Mia cara Berenice,
ieri, sorprendentemente, sono stato al mare.
Camminando lungo la battigia, mi sono fermato educatamente per consentire a un ragazzo di scattare una foto alla fidanzata, in posa languida in bikini sulla sabbia umida, lambita dalle onde sorprendentemente gagliarde e quasi derisorie, in quell’afa immobile.
“Passa pure,” ha sospirato lui al mio indirizzo, “tanto non andrà bene comunque”.
“L’avevo pensato anch’io,” ho solidarizzato, “ma non osavo dirlo”.
Non ricordo dove ho letto qualche autore ironizzare su questa corvée imposta ai fidanzati in spiaggia, paragonandola addirittura al triolismo – collocando, evidentemente, nel terzo vertice del triangolo l’onanismo dei follower.
Del resto, ben prima dell’avvento delle attuali tecnologie, la spiaggia è sempre stata un teatro della carne, tutta reciprocamente esposta, ma alcuna più degna di attenzione di altra.
Ho il ricordo vago di un’estate, tanti anni fa, in una spiaggia del Nord, perfettamente organizzata e centuriata. Unica già nel suo isolamento oltre l’ultima fila, una bellissima ragazza, sola, si abbronzava a seno nudo; la pratica non era, allora, così comune. I capelli ondulati e ramati, la pelle scurissima e bronzea, il bikini giallo vivo. A intervalli regolari, indossava il pezzo di sopra per andarsi a fare un bagno.
Alla terza passerella, un ragazzo le chiese con voce strozzata: “È fredda?”
Quanto dolore in quelle sillabe, non riesco a dimenticarlo, sembrava di poterle strizzare con entrambe le mani e far colare sangue e brandelli di cuore sulla sabbia calda, come da uno straccio.
Lei non rispose, ma gli sorrise.
Giustamente conscia della gerarchia del pantheon femminile a cui apparteneva, non volle concedersi l’ignaro sprezzo della ragazza di Ipanema che guardava sempre e solo avanti, come la sirena scolpita sulla polena di una nave.
Un ammirato saluto.
Stan