Orient Express

Mia cara Berenice,

scusa il mio silenzio di ieri, ero impegnato in una piacevolissima trasferta a Trento.

Della successione al Trono britannico avremo tempo e modo di parlare… dopotutto, Carlo III non sarà longevo come sua madre, ma nemmeno come il recentemente beatificato Pontefice Giovanni Paolo I.

Per il momento, lascia che io torni a quell’ormai celebre treno delle diciassette e zero uno che, venerdì, mi ha estratto da una Venezia paralizzata dallo sciopero del personale ferroviario.

Tenuto conto delle circostanze, la folla sulla banchina non era molta: quasi tutti sono riusciti a sedersi, me compreso.

Alla mia sinistra, oltre il corridoio centrale, c’erano due signori della stessa età, distintissimi; non erano in coppia né viaggiano insieme, si erano conosciuti in quel momento. Lei teneva in grembo un barboncino bianco, lui una portadocumenti in pelle e le spiegava, con precisione e correttezza d’altri tempi, il motivo del caos: “È stato indetto uno sciopero del personale viaggiante delle ferrovie, con un’adesione altissima. A quanto pare, il personale a bordo treno, che ormai ha una rilevante componente femminile, negli ultimi tempi ha subito diverse aggressioni. Pertanto, i sindacati richiedono misure di sicurezza adeguate”.

Veniva il dubbio di avere sbagliato binario e convoglio ed essere saliti non su un Regionale Veloce, ma sull’Orient Express che parte da Venezia in direzione Parigi. Ci mancavano una baronessa alsaziana, un esule russo, un’ereditiera di Boston, un ufficiale degli spahi francese e un funzionario coloniale britannico, intenti a sorseggiare tè e caffè turco, discretamente informati dal capotreno che si sarebbe dovuta effettuare una sosta forzata a Giannina perché, malauguratamente, Herr Körner era stato trovato nella sua cabina del wagon-lit con un coltello conficcato tra le scapole.

Certo, in questo quadro lo sciopero stonava un poco. Con ogni probabilità, la Regia Prefettura avrebbe militarizzato provvisoriamente il personale ferroviario per precettarlo e chiesto al Comando territoriale l’invio dei lancieri di Novara per ripristinare l’ordine.

Un nostalgico saluto.

Stan

Diciassette e zero uno

Mia cara Berenice,

portata a compimento la vendemmia, individuato il ristorante per il pranzo con i parenti e presi i relativi accordi, oggi avevo in calendario la consueta gita a Venezia.

Ebbene, oggi i sindacati confederali e autonomi hanno proclamato uno sciopero del personale ferroviario dalle 9 alle 17. La trasferta non era rinviabile, non ci sarebbe più stata la mia vecchia amica della Direzione Cultura e avevo prenotato a un ristorante stellato a un tiro di sasso dal mio vecchio ufficio: l’annullamento, in assenza del preavviso di ventiquattro ore, avrebbe comportato un (sacrosanto) addebito sulla carta.

Quindi, sono partito all’alba – almeno per i miei standard -, mi sono trattenuto tutta la mattinata a Palazzo Sheriman, ho pranzato e, constatata l’impossibilità di partire, sono andato a zonzo per Rialto, tornando in stazione poco prima delle cinque.

Non ero ottimista, ma, con mio grande sorpresa, sono potuto salire sul Regionale Veloce (RV) per Trieste delle diciassette e zero uno, che fermerà a C. tra meno di un’ora.

Protesta sindacale alla veneta, insomma. Non siamo ancora allo sciopero bianco alla giapponese, ma ci arriveremo.

Se vedemo!

Stan

Beati i pellegrini

Mia cara Berenice,

la senti la terra che trema? Lo senti questo rumore cadenzato di passi? Un possente esercito marcia nel centro di Roma.

Roma, invasa dai Galli prima di Cristo.

Invasa tante volte nel Medioevo, con il pendolo dell’alabarda che oscilla dal Basso Impero al Rinascimento.

Invasa dall’Italia, tecnicamente parlando, nel 1870.

Invasa dalla Germania nel 1943.

Invasa ai giorni nostri dai pendolari che affluiscono dal Lazio, ma anche dalla Campania e dall’Abruzzo.

Invasa dagli studenti immatricolati dalle enormi e rinomate università statale, private, vaticane.

Invasa dai preti e dai seminaristi dei cinque continenti, impeccabili nelle loro tonache.

Invasa dai turisti che trasformano le strade in torri sdraiate di Babele.

Invasa dagli stessi romani che vengono a godersi il centro storico e i grandi magazzini.

Ricordi C., quella ragazza dal caschetto biondo che lavorava alla Commissione di Pianificazione del Governatorato? Indossava un cappello floscio col frontino e tu dicesti che sembrava una Guardia Rossa. La rividi, poi, a Bruxelles, mi organizzò un eccellente pranzo d’addio alla Delegazione.

C. ha sempre sostenuto, a proposito di Venezia, che i turisti rivitalizzino la città, non diversamente dalle folle cosmopolite che incrociavano nelle calli e nei fondachi ai tempi della Serenissima.

Io non sono mai stato d’accordo, ma, dopo aver visto la Roma del confinamento, comincio a pensare che avesse più di qualche ragione.

Beati i mille e mille pellegrini che arrivano a Roma e a Città del Vaticano, con i loro rosari e le loro bandierine.

Siano beati e benedetti, il loro viaggio non sia invano.

Stan

Balletto alla Fenice

Mia cara Berenice,

ti scrivo sul treno di ritorno da Venezia, che ho trovato non troppo deserta, tanto da rispolverare almeno piccola parte del suo armamentario di paccottiglia.

Sulla Strada Nuova, un venditore di fazzoletti si affacciava in un bacaro a cantare le lodi della titolare.

“Signora bellissima, come va?”

“Secondo te?!” L’ha gelato, ruvida, l’ostessa, evidentemente insoddisfatta delle riaperture recenti e dell’afflusso. Un po’ come la Becchina di Cecco Angiolieri.

Poco oltre, a cavallo di un ponte, due giovani gondolieri declamavano l’offerta di corse a metà prezzo: “Un affare!”

Mi giro dalla parte opposta, e una ragazza dei gelati mi sorride attraverso la vetrina: “Buongiorno!” Un’altra, poco oltre, tendeva ai passanti assaggini di frutta.

Il culmine di questo bizzarro contrappasso si è toccato all’interno del Fondaco dei Tedeschi, dove già prima della pandemia fiorivano sovrabbondanti le commesse, in uniforme scura e mani conserte in grembo.

Mi sono planate addosso come i piccioni di Piazza San Marco sul becchime, ma con molta maggior grazia. Per mia fortuna, i prezzi ivi praticati mi impedivano in partenza di farle contente tutte: ho acquistato solo un involto di cui è bene tu non sappia il contenuto.

Un lusingato saluto.

Stan

Apprendistato

Mia cara Berenice,

si è conclusa oggi una settimana importante per il mio ufficio, la Settimana europea della formazione professionale. Non starò ad annoiarti con i dettagli tecnici, salvo che per uno.

Ho appreso che, in molti Paesi europei, chi si iscrive a una scuola professionale stipula un contratto di apprendistato con un’impresa, alternando giornate di lavoro e di frequenza scolastica.

Anche in Austria funziona così? In Italia no. Vi è solo prevista, e da poco, una più modesta Alternanza Scuola Lavoro, più breve, non continuativa e giuridicamente lontana dal contratto di apprendistato.

Quando ancora lavoravo a Venezia, il Professor Z. mi coinvolse nei lavori dell’Università sul patrimonio culturale immateriale, oggetto di una Convenzione UNESCO adottata nel 2003 e ratificata dall’Italia nel 2007.

Visitammo la bottega dell’ultimo artigiano rimasto in Venezia a scolpire nel legno le forcole, ossia le scalmiere su cui poggia, fa perno e ruota il remo della gondola. Vere e proprie sculture, fra le più complicate che esistono, perché devono essere plasmate secondo lo scafo della singola gondola, a sua volta asimmetrico per adeguarsi alla voga a un solo remo. Talmente è preziosa la forcola che il gondoliere, smontando dal servizio, smonta anche la scalmiera e se la porta a casa.

Arrivò, inevitabile, la domanda di rito: “Come ha cominciato a fare questo mestiere?”

Impassibile, l’artista – artigiano sarebbe riduttivo – ci raccontò di essersi presentato, ancora bambino, nella bottega del suo predecessore, chiedendo di essere assunto come garzone: gratuitamente, s’intendeva. La generosa offerta venne accolta da un rifiuto sprezzante, a cui il ragazzetto rispose restando accoccolato, tre giorni e tre notti, tra i trucioli di legno del laboratorio, finché il titolare, spazientito, gli grugnì in malo modo di mettersi al lavoro una buona volta.

No, mia cara, non intendo moralizzare né cantare la bellezza del lavoro manuale, io che quest’estate, pelando patate, mi sono quasi amputato una mano.

Come sempre, è una questione di estetica. Certe storie sono belle, perfino se le racconto io.

Un umile saluto.

Stan

Roma-Venezia allez retour

Mia cara Berenice,

il Grand Tour continua, oggi è stata la volta di Venezia. A Padova avevo ripercorso le tappe infauste – tanto forse da comporre una Via Crucis – del mio assistentato universitario, a Venezia sono tornato sui luoghi più felici della mia assegnazione al Governatorato.

Devo dire che Venezia è stato il primo luogo a darmi un senso di normalità: strade affollate, qualche turista straniero. Nulla di paragonabile ai tempi prepandemici, certo, ma perché anche questi ultimi – nell’antica Dominante almeno – di normale avevano ben poco.

La vita è un susseguirsi di paradossi, ruota le quinte del nostro minuscolo teatrino senza posa, si rivolta come un guanto, cambia pelle come un serpente.

Ricordi cosa ti dissi, della mia vita a Venezia? Che avevo amato molto il Governatorato, poco la città a cui i turisti avevano succhiato tutto il midollo, lasciando solo la cartilagine delle facciate puntellate dei palazzi.

E le mie lodi sperticate di Roma? Città viva, concionavo, altro che Venezia! Turistica, certo, ma ben provvista di popolazione stanziale, perbacco!

Ora, proprio grazie alla sua malia maledetta da sirena, Venezia mi dà sollievo, mentre Roma, vuota indifferentemente di turisti e di impiegati ministeriali, mi annoda lo stomaco, proprio perché sono venuti a mancare i vacanzieri, categoria nel cui novero sono costretto – per colmo di amara beffa – ad annoverare anche tanti colleghi, come in quegli incubi in cui vedi i congiunti trasfigurarsi in alieni.

Molti, infatti, provengono da fuori l’Urbe, da regioni limitrofe o ancora più lontane. Se il lavoro agile – come tutto fa pensare – diverrà ordinario, li vedremo trasformarsi in pendolari o addirittura svanire. Sono troppo drastico, lo so, lo dice anche mio padre, tanto più che – mosso da singolare preveggenza -, ho giocato d’anticipo, muovendomi con tanto zelo per trasferirmi a Bruxelles.

Ti prego, però, di avere pazienza. La stagione sta cambiando, è appena passato il solstizio d’estate, e tu sai cosa può significare per me. Se, dopo la carta della Morte pandemica, la zingara scopre anche quella del Sole, mi concederai di sussultare sul mio sgabello.

Un caro saluto, mia Papessa.

Stan

Venetian Blues

Mia cara Berenice,

in questi giorni Venezia è stata colpita dall’acqua alta.

L’acqua alta.

In giugno.

Subito dopo la grande ondata del virus.

Tu ricordi Venezia.

Tu sai quanto profondamente essa dipenda dal turismo.

Tu ricordi quei portali montati agli ingressi della Strada Nuova, quando il Comune studiava un modo per limitare l’afflusso.

Ora li convertiranno in termoscanner.

La pandemia ha colpito duramente anche il Casinò comunale, che era già in difficoltà.

In difficoltà.

Un casinò.

A Venezia.

Quelli di Las Vegas hanno appena riaperto e sono già pieni.

L’anno scorso, Venezia era stata colpita dall’acqua alta più grave e devastante da quella, leggendaria, del 1966.

La più grave e devastante.

Dal 1966.

Sempre il 2019 è stato un anno di incidenti che hanno coinvolto le grandi navi da crociera, una delle quali ha rischiato di speronare San Marco.

Ogni nave da crociera che transita per Venezia è preceduta e seguita da un rimorchiatore.

Ai comandi ci sono i piloti della locale Corporazione.

È come se Venezia fosse ancora avvolta dalla luce color cartone del crepuscolo del 1797.

Nel 1848, sull’onda dei Moti, l’antica Dominante si erse contro l’Impero Austriaco.

Assediata dalla terra e dal mare, fu costretta ad arrendersi nel 1849.

A quel corpo ululante di dolore il poeta Arnaldo Fusinaro, come una levatrice, strappò questi versi:

“Ma il vento sibila,
    Ma l’onda è scura,
    Ma tutta in gemito
    È la natura:
    Le corde stridono,
    La voce manca,
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca!”

Secondo le Serie Storiche del Comune di Venezia, dal 1951 al 2019 la popolazione della Venezia insulare è calata da 174.808 unità a 52.143.

Nel 2016, una farmacia ha installato in vetrina un contatore in tempo reale dello stillicidio.

Da 174.808 unità.

A 52.143.

A fine mese la rivedrò.

Stan

Ghetti

Mia cara Berenice,

riavvolgiamo il nastro a due giorni fa, alla Festa della Repubblica, perché ho omesso di riferirti un particolare importante. No, nessun incontro lascivo nei vicoletti romani… anche perché, come dimostrano “Il conte di Montecristo” e la cronaca più recente, certe avventure sono irte di insidie.

Il particolare importante è invece che ho pranzato nel Ghetto, all’ombra – simbolicamente parlando – della Grande Sinagoga. Era la prima volta.

Fino a l’altro ieri, avevo sfuggito quei ristoranti, respinto da menù e lavagne troppo romaneschi, io memore delle delizie mediorientali servitemi nel Ghetto di Venezia.

Di quest’ultimo ero un assiduo frequentatore, d’altronde era poco lontano dal mio ufficio. Piccolo e raccolto, lo consideravo uno dei luoghi più autentici di Venezia, dove perfino la morsa del turismo era allentata, con polso fermo, da una evidente identità culturale ebraica. Uomini e bambini con lo zucchetto, autoctoni e visitatori. Ristoranti e panetterie kosher, alcuni dei quali molto famosi a Venezia, il Rabbinato, la Comunità Ebraica, la sinagoga, la casa di riposo israelitica, lo storico banco dei pegni. Sono rimasti in poche centinaia, gli ebrei veneziani; eppure, grazie alla loro compattezza, fanno per diecimila.

Potei constatarlo anche sul lavoro. Il Governatorato intratteneva con la loro Comunità relazioni assidue e ogni anno, in occasione del Giorno della Memoria, il Governatore si recava in piazza a rendere pubblico omaggio, scortato dai gonfalonieri in alta uniforme; anche noi dell’Ufficio Diplomatico, come puoi immaginare, presenziavamo.

Quattro passi nel Ghetto di Venezia, un paio di veline scambiate con la Comunità o il Rabbinato, sono sufficienti per una comprensione induttiva delle straordinarie resistenza e tenacia di quel popolo, sopravvissuto alla Diaspora, ai pogrom e all’Olocausto per ritrovare, dopo secoli e secoli, la sua Terra Promessa.

Quel senso di ammirazione si era ridestato in me percorrendo l’ampio viale del Ghetto negli snodi della Fase 2: i primi ristoranti a riaprire, e con quanta sollecitudine nell’offrire un tavolo a potenziali avventori ancora spaventati.

Il 2 giugno mi hanno fatto perfino ritrovare i vecchi sapori veneziani, dissipando i miei timori su una cucina giudaica troppo romanizzata. Falafel, hummus, cacio e pepe kosher. D’altronde, il fil rouge che lega Roma e Venezia è fin troppo evidente nelle eleganti garitte da dove la polizia sorveglia, giorno e notte, i punti strategici di entrambi i Ghetti. Gli agenti presidiano e proteggono; io, nel mio piccolo, faccio presenza e alimento l’economia.

Un orgoglioso saluto.

Stan

Ritorno a Venezia

Mia cara Berenice,

per la durata della quarantena, ho adottato il fermo proposito di non polemizzare.

Tuttavia oggi, sulla prima pagina dell’edizione italiana dell’Huffington Post, mi sono ritrovato un’intervista al Prof. Massimo Cacciari in cui sono così perfettamente riprodotti diversi sassolini che da tempo mi ballano nelle scarpe, da indurmi a riportartela, tenendo così formalmente fede al mio voto.

In buona sostanza, il Prof. Cacciari esprime i seguenti concetti, validi e imperituri per me come le Tavole delle Legge mosaiche.

  1. La casa non è un luogo di rifugio, il ritorno al focolare domestico, ai lari e ai penati, ma “in queste condizioni… un inferno”.
  2. Fare magniloquenti previsioni sulla nuova società che, come l’araba fenice, risorgerà dalla pandemia è “un vizio da intellettuali alla moda”, un autocompiacersi di essere “i primi esegeti di una svolta epocale”.
  3. La globalizzazione cambierà, ma nel senso di diventare maggiormente a trazione cinese.
  4. L’Unione Europea è un vaso di coccio sballottato fra i vasi di ferro di grandi Potenze come Stati Uniti, Russia, India, Cina. In particolare, i Paesi Bassi sono uno “Stato semi canaglia”. Non chiedermi perché o cosa c’entri: è un addendum prezioso.
  5. Coloro che esultano per il ritorno dei delfini nella Laguna di Venezia sono “teste di cazzo” (sic).

Vi sarebbero in questo forziere altre perle che ometto, per tema di violare la legge sul diritto d’autore.

Cacciari è, appunto, veneziano ed è probabilmente il più noto filosofo italiano vivente; di Venezia è stato anche sindaco.

Quando lavoravo al Governatorato, mi capitava di incrociarlo in Piazzale Roma, quel limbo che è l’unica parte di Venezia su cui circolano auto, bus e tram. Sul Piazzale incombe un enorme parcheggio multipiano, cui fanno corona altri parcheggi più piccoli. Una monorotaia lo collega al porto. È cucito al resto della città da una cerniera di ponti, i più notevoli dei quali sono il Ponte della Libertà e il Ponte della Costituzione o di Calatrava.

Costruito sotto il fascismo, il Ponte della Libertà è andato a completare un ponte ferroviario edificato dai tuoi compatrioti. Prima del completamento di quest’ultimo nel XIX secolo, Venezia non era affatto collegata alla Terraferma. Il ponte è percorribile su strada o su via ferrata.

Aperto solo nel 2008, il Ponte di Calatrava collega il Piazzale alla Fondamenta Santa Lucia, su cui sorge la sede del Governatorato dove lavoravo, e, proseguendo, all’omonima stazione. Progettato dal celebre architetto Santiago Calatrava, è stato oggetto di polemiche e liti giudiziarie per motivi estetici e di funzionalità.

Degni di nota, infine, sono i Tre Ponti che, convergendo in un unico punto, collegano il Piazzale a diverse fondamenta.

Dimenticavo, la fondamenta è un tratto di strada che costeggia un canale o un rio. La toponomastica veneziana, come puoi immaginare, è del tutto particolare. La città è divisa in sei sestieri: Cannaregio, Santa Croce, San Polo, San Marco, Castello, Dorsoduro e Giudecca.

Un indirizzo veneziano si compone del sestiere e del numero civico, che segue appunto il sestiere e non la calle. Con questo sistema, i numeri civici sono altissimi e disposti in modo imperscrutabile. Francamente, se si deve raggiungere un punto di Venezia, avere l’indirizzo non è di grande utilità. Ai miei tempi, nemmeno GMaps era molto attendibile, ora pare sia migliorato.

Comunque, percorrendo la Strada Nuova, l’arteria pedonale principale di Venezia, a un certo punto ci si imbatte in Campo Santa Fosca, dove sorge la statua a Paolo Sarpi. A questo giurista, grande difensore della sovranità veneziana sul Mar Adriatico, sono particolarmente affezionato per averlo citato nella mia tesi di dottorato.

È dunque là, accanto a quella statua, che io edificherei il monumento al Prof. Cacciari.

Spero di poterti portare, un giorno, a Venezia. L’hai già visitata, ma mi piacerebbe comunque condurti nei miei luoghi del cuore, come il Ghetto.

Incrociamo le dita, un caro saluto.

Stan