come appestati dalla propaganda del regime. Non servì. A Udine si cominciò a cantare: “Abbasso Mussolini / l’assassino degli alpini”. Il Duce, dal canto suo, diradò vistosamente i suoi interventi pubblici, tanto da guadagnarsi l’epiteto di Mutolini. La via per il 25 luglio era tracciata.

Molto più banalmente, una nevicata bastò a paralizzare Roma, nel 2012. Io non ero ancora nella capitale, ma chi c’era mi racconta scene di strade impraticabili e supermercati vuoti, peggio che durante la prima ondata del virus. Non stento a crederlo. Ci fu un secondo episodio, molto più leggero, qualche anno dopo, e fui l’unico ad arrivare al Ministero.

Un bianco saluto.

Stan

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