Mia cara Berenice,
fidando di farti cosa gradita, allego alla presente un racconto ispiratomi dalla visione del film “Il gioco del destino e della fantasia” (Giappone, 2021).
Un saluto.
Stan
L’ISPIRAZIONE
L’università cadeva a pezzi, in senso letterale e in senso figurato, in senso stretto e in senso ampio. L’ufficio del Professor Antinozzi era un cubicolo ricavato da quello che era stato un vano caldaie, dismesso perché fuori norma. Sullo stipite, un bidello aveva appeso con il nastro isolante un pezzo di carta a righe, con la scritta vergata a penna: “ANTINOZZI – LETTERE AMERICANE”.
Ora, dopo una delibera del Senato Accademico all’insegna del politicamente corretto, il cartello era diventato “ANTINOZZI – LETTERE AMERICANE STATUNITENSI”. Lettere statunitensi… non si poteva leggere né pronunciare, cazzo… era una formula maligna da processo di Salem… Antinozzi se ne vergognava, soprattutto quando doveva entrare in ufficio con Erika, la sua nuova assistente.
Normalmente, le assistenti di Lettere erano celate sotto caftani informi, con acchiappasogni e altri ammennicoli etnici penzolanti dal collo e dalle orecchie.
Erika era diversa. Un prodotto del nuovo indirizzo “Industria culturale”, istituito in condominio con la Facoltà di Economia e Commercio. Sosteneva che bisognasse “guardare ai modelli anglosassoni, per salvare la cultura dal recinto di sfiga… scusi, professore… in cui si è impantanata”. Antinozzi la lasciava dire. Era nell’accademia da troppo tempo, per avere ancora voglia di difendere a spada alti ideali. Inoltre, Erika si presentava in facoltà in tacchi alti, gonne corte, camicette attillate, talvolta occhialetti all’ultimo grido, trucco e manicure impeccabili: tutte cose che si poteva permettere e che rendevano Antinozzi, una volta tanto, piuttosto invidiato.
La verità era che Erika odiava e disprezza profondamente Antinozzi. Pur assentendo educatamente alle sue tirate sull’industria culturale, era palesemente uno smunto intellettuale spocchioso che si decomponeva nella sua torre d’avorio, né più né meno degli altri. Come se non bastasse, era solo Associato. Era stata costretta a ripiegare su di lui, perché l’Ordinario di Lettere Statunitensi conduceva una sua guerra implacabile contro l’indirizzo a cui lei era iscritta.
Avvenne che, alla fine del modulo dedicato al pulp, Antinozzi chiedesse agli studenti di scrivere un racconto rientrante nei canoni del genere.
“Non abbiate paura, di sbagliare,” sorrise. “Divertitevi”.
Quando però gli elaboratori arrivarono, urlò e sbraitò, privatamente e a lezione, che facevano schifo, erano orrendi, inclassificabili, una sua personale umiliante sconfitta come docente. Erika lo aveva aiutato a rivedere i racconti ed era disposta ad ammettere che non sembravano usciti dalla penna di Chandler. Le filippiche di Antinozzi, tuttavia, cominciavano ad annoiarla, per cui, di punto in bianco, gli propose: “Professore, perché non ne scrive uno lei?”
“C-come?”
“Certo. Un racconto con tutti i canoni del genere. Così, finalmente, quei ritardati si renderanno conto”. Erika sottolineò le ultime parole chinandosi e facendo scivolare la mano lungo la gamba calzata di nero per aggiustarsi una scarpina.
Antinozzi impallidì e deglutì: “Certo. Certo. Ottima idea. Vuole… impostarne uno anche lei?”
“Oh, non vorrei che sfigurasse, accanto al suo, professore. Non vorrei vanificare… la finalità didattica dell’esperimento”.
Quella sera stessa Antinozzi, pervaso da una strana agitazione, cominciò a strimpellare sul computer. All’inizio della settimana successiva, sudando leggermente, leggeva la sua composizione all’assistente, in ascolto nella sua solita postura ritta e silenziosa, da statua di sale e da ex ballerina.
ANCHE SOLO UNA VOLTA
Puoi essere un ragazzo di Little Italy come tanti, figlio di un carpentiere e di una casalinga che fa le pulizie in chiesa per padre Mahoney.
Puoi arruolarti in polizia, sfidando l’ostracismo della tua gente e sfidando Mr Aloi, l’uomo che, a tutte le ore, seduto allo stesso tavolo d’angolo di “Il Cortile’s”, osserva il fumo della sua stessa sigaretta e non parla mai, se non all’orecchio di Freddy “Tie” Caruso.
Puoi superare l’esame di detective, puoi superare l’esame di tenente, il più giovane di tutto il Dipartimento.
Puoi indagare sulla mafia del tuo stesso quartiere, puoi rifiutare le tangenti e, in tutto questo, restare vivo.
Ma domenica, a mezzogiorno in punto, quando tua madre, dopo essere stata a messa da padre Mahoney, ti chiama per mangiare la sua “shepherd’s lasagna”, con la foto ingiallita di tuo padre (“May he rest in peace”) che ti fissa dalla credenza, tu ti siedi e ti mangi la fottuta “shepherd’s lasagna”, qualunque cosa sia.
La signora Molly disapprovava la carriera in polizia del figlio Frank. Non osava rinfacciargli di aver tradito il quartiere e la mafia, sarebbe stato troppo, ma la considerava una stravaganza, una stonatura rispetto all’umile occupazione del padre che lei, soprattutto dopo la sua morte, prendeva a modello in tutto e per tutto (“Your father, Frank…”).
Fu in un disperato tentativo di interrompere quelle litanie che Frank, una domenica, le fece conoscere la sua partner, la detective Isabella Goodwin.
Per la signora Molly era un cruccio che Frank, ormai più che trentenne, non avesse ancora preso moglie, e le si illuminarono gli occhi.
“E lei lavora con te alla Squadra Antimafia, Frank?” Pronunciò addirittura, per le prima volta, le parole “Squadra Antimafia”, che fino a quel momento aveva considerato un tradimento del quartiere, dell’Italia e di Mussolini; del Duce, la signora Molly cui conservava un devoto ricordo nonostante la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale lo stesso Frank aveva militato come agente di Polizia Militare, rischiando di farsi smembrare da una mina tedesca ad Agrigento.
“Ora sì,” spiegò Frank, “ma abbiamo dovuto comunicare al capitano che siamo fidanzati, per cui verrà trasferita a un’altra squadra”.
La signora Molly batté le mani nodose, con le lacrime agli occhi: “Oh, siete fidanzati!”
A quei tempi, a Little Italy, il fidanzamento era un affare serio e soprattutto rapido. Nemmeno sei mesi dopo, padre Mahoney sposò Frank e Molly, rispettivamente in alta uniforme e abito bianco, con rito cattolico nella chiesa di St. Peter and Paul. Nonostante fosse WASP fino alla punta dei capelli, Isabella accettò di percorrere a rotta di collo il cursus honorum dei sacramenti e minimizzò l’assenza dei suoi familiari alla cerimonia (“Tra noi i legami familiari sono meno stretti, signora Molly”). In compenso, Mr Tieri si degnò di assistere alla cerimonia e perfino di trasmettere, tramite Freddy, le sue congratulazioni. La signora Molly era accesa di gioia come una candela, del tutto dimentica del cruccio di non aver potuto conoscere i consuoceri.
Isabella, detta in famiglia Bella, venne così cooptata nel rito domenicale della “shepherd’s lasagna” e la signora Molly fu molto costernata quando, dopo un anno, smise di venire.
Frank, rammentandole alcune velate parole che le erano state dette dalla nuora la domenica precedente, le spiegò che Bella stava svolgendo un’indagine segreta, sotto copertura.
La signora Molly scosse energicamente i riccioli azzurri.
“Le donne non dovrebbero fare certe cose,” sospirò dolorosamente, con gli occhi sbarrati.
Lei e Frank trasalirono quando, proprio in quel momento, suonarono alla porta.
“Ma chi può essere a quest’ora della domenica?” Si chiese Frank.
La signora Molly lo sapeva, gli fece cenno imperiosamente di restare seduto e zampettò verso la porta. Qualche secondo dopo, Frank la sentì gridare, con un urlo angoscioso che gli mise i brividi: “Via! Andate via!”
Scattò in piedi e, istintivamente, portò una mano al calcio della pistola d’ordinanza, ma, quando raggiunse la madre, l’uscio era già ermeticamente serrato, con tanto di triplo chiavistello fragorosamente tirato.
“Mamma! Chi era?”
“Niente, caro,” rispose tranquillamente la signora Molly. “Testimoni di Geova”.
“E occorreva fare quella scena? Mi hai spaventato!”
“Sì caro, è necessario. Quando stai a sentire quella gente anche solo una volta, è finita”.
Frank fu scosso da un oscuro brivido. Non pensò, in quel momento, alla missione di Molly. Lei non aveva potuto dirgli molto in proposito, ma Frank sapeva che era stata fatta infiltrare in una specie di setta vudù di Harlem.
Eppure, chissà perché, gli vennero in mente i riccioli azzurri di sua madre, quando, qualche mese dopo, il suono di una telefonata lo fece sussultare nell’oscurità della camera matrimoniale vuota.
“Non dovrei dirlo,” disse, all’altro capo della cornetta, la voce del suo capitano, “ma pensavo dovessi saperlo. Tra poco faranno irruzione nella sede della setta in cui è stata infiltrata Bella. Lei è dentro”.
Frank saltò in macchina e guidò in direzione di Harlem. Intorno al palazzo che conosceva bene, non avendo resistito alla tentazione di dedicargli qualche pattugliamento clandestino, ondeggiava un mare di sirene della polizia. Agitò il distintivo e imprecò quando dei novellini tentarono di fermarlo. Dall’edificio trapelavano colpi d’arma da fuoco e le finestre mandavano lampi.
Al piano terra c’erano il capitano e il capitano della squadra di Bella. Non gli permisero di entrare, ma, dopo aver ricevuto notizie dall’interno e confabulato tra di loro, cambiarono idea.
“L’edificio è in sicurezza,” gli spiegò il capitano, mentre salivano le scale da cui colava il sangue, “ma il capo della setta si è rifugiato sul tetto. Bella è con lui”.
“Era riuscita a diventare il suo braccio destro,” spiegò l’altro capitano, “un ottimo lavoro”.
“È fondamentale prenderlo vivo, quello stronzo controlla la tratta delle bianche e della droga dalle Indie Occidentali. Secondo l’FBI e gli inglesi, ci sarebbero di mezzo anche i comunisti”.
“Sì, ma che c’entrano i comunisti nelle Indie Occidentali? Mi sembra che stiamo diventando tutti un po’ paranoici”.
“Comunque, crediamo sia per questo Bella sta ancora recitando la parte, spera di disarmarlo e di farcelo prendere. Non abbiamo altra spiegazione”.
Frank era troppo sconvolto per interrogarsi su quelle parole o chiedersi che senso avesse, in un momento del genere, chiamarlo in causa, col rischio di rendere meno lucida o addirittura far tradire Bella.
Lei e il capo della setta stavano incuneati in un angolo del tetto, le pistole puntate contro un esercito di poliziotti.
“Frank,” disse uno dei due capitani, “dica a sua moglie di gettare l’arma”.
“Bella,” obbedì Frank, facendosi largo fra le spalle armate dei colleghi. “È tutto finito. Puoi mettere giù la pistola. Ce la vediamo noi, adesso”.
L’enorme nero al fianco di Bella sembrava un vulcano. Nei suoi occhi brillava un fuoco che si rifletteva in quelli di Bella. I due dialogavano in una lingua sconosciuta, il cui suono era simile a quello di pietre levigate che rotolavano.
“Che cazzo dicono. Non abbiamo un interprete? Siamo venuti qui senza un interprete?”
“Non sappiamo che lingua è, capitano. Abbiamo un interprete di francese, ma di sicuro questo non è francese”.
I due parlarono ancora a lungo o almeno per un tempo che parve interminabile, in quelle circostanze.
Alla fine, dopo essersi scambiati alcune secche sillabe di assenso, deposero all’unisono, in strana sincronia, le armi. Mentre i poliziotti cinturavano il nero, Frank corse a gettare una giacca sulle spalle di Bella, che si afflosciò tra le sue braccia.
“Prenditi una settimana,” disse un capitano.
“Prendetevi una settimana tutti e due,” aggiunse l’altro capitano.
A casa a Little Italy, Bella si fece una doccia e mangiò una piccata di pollo che Frank era andato a prenderle al ristorante all’angolo, il loro preferito; per fortuna, era ancora aperto.
Frank avrebbe voluto lasciarla dormire e si offrì perfino di spostarsi sul divano, ma Bella lo attirò a sé e fecero l’amore, appassionatamente. Al termine, gli sussurrò: “Amore, devi dire al capitano… al capitano tuo e al mio che… c’è un errore… Papa è innocente”.
“Papa?”
“Quel negro che stava con me sul tetto: noi… nel gruppo lo chiamano Papa…”
“Perché dici che è innocente?”
“Perché sì. Lui è solo… l’equivalente di un prete nei Caraibi, ecco. Se poi qualche suo parrocchiano ha fatto qualche cazzata, contrabbandando qualcosa dai Caraibi, non è mica colpa sua. Voglio dire, se un giorno incastreranno Mr Aloi e The Tie, mica arresteranno anche padre Mahoney, giusto?”
“Certo… in effetti, i capitani parlavano perfino di complotti comunisti… mi pareva che si fossero un po’ fatti prendere la mano, ecco…”
“Comunisti… figuriamoci!” Bella proruppe in una risata acuta e stridente. Frank le carezzò i capelli: “Dormi, ora”.
Il giorno dopo sarebbe voluto restare a casa con lei, ma Bella insistette perché andasse immediatamente al Distretto per portare l’ambasciata al capitano, che la ascoltò in silenzio.
“Frank”.
“Signore?”
“Non hai letto i giornali, stamattina, ne deduco”.
“Uhm… no, signore”.
“La conferenza stampa del Capo della Polizia e del Procuratore Distrettuale sarà solo oggi pomeriggio, ma i particolari più scabrosi sono già trapelati. Nel palazzo abbiamo trovato armi da guerra e sostanze che nemmeno quelli dell’FBI conoscono: vogliono impacchettare tutto e spedirlo ai laboratori militari di Watertown, in Massachusetts. Nel seminterrato del palazzo c’erano delle vere e proprie segrete piene di ragazze haitiane: alcune più bambine più ragazze, alcune orrendamente mutilate. Mentre le portavamo via, hanno sputato sui ritratti del capo della setta appesi al muro. Basta dire loro ‘Papa’ e tremano, si mettono ad urlare o vengono prese addirittura dalle convulsioni”.
Frank alzò le mani.
“Ok, ok,” si scusò, “non so cosa le sia preso a Bella”.
“Frank,” rispose il capitano con voce raddolcita, “è normale dopo una missione del genere, credimi. Il Dipartimento utilizza come consulente un bravo psichiatra, il Dott. Poulakos. Nadine, qui fuori, ti darà i suoi recapiti; paga l’assicurazione, naturalmente”.
“Uno psichiatra… mio Dio…”
“Frank! Non c’è da vergognarsi. Noi non facciamo un lavoro normale. Noi combattiamo la feccia dell’umanità. Se i demoni esistono, sono quelli che affrontiamo noi, Frank; e chi si affaccia all’inferno, resta scottato”.
“Certo…” Mormorò Frank.
Si fece dare da Nadine un biglietto da visita di Poulakos e, con quello in tasca, uscì a testa bassa dal Dipartimento. Fu l’ultima volta che qualcuno vide lui o Bella. Alcuni giorni dopo, una telefonata anonima intimò allo Stato di New York di rilasciare Papa; altrimenti, la detective Isabella Goodwin della Squadra Speciale Antifrode e il detective Frank A. DeSanctis, della Squadra Speciale Antimafia, sarebbero stati spediti al creatore.
Naturalmente, non ci fu nessuna trattativa. Una settimana dopo, una telefonata anonima consentì il ritrovamento del cadavere di Frank in un laghetto di Central Park; il corpo era orrendamente mutilato, con gli occhi strappati e la testa di un gallo infilata in gola. Con l’intercessione di padre Mahoney, Mr Aloi fece pervenire, anche a nome della Commissione e delle Cinque Famiglie, le sue condoglianze alla signora Molly e al Dipartimento. Si degnò perfino di far sentire la sua voce fra le navate della chiesta di St. Paul and Peter, auspicando che “tutti quegli immigrati di merda venissero buttati a mare”.
Lo Stato, dal canto suo, si premurò di mandare Papa a friggere sulla sedia elettrica a tempo di record, in nemmeno tre mesi.
SEI MESI DOPO
“Ego te absolvo,” benedì padre Mahoney, mentre il chierichetto già zampettava sul banco più vicino a biascicare dieci Padre Nostro, dieci Ave Maria e dieci atti di contrizione. Poco dopo, il legno del confessionale scricchiolò sotto un peso che non era quello di un bambino.
“Ti ascolto, figliolo”.
“Temo… di non essere cattolico, padre”.
“Perché non andiamo a parlare da qualche altra parte?”
Non senza sforzo, padre Mahoney tirò fuori i suoi novantacinque chile ben distribuiti dal confessionale e si trovò a fronteggiare, nel pulviscolo della navata, i cento chili ben distribuiti del capitano.
“Non credo si ricordi di me…” esordì il capitano.
“Mi ricordo perfettamente,” lo interruppe padre Mahoney, cominciando a passeggiare in direzione dell’altare maggiore, lontano dai bambini intenti a dire le orazioni. “Impossibile dimenticare quella terribile tragedia: è una ferita aperta per tutta quella comunità”.
“Già… ma è venuto il momento di chiuderla, se Dio vuole… oh, scusi padre…”
“Non è una bestemmia”.
“Forse dovremmo sederci, padre”.
Senza rispondere, padre Mahoney guidò il capitano, attraverso la sacrestia, al suo ufficio, ampio e bene organizzato. Si affacciò una delle perpetue a chiedere se l’ospite desiderasse qualcosa, ma il sacerdote la cacciò con un cenno della mano, come una mosca.
“Dunque, capitano,” lo invitò, dopo che si furono entrambi accomodati, “mi dica”.
“Se lei ricorda, padre, dopo la… tragedia, il Governatore si impegnò a estirpare la mala pianta di quella setta, ovunque si trovasse”.
“Ricordo”.
“A quanto pare, non sempre i politici raccontano balle. Il Governatore parlò con Washington. Washington parlò con Port-au-Prince, che sarebbe…”
“La capitale di Haiti, lo so”.
“Il Governo di lì si è mosso, con l’aiuto di una certa squadra della CIA e dell’Ambasciata… il tutto con metodi piuttosto spicci, mi è parso di capire… bene… tre giorni fa, i militari e i poliziotti del Governo hanno fatto irruzione nel quartier generale della setta, in un posto che si chiama…” Lesse da un taccuino. “Jacmel. I capi della setta stavano lì, senza minimamente nascondersi, a quanto pare… a quanto pare, in realtà, erano in ottimi rapporti con il Governo… per questo non si immaginavano il casino che stava per rovesciarsi loro addosso… per l’attacco hanno usato addirittura l’artiglieria e l’aviazione… nessuno è sopravvissuto… e tra i morti… c’era Bella”.
“Requiescat in pacem,” mormorò padre Mahoney.
“Come può immaginare, la sua morte ha fatto incazz… arrabbiare parecchio la CIA e l’Ambasciata. Ufficialmente, è stato un incidente, ma la verità è che… quasi sicuramente, è stata una mossa deliberata del Governo locale. Il capo della polizia segreta haitiana lo aveva detto esplicitamente ai nostri: se veramente il Governo doveva sfidare la Setta, allora la Strega doveva morire. Non poteva restare viva. Questa prospettiva, a quanto pare, terrorizzava gli haitiani, compreso il loro Presidente che non è certo un tipo tenero, mi creda…”
Padre Mahoney sospirò: “Immagino che la Strega fosse Bella”.
“Sì, la somma sacerdotessa della setta. Con ogni probabilità, era stata convertita già qui, a New York”.
“Lo avevo intuito. Fu lei a tradire il marito?”
Il capitano deglutì: “Aveva… i suoi occhi… i bulbi oculari… in un portagioie, nella sua toeletta”.
Padre Mahoney chiuse gli occhi.
“Ora, padre, il Dipartimento viene, per mio tramite, a chiederle un consiglio. Potremmo insabbiare la cosa e mantenere la versione ufficiale, secondo cui… quella donna è stata uccisa accidentalmente, durante il blitz, mentre era tenuta prigioniera della setta. Il fatto è che la storia della Strega è troppo nota, ormai, a Haiti. Abbiamo trovato immagini di quella donna nelle case di haitiani, capisce? Inoltre, bisognerebbe… seppellirla in terra consacrata… accanto al marito. Il mio collega, il diretto superiore di Bella, ha preso informazioni sulla sua famiglia… era di famiglia ricca, la classica dinastia dilaniata dalle discordie e dagli scandali… su quel versante, non farebbe nessuna differenza… ma io mi preoccupavo per… la signora Molly, la madre del povero Frank”.
Inaspettatamente, padre Mahoney sorrise: “La signora Molly è una roccia. La perdita del figlio non ha fatto che fortificarne la fede già solida. Per giunta, aveva già un pessimo presentimento sulla nuora”.
“Davvero?”
“Sì. Non le perdonava di aver avuto a che fare con quella setta, seppure per lavoro. Sa, una volta mi ha visto leggere una pubblicazione pentecostale e me l’ha letteralmente strappata di mano, per poi farla a pezzi sotto i miei occhi. Le ho fatto notare che, come pastore d’anime, è mio dovere conoscere il nemico. Mi ha risposto che chi dà retta a certa gente, anche una sola volta, è perduto. Capisce?” Il prete sorrise di soddisfazione. “Anche una sola volta”.
Antinozzi staccò gli occhi dal monitor e li riportò su Erika, non senza un certo timore. Sperava che la chiusa a effetto le fosse piaciuta, sperava che non… ecco, ecco quel sorrisetto sottile di scherno spuntare sulle bellissime labbra.
“Mi dica, professore,” chiese Erika, assaporando ogni sillaba e fissandolo negli occhi, “cosa le ha ispirato questo personaggio di femme fatale?”
Antinozzi impallidì. Un anno prima, quando gli era stata assegnata Erika, l’arrivo della vistosa e arrembante assistente gli aveva scatenato un delirio di onnipotenza, finito completamente fuori controllo. Fra un pranzo e un caffè, fra lunghi pomeriggi all’Università e convegni in riva al mare, tra una conversazione allusiva e l’altra, Antinozzi aveva avuto l’imprudenza di lanciarsi in un certo discorso, in parte improvvisato, in parte attentamente studiato e fantasticato. Lui ed Erika avevano in comune l’odio per Acanfora, il vecchio barone che da anni metteva il veto alla chiamata di Antinozzi come Ordinario e si era sdegnosamente rifiutato di prendere Erika come assistente, aborrendo il concetto stesso di industria culturale.
“Eppure mi guardava le gambe, professore, sapesse… sembrava avesse lo sguardo incollato come una ventosa”.
“Lei non ha sufficiente intraprendenza, mia cara. Se fossi una bella figliola come lei, lo farei cedere e registrerei tutto”.
“Registrare?”
“Una studentessa o una giovane accademica devono sempre registrare, quando sono sole con un professore: è la prima regola”.
“Ha perfettamente ragione, professore: infatti sto registrando”.
Antinozzi aveva ridacchiato, ma Erika aveva tratto dalla borsa il cellulare: illuminando il display, era ben visibile il registratore in funzione.
“Non si preoccupi, professore,” l’aveva subito rassicurato, con quel suo certo sorriso. “Ormai devo finire il dottorato con lei. Poi diventerò l’assistente di Acanfora. Sono certo accantonerà le sue riserve sul concetto di industria culturale, pur di poterla cacciare. L’essere la povera vittima di un episodio particolarmente disgustoso di molestie sessuali e malcostume accademico farà il resto”. Aveva roteato graziosamente gli occhi verso il cielo. “Sarò Ordinaria prima di compiere i trentacinque anni… del resto, se fossimo all’estero, non ci sarebbe nulla di strano, giusto?” Aveva aggiunto, facendogli l’occhiolino.
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