Il volto della paura

Mia cara Berenice,

non posso rivelarti da dove ho tratto l’ispirazione di questo racconto, accontentati di leggerlo.

Stan

IL VOLTO DELLA PAURA

Pagina giù, pagina giù, pagina giù. Riccardo scorse distrattamente l’interminabile file sottoposto dal laureando, in tremebonda attesa sulla sedia di fronte a lui come un budino sul carrello dei dolci.

“L’ha fatto passare all’antiplagio?” Gli domandò a bruciapelo.

“C-come?”

“Ha inserito il file nel software antiplagio?”

“Credevo andasse fatto solo alla fine”.

“Lo faccia ora. Non ha senso lavorare su un testo che, alla fine, risulterà non presentabile”.

“Ma perché, secondo lei ci sono troppe citazioni?”

“Non posso dirlo con certezza, per questo la rinvio al software antiplagio. Inoltre, tutto quello che non è virgolettato non costituisce una citazione, giusto?”

Lo studente impallidì.

“Sarà meglio fare la prova,” convenne in fretta.

“Faccia la prova,” concluse Riccardo, sorridendo. “Se è a posto, basta che me lo confermi via mail o anche su WhatsApp. Il mio numero di cellulare è…”

“Lo so, lo so,” borbottò lo studente. “Grazie, professore”.

“Si figuri”.

Riccardo attese che la serratura della porta scattasse, sbadigliò, si alzò e si stiracchiò. Erano quasi le sette di sera di giovedì e quello era l’ultimo studente. L’Università doveva essere ormai deserta. Spense il computer, raccolse le sue cose e andò a verificare se il collega Baldi aveva finito il ricevimento. La porta del suo ufficio – o meglio, dell’ufficio del suo professore, erano entrambi assistenti – era chiusa e dall’interno filtravano voci attutite.

Stava per rientrare nella sua stanza, quando gli vibrò il cellulare. Era provo Baldi e il messaggio era composto da una sola parola: “Salvami”.

Perplesso, Riccardo bussò alla porta.

“Avanti!” Rispose la voce di Baldi.

Riccardo spinse con cautela l’uscio e si ritrovò davanti un caschetto biondo tagliato con precisione geometrica. La studentessa si voltò e gli scoccò un sorriso di perfetti denti bianchi, abbaglianti quanto l’incarnato perfetto e i grandi occhi cerulei. Riccardo si sentì istantaneamente sciogliere e si chiese come andasse interpretato il messaggio di Baldi; forse non sopportava più il fremito della carne eccitato da quell’apparizione.

Mormorando qualche parola di scusa, avanzò cautamente nella stanza, cercando di rendersi conto della situazione. La studentessa indossava una tenuta che il taglio serio e istituzionale rendeva solo più intollerabile; in particolare, le gambe velate da calze e parigine erano uno strumento di sadica tortura, buono per infierire nelle carni martirizzate.

“Signorina,” proferì Baldi con voce incolore, le mani giunte, “mi dispiace non potermi trattenere oltre, ma io e il collega Silvestri abbiamo… una riunione”.

“Già, già,” confermò gravemente Riccardo. “Una riunione… dipartimentale”.

Il sorriso della studentessa non ebbe il minimo cedimento.

“Ma certo, professore!” Esclamò con voce vellutata e impostata. “Del resto, ci eravamo già detti tutto”.

Con un solo gesto armonioso, raccolse le sue cose e scomparve con una piroetta da ballerina. Riccardo ascoltò attentamente il rumore dei suoi tacchi attutirsi e poi scomparire nel corridoio, prima di lanciarsi a chiudere la porta e poi sul collega.

“Chi è?!”

“Una laureanda. Non lo vedi da te?”

“Vedo, vedo… e come mai Corrias non la riceve personalmente, una studentessa di questo… calibro?”

“Corrias non mette piede all’Università dal ’75”.

“Meglio per te, direi!”

Riccardo si chinò spudoratamente sul monitor e risalì lungo la corrente del file impeccabilmente impaginato per leggere il titolo della tesi. “L’interazione tra Autorità indipendenti internazionali, europee e nazionali nella regolamentazione dell’economia. Roba grossa. Esistono Autorità indipendenti internazionali?”

“È un punto controverso e lei lo sa benissimo: punta a farsi classificare la tesi come sperimentale”.

“Come mai? Media in bilico?”

“Macché! Ha la media del 28,7!”

Riccardo fischiò. “E chi glielo fa fare, allora?”

“È una maniaca perfezionista. Vuole essere migliore di tutti… ma l’hai vista? Non sembra neanche umana”.

“Sono assolutamente d’accordo”.

“Non fare il cretino. Io sono terrorizzato all’idea che sia interessata al dottorato”.

“Perché?!” Si stupì Riccardo.

“Ma l’hai vista? Non ha un capello fuori posto”.

“Appunto!”

“Quella ti avvelena il caffè per un posto da ricercatore!”

“E dov’è la novità? Per un posto da ricercatore lo farebbe chiunque. Tanto vale farsi ammazzare da una femme fatale”.

Baldi scosse la testa, borbottando.

“Sai chi sembra?” Rifletté ad alta voce Riccardo, portando l’indice alle labbra. “Una di quelle finte influencer create con l’intelligenza artificiale”.

“Vedo che cominci a capire,” sospirò Baldi.

“Potevi invitarla a prendere l’aperitivo con noi”.

“Sei pazzo”.

“Perché?”

“Quella registra tutto col cellulare. Ne sono sicuro. Sicuro”.

Per la prima volta, Riccardo sembrò prendere la questione sul serio.

“Dici?” Chiese.

“Dico, dico,” borbottò Baldi, cominciando a raccogliere le sue cose. “Bah… andiamo a ubriacarci”.

Questo non è un coccodrillo

Mia cara Berenice,

a cavallo di Ferragosto, l’Italia ha perso un celeberrimo e storico divulgatore scientifico; potremmo paragonarlo all’Abate Tanner, il vostro esperto di araldica.

Dal profluvio di elogi ed elegie, ho scoperto che non era laureato, fatte salve le numerose lauree ad honorem conferitegli. Iscritto al Politecnico, privilegiò gli studi al Conservatorio e le improvvisazioni jazz (segno che nessuno è perfetto, nemmeno lui), ma la vera motivazione, secondo un’intervista rilasciata al Giornale, sarebbe stata un’altra, risalente agli anni della scuola: “Non mi hanno mai bocciato, ma non mi interessava. Insegnavano male, in modo noioso, pedante. Credo che la mia vocazione a fare divulgazione sia nata proprio da quel disagio che provavo a lezione”.

La mia storia è diversa da quella di Angela, abissalmente per quanto riguarda i risultati conseguiti, più sottilmente per quanto riguarda il rapporto con la cultura istituzionale e ufficiale.

Iscritto per mia forte volontà e quasi contro il parere familiare al Liceo Classico, divorai con profitto eccellente il Ginnasio, mentre nei tre anni di Liceo vero e proprio fui travolto dall’ondata delle materie scientifiche. Anche su questo bizzarro, viscerale umanesimo italico, che meriterebbe un’apposita e separata riflessione, Angela spende parole preziose: “In Francia, dove hanno studiato anche i miei figli, la sezione più prestigiosa è la C, quella di matematica. Chi va male studia lettere”.

Alla Facoltà di Giurisprudenza – in parte per volontà di riscatto, in parte per autentico amor juris – tornai ai fasti del Ginnasio, anche se fu la larghezza di vedute della Commissione di laurea, che classificò eccezionalmente la mia tesi brevi come sperimentale, ad attribuirmi il massimo dei voti e la distinzione di lode; anche in questo caso, la mia media era stata azzoppata dagli esami di economia e finanze. Dal biennio magistrale, invece, sarei uscito comunque con il massimo punteggio.

Immediatamente dopo la seconda proclamazione, mi venne offerto un posto da assistente, quello che in termini tecnico-burocratici si chiama dottorando di ricerca cultore della materia.

È in questo importante snodo della mia vita che mi identifico pienamente nelle parole del Cavalier Angela.

L’approccio era pesante come il piombo, sovieticamente legnoso, sideralmente lontano del diritto vivente, ossessionato dalle mode accademiche quanto una quattordicenne da quelle sociali e musicali, citazionista all’estremo: per scrivere che il cielo è blu, dovevi dare conto di chiunque si fosse soffermato sulle sfumature dell’aere dai tempi di Ugo Grozio.

Tuttora provo per lo studio teorico una istintiva repulsione che mi fa ritrarre dal dedicarmi seriamente a concorsi ed esami di Stato, mentre rimane incorrotto il mio appetito bulimico per i dossier e casi giuridici concreti in cui mi imbatta per ragioni di lavoro o frequentazioni sociali.

Un saluto scevro da note a piè di pagina.

Stan

Galileo!

Mia cara Berenice,

sono tornato oggi, nel primo pomeriggio, da Padova, il mio locus commissi delicti accademico.

Ho esaminato scrupolosamente la scena del crimine, seguendo le indicazioni della Scientifica: Palazzo del Bo pavesato a festa per l’ottocentesimo anniversario dalla fondazione dell’Ateneo, il Seminario e il Dipartimento di Diritto Internazionale.

Un’altra tappa è stata, dal lungofiume avvolto nelle fronde e nella notte, la Torre della Specola. Eretta nel ‘300 sui resti del castello di Ezzelino da Romano, nel ‘700 fu adibita, per decreto del Senato veneziano, a osservatorio astronomico dell’Università di Padova; con tale funzione è ancora oggi impiegata dall’Istituto Nazionale di Astrofisica.

Vi aleggia, insomma, il fantasma di Galileo che, vissuto nel ‘600, non può aver utilizzato una torre adibita a specola nel ‘700. Del resto, nei corridoi hogswartiani dell’Università egli non è un personaggio storico dotato di una sua coerenza e consistenza, ma una categoria dello spirito, un’incarnazione dell’orgoglio più o meno sano, più o meno ben riposto.

Così, potremmo definire la Specola “Torre di Galileo” così come tra docenti, ricercatori e studenti si parla comunemente della Cattedra di Galileo, gelosamente custodita nella Sala dei Quaranta ma attribuita allo Scienziato solo da una tradizione probabilmente apocrifa. Durante la cerimonia di inaugurazione di un Anno Accademico, l’Ordinario di Diritto Romano proclamò, in tono semiserio, che per laurearsi gli studenti avrebbero dovuto presentare non solo il libretto degli esami, ma anche l’attestazione di aver reso omaggio alla Cattedra. In tal modo, diede il la al Rettore per lanciarsi in un discorso di impressionante sicumera in cui Padova veniva accostata a Oxford e Harvard e si esprimevano fortissime riserve sui poli didattici decentrati, aperti dall’Autorità accademica solo obtorto collo, piegandosi alle generosissime offerte di una Fondazione bancaria.

Più di recente, è stata aperta all’interno dell’Università una Scuola Galileiana di Studi Superiori che, nelle intenzioni, dovrebbe essere la controparte patavina della Normale di Pisa – in tal senso le auguro, naturalmente, la miglior fortuna.

Insomma, a Padova si grida il nome di Galileo come faceva Freddie Mercury: come un urlo esistenziale, un’affermazione di sé, uno strapparsi le viscere e levarle al cielo, sfidando gli antichi dei degli aruspici.

Magnificoooo!

Stan

L’uovo di Colombo dei concorsi universitari truccati

Mia cara Berenice,

a intervalli piuttosto regolari, la nostra Magistratura si accorge che i concorsi universitari sono truccati. A finire sul Registro degli Indagati, a questo giro, anche il Prof. Massimo Galli, infettivologo dell’Ospedale “Luigi Sacco” di Milano ed esegeta fra i più rigorosi della pandemia in corso.

Verrebbe la tentazione di prendere carta e penna e scrivere al Ministro della Giustizia o al Procuratore Generale presso la Corte Suprema di Cassazione.

“Eccellenza,

al fine di non dissipare risorse investigative, mi pregio di informarLa che i concorsi universitari, quantomeno se strettamente raffrontati al paradigma legale, sono tutti truccati, da quelli per l’assistentato fino a quelli per l’ordinariato.

A volte, forse anzi nella maggior parte dei casi, sono truccati a fin di bene. Il membro della Commissione segnala cioè uno studente, un ricercatore o un docente del cui valore è sinceramente convinto.

In altri casi, a prevalere sono il nepotismo, l’alcova, la baronia, il localismo o la cordata accademica.

Questa prassi è in buona parte inevitabile e va ricondotta non solo e non tanto al malcostume nazionale, quanto a un problema universale dell’Accademia, ossia la tendenza dei suoi membri a concentrarsi su branche, sottobranche e argomenti del sapere sempre più angusti e ristretti.

Ne deriva che un determinato, sottilissimo filone di ricerca viene monopolizzato da una ristretta cabala che finirà per lottizzarlo, per quanto bizantine siano le procedure escogitate per nominare, estrarre, designare le Commissioni.

In questa Accademia ad alveare, l’unica remota possibilità di rendere concorrenziale e contendibile la singola celletta è una internazionalizzazione spinta, basata su un uso esteso della lingua inglese e, ovviamente, sull’offerta in Italia di condizioni di lavoro più simili a quelle vigenti negli Atenei ed Enti di ricerca stranieri.

Invece, nel 2018, il Consiglio di Stato ha dichiarato illegittima l’iniziativa del Politecnico di Milano di organizzare corsi solo in lingua inglese, al termine di una causa per cui si sono scomodate la Corte Costituzionale e l’Accademia della Crusca.”

Il problema dell’iperspecializzazione dell’Accademia e della frammentazione del sapere mi sta, da sempre, molto a cuore.

Ti prego perciò di sollevarlo nei più qualificati circoli di Vienna e tenermi edotto di eventuali sviluppi di interesse.

Un caro saluto.

Stan

L’ispirazione

Mia cara Berenice,

fidando di farti cosa gradita, allego alla presente un racconto ispiratomi dalla visione del film “Il gioco del destino e della fantasia” (Giappone, 2021).

Un saluto.

Stan

L’ISPIRAZIONE

L’università cadeva a pezzi, in senso letterale e in senso figurato, in senso stretto e in senso ampio. L’ufficio del Professor Antinozzi era un cubicolo ricavato da quello che era stato un vano caldaie, dismesso perché fuori norma. Sullo stipite, un bidello aveva appeso con il nastro isolante un pezzo di carta a righe, con la scritta vergata a penna: “ANTINOZZI – LETTERE AMERICANE”.

Ora, dopo una delibera del Senato Accademico all’insegna del politicamente corretto, il cartello era diventato “ANTINOZZI – LETTERE AMERICANE STATUNITENSI”. Lettere statunitensi… non si poteva leggere né pronunciare, cazzo… era una formula maligna da processo di Salem… Antinozzi se ne vergognava, soprattutto quando doveva entrare in ufficio con Erika, la sua nuova assistente.

Normalmente, le assistenti di Lettere erano celate sotto caftani informi, con acchiappasogni e altri ammennicoli etnici penzolanti dal collo e dalle orecchie.

Erika era diversa. Un prodotto del nuovo indirizzo “Industria culturale”, istituito in condominio con la Facoltà di Economia e Commercio. Sosteneva che bisognasse “guardare ai modelli anglosassoni, per salvare la cultura dal recinto di sfiga… scusi, professore… in cui si è impantanata”. Antinozzi la lasciava dire. Era nell’accademia da troppo tempo, per avere ancora voglia di difendere a spada alti ideali. Inoltre, Erika si presentava in facoltà in tacchi alti, gonne corte, camicette attillate, talvolta occhialetti all’ultimo grido, trucco e manicure impeccabili: tutte cose che si poteva permettere e che rendevano Antinozzi, una volta tanto, piuttosto invidiato.

La verità era che Erika odiava e disprezza profondamente Antinozzi. Pur assentendo educatamente alle sue tirate sull’industria culturale, era palesemente uno smunto intellettuale spocchioso che si decomponeva nella sua torre d’avorio, né più né meno degli altri. Come se non bastasse, era solo Associato. Era stata costretta a ripiegare su di lui, perché l’Ordinario di Lettere Statunitensi conduceva una sua guerra implacabile contro l’indirizzo a cui lei era iscritta.

Avvenne che, alla fine del modulo dedicato al pulp, Antinozzi chiedesse agli studenti di scrivere un racconto rientrante nei canoni del genere.

“Non abbiate paura, di sbagliare,” sorrise. “Divertitevi”.

Quando però gli elaboratori arrivarono, urlò e sbraitò, privatamente e a lezione, che facevano schifo, erano orrendi, inclassificabili, una sua personale umiliante sconfitta come docente. Erika lo aveva aiutato a rivedere i racconti ed era disposta ad ammettere che non sembravano usciti dalla penna di Chandler. Le filippiche di Antinozzi, tuttavia, cominciavano ad annoiarla, per cui, di punto in bianco, gli propose: “Professore, perché non ne scrive uno lei?”

“C-come?”

“Certo. Un racconto con tutti i canoni del genere. Così, finalmente, quei ritardati si renderanno conto”. Erika sottolineò le ultime parole chinandosi e facendo scivolare la mano lungo la gamba calzata di nero per aggiustarsi una scarpina.

Antinozzi impallidì e deglutì: “Certo. Certo. Ottima idea. Vuole… impostarne uno anche lei?”

“Oh, non vorrei che sfigurasse, accanto al suo, professore. Non vorrei vanificare… la finalità didattica dell’esperimento”.

Quella sera stessa Antinozzi, pervaso da una strana agitazione, cominciò a strimpellare sul computer. All’inizio della settimana successiva, sudando leggermente, leggeva la sua composizione all’assistente, in ascolto nella sua solita postura ritta e silenziosa, da statua di sale e da ex ballerina.

ANCHE SOLO UNA VOLTA

Puoi essere un ragazzo di Little Italy come tanti, figlio di un carpentiere e di una casalinga che fa le pulizie in chiesa per padre Mahoney.

Puoi arruolarti in polizia, sfidando l’ostracismo della tua gente e sfidando Mr Aloi, l’uomo che, a tutte le ore, seduto allo stesso tavolo d’angolo di “Il Cortile’s”, osserva il fumo della sua stessa sigaretta e non parla mai, se non all’orecchio di Freddy “Tie” Caruso.

Puoi superare l’esame di detective, puoi superare l’esame di tenente, il più giovane di tutto il Dipartimento.

Puoi indagare sulla mafia del tuo stesso quartiere, puoi rifiutare le tangenti e, in tutto questo, restare vivo.

Ma domenica, a mezzogiorno in punto, quando tua madre, dopo essere stata a messa da padre Mahoney, ti chiama per mangiare la sua “shepherd’s lasagna”, con la foto ingiallita di tuo padre (“May he rest in peace”) che ti fissa dalla credenza, tu ti siedi e ti mangi la fottuta “shepherd’s lasagna”, qualunque cosa sia.

La signora Molly disapprovava la carriera in polizia del figlio Frank. Non osava rinfacciargli di aver tradito il quartiere e la mafia, sarebbe stato troppo, ma la considerava una stravaganza, una stonatura rispetto all’umile occupazione del padre che lei, soprattutto dopo la sua morte, prendeva a modello in tutto e per tutto (“Your father, Frank…”).

Fu in un disperato tentativo di interrompere quelle litanie che Frank, una domenica, le fece conoscere la sua partner, la detective Isabella Goodwin.

Per la signora Molly era un cruccio che Frank, ormai più che trentenne, non avesse ancora preso moglie, e le si illuminarono gli occhi.

“E lei lavora con te alla Squadra Antimafia, Frank?” Pronunciò addirittura, per le prima volta, le parole “Squadra Antimafia”, che fino a quel momento aveva considerato un tradimento del quartiere, dell’Italia e di Mussolini; del Duce, la signora Molly cui conservava un devoto ricordo nonostante la Seconda Guerra Mondiale, durante la quale lo stesso Frank aveva militato come agente di Polizia Militare, rischiando di farsi smembrare da una mina tedesca ad Agrigento.

“Ora sì,” spiegò Frank, “ma abbiamo dovuto comunicare al capitano che siamo fidanzati, per cui verrà trasferita a un’altra squadra”.

La signora Molly batté le mani nodose, con le lacrime agli occhi: “Oh, siete fidanzati!”

A quei tempi, a Little Italy, il fidanzamento era un affare serio e soprattutto rapido. Nemmeno sei mesi dopo, padre Mahoney sposò Frank e Molly, rispettivamente in alta uniforme e abito bianco, con rito cattolico nella chiesa di St. Peter and Paul. Nonostante fosse WASP fino alla punta dei capelli, Isabella accettò di percorrere a rotta di collo il cursus honorum dei sacramenti e minimizzò l’assenza dei suoi familiari alla cerimonia (“Tra noi i legami familiari sono meno stretti, signora Molly”). In compenso, Mr Tieri si degnò di assistere alla cerimonia e perfino di trasmettere, tramite Freddy, le sue congratulazioni. La signora Molly era accesa di gioia come una candela, del tutto dimentica del cruccio di non aver potuto conoscere i consuoceri.

Isabella, detta in famiglia Bella, venne così cooptata nel rito domenicale della “shepherd’s lasagna” e la signora Molly fu molto costernata quando, dopo un anno, smise di venire.

Frank, rammentandole alcune velate parole che le erano state dette dalla nuora la domenica precedente, le spiegò che Bella stava svolgendo un’indagine segreta, sotto copertura.

La signora Molly scosse energicamente i riccioli azzurri.

“Le donne non dovrebbero fare certe cose,” sospirò dolorosamente, con gli occhi sbarrati.

Lei e Frank trasalirono quando, proprio in quel momento, suonarono alla porta.

“Ma chi può essere a quest’ora della domenica?” Si chiese Frank.

La signora Molly lo sapeva, gli fece cenno imperiosamente di restare seduto e zampettò verso la porta. Qualche secondo dopo, Frank la sentì gridare, con un urlo angoscioso che gli mise i brividi: “Via! Andate via!”

Scattò in piedi e, istintivamente, portò una mano al calcio della pistola d’ordinanza, ma, quando raggiunse la madre, l’uscio era già ermeticamente serrato, con tanto di triplo chiavistello fragorosamente tirato.

“Mamma! Chi era?”

“Niente, caro,” rispose tranquillamente la signora Molly. “Testimoni di Geova”.

“E occorreva fare quella scena? Mi hai spaventato!”

“Sì caro, è necessario. Quando stai a sentire quella gente anche solo una volta, è finita”.

Frank fu scosso da un oscuro brivido. Non pensò, in quel momento, alla missione di Molly. Lei non aveva potuto dirgli molto in proposito, ma Frank sapeva che era stata fatta infiltrare in una specie di setta vudù di Harlem.

Eppure, chissà perché, gli vennero in mente i riccioli azzurri di sua madre, quando, qualche mese dopo, il suono di una telefonata lo fece sussultare nell’oscurità della camera matrimoniale vuota.

“Non dovrei dirlo,” disse, all’altro capo della cornetta, la voce del suo capitano, “ma pensavo dovessi saperlo. Tra poco faranno irruzione nella sede della setta in cui è stata infiltrata Bella. Lei è dentro”.

Frank saltò in macchina e guidò in direzione di Harlem. Intorno al palazzo che conosceva bene, non avendo resistito alla tentazione di dedicargli qualche pattugliamento clandestino, ondeggiava un mare di sirene della polizia. Agitò il distintivo e imprecò quando dei novellini tentarono di fermarlo. Dall’edificio trapelavano colpi d’arma da fuoco e le finestre mandavano lampi.

Al piano terra c’erano il capitano e il capitano della squadra di Bella. Non gli permisero di entrare, ma, dopo aver ricevuto notizie dall’interno e confabulato tra di loro, cambiarono idea.

“L’edificio è in sicurezza,” gli spiegò il capitano, mentre salivano le scale da cui colava il sangue, “ma il capo della setta si è rifugiato sul tetto. Bella è con lui”.

“Era riuscita a diventare il suo braccio destro,” spiegò l’altro capitano, “un ottimo lavoro”.

“È fondamentale prenderlo vivo, quello stronzo controlla la tratta delle bianche e della droga dalle Indie Occidentali. Secondo l’FBI e gli inglesi, ci sarebbero di mezzo anche i comunisti”.

“Sì, ma che c’entrano i comunisti nelle Indie Occidentali? Mi sembra che stiamo diventando tutti un po’ paranoici”.

“Comunque, crediamo sia per questo Bella sta ancora recitando la parte, spera di disarmarlo e di farcelo prendere. Non abbiamo altra spiegazione”.

Frank era troppo sconvolto per interrogarsi su quelle parole o chiedersi che senso avesse, in un momento del genere, chiamarlo in causa, col rischio di rendere meno lucida o addirittura far tradire Bella.

Lei e il capo della setta stavano incuneati in un angolo del tetto, le pistole puntate contro un esercito di poliziotti.

“Frank,” disse uno dei due capitani, “dica a sua moglie di gettare l’arma”.

“Bella,” obbedì Frank, facendosi largo fra le spalle armate dei colleghi. “È tutto finito. Puoi mettere giù la pistola. Ce la vediamo noi, adesso”.

L’enorme nero al fianco di Bella sembrava un vulcano. Nei suoi occhi brillava un fuoco che si rifletteva in quelli di Bella. I due dialogavano in una lingua sconosciuta, il cui suono era simile a quello di pietre levigate che rotolavano.

“Che cazzo dicono. Non abbiamo un interprete? Siamo venuti qui senza un interprete?”

“Non sappiamo che lingua è, capitano. Abbiamo un interprete di francese, ma di sicuro questo non è francese”.

I due parlarono ancora a lungo o almeno per un tempo che parve interminabile, in quelle circostanze.

Alla fine, dopo essersi scambiati alcune secche sillabe di assenso, deposero all’unisono, in strana sincronia, le armi. Mentre i poliziotti cinturavano il nero, Frank corse a gettare una giacca sulle spalle di Bella, che si afflosciò tra le sue braccia.

“Prenditi una settimana,” disse un capitano.

“Prendetevi una settimana tutti e due,” aggiunse l’altro capitano.

A casa a Little Italy, Bella si fece una doccia e mangiò una piccata di pollo che Frank era andato a prenderle al ristorante all’angolo, il loro preferito; per fortuna, era ancora aperto.

Frank avrebbe voluto lasciarla dormire e si offrì perfino di spostarsi sul divano, ma Bella lo attirò a sé e fecero l’amore, appassionatamente. Al termine, gli sussurrò: “Amore, devi dire al capitano… al capitano tuo e al mio che… c’è un errore… Papa è innocente”.

“Papa?”

“Quel negro che stava con me sul tetto: noi… nel gruppo lo chiamano Papa…”

“Perché dici che è innocente?”

“Perché sì. Lui è solo… l’equivalente di un prete nei Caraibi, ecco. Se poi qualche suo parrocchiano ha fatto qualche cazzata, contrabbandando qualcosa dai Caraibi, non è mica colpa sua. Voglio dire, se un giorno incastreranno Mr Aloi e The Tie, mica arresteranno anche padre Mahoney, giusto?”

“Certo… in effetti, i capitani parlavano perfino di complotti comunisti… mi pareva che si fossero un po’ fatti prendere la mano, ecco…”

“Comunisti… figuriamoci!” Bella proruppe in una risata acuta e stridente. Frank le carezzò i capelli: “Dormi, ora”.

Il giorno dopo sarebbe voluto restare a casa con lei, ma Bella insistette perché andasse immediatamente al Distretto per portare l’ambasciata al capitano, che la ascoltò in silenzio.

“Frank”.

“Signore?”

“Non hai letto i giornali, stamattina, ne deduco”.

“Uhm… no, signore”.

“La conferenza stampa del Capo della Polizia e del Procuratore Distrettuale sarà solo oggi pomeriggio, ma i particolari più scabrosi sono già trapelati. Nel palazzo abbiamo trovato armi da guerra e sostanze che nemmeno quelli dell’FBI conoscono: vogliono impacchettare tutto e spedirlo ai laboratori militari di Watertown, in Massachusetts. Nel seminterrato del palazzo c’erano delle vere e proprie segrete piene di ragazze haitiane: alcune più bambine più ragazze, alcune orrendamente mutilate. Mentre le portavamo via, hanno sputato sui ritratti del capo della setta appesi al muro. Basta dire loro ‘Papa’ e tremano, si mettono ad urlare o vengono prese addirittura dalle convulsioni”.

Frank alzò le mani.

“Ok, ok,” si scusò, “non so cosa le sia preso a Bella”.

“Frank,” rispose il capitano con voce raddolcita, “è normale dopo una missione del genere, credimi. Il Dipartimento utilizza come consulente un bravo psichiatra, il Dott. Poulakos. Nadine, qui fuori, ti darà i suoi recapiti; paga l’assicurazione, naturalmente”.

“Uno psichiatra… mio Dio…”

“Frank! Non c’è da vergognarsi. Noi non facciamo un lavoro normale. Noi combattiamo la feccia dell’umanità. Se i demoni esistono, sono quelli che affrontiamo noi, Frank; e chi si affaccia all’inferno, resta scottato”.

“Certo…” Mormorò Frank.

Si fece dare da Nadine un biglietto da visita di Poulakos e, con quello in tasca, uscì a testa bassa dal Dipartimento. Fu l’ultima volta che qualcuno vide lui o Bella. Alcuni giorni dopo, una telefonata anonima intimò allo Stato di New York di rilasciare Papa; altrimenti, la detective Isabella Goodwin della Squadra Speciale Antifrode e il detective Frank A. DeSanctis, della Squadra Speciale Antimafia, sarebbero stati spediti al creatore.

Naturalmente, non ci fu nessuna trattativa. Una settimana dopo, una telefonata anonima consentì il ritrovamento del cadavere di Frank in un laghetto di Central Park; il corpo era orrendamente mutilato, con gli occhi strappati e la testa di un gallo infilata in gola. Con l’intercessione di padre Mahoney, Mr Aloi fece pervenire, anche a nome della Commissione e delle Cinque Famiglie, le sue condoglianze alla signora Molly e al Dipartimento. Si degnò perfino di far sentire la sua voce fra le navate della chiesta di St. Paul and Peter, auspicando che “tutti quegli immigrati di merda venissero buttati a mare”.

Lo Stato, dal canto suo, si premurò di mandare Papa a friggere sulla sedia elettrica a tempo di record, in nemmeno tre mesi.

SEI MESI DOPO

“Ego te absolvo,” benedì padre Mahoney, mentre il chierichetto già zampettava sul banco più vicino a biascicare dieci Padre Nostro, dieci Ave Maria e dieci atti di contrizione. Poco dopo, il legno del confessionale scricchiolò sotto un peso che non era quello di un bambino.

“Ti ascolto, figliolo”.

“Temo… di non essere cattolico, padre”.

“Perché non andiamo a parlare da qualche altra parte?”

Non senza sforzo, padre Mahoney tirò fuori i suoi novantacinque chile ben distribuiti dal confessionale e si trovò a fronteggiare, nel pulviscolo della navata, i cento chili ben distribuiti del capitano.

“Non credo si ricordi di me…” esordì il capitano.

“Mi ricordo perfettamente,” lo interruppe padre Mahoney, cominciando a passeggiare in direzione dell’altare maggiore, lontano dai bambini intenti a dire le orazioni. “Impossibile dimenticare quella terribile tragedia: è una ferita aperta per tutta quella comunità”.

“Già… ma è venuto il momento di chiuderla, se Dio vuole… oh, scusi padre…”

“Non è una bestemmia”.

“Forse dovremmo sederci, padre”.

Senza rispondere, padre Mahoney guidò il capitano, attraverso la sacrestia, al suo ufficio, ampio e bene organizzato. Si affacciò una delle perpetue a chiedere se l’ospite desiderasse qualcosa, ma il sacerdote la cacciò con un cenno della mano, come una mosca.

“Dunque, capitano,” lo invitò, dopo che si furono entrambi accomodati, “mi dica”.

“Se lei ricorda, padre, dopo la… tragedia, il Governatore si impegnò a estirpare la mala pianta di quella setta, ovunque si trovasse”.

“Ricordo”.

“A quanto pare, non sempre i politici raccontano balle. Il Governatore parlò con Washington. Washington parlò con Port-au-Prince, che sarebbe…”

“La capitale di Haiti, lo so”.

“Il Governo di lì si è mosso, con l’aiuto di una certa squadra della CIA e dell’Ambasciata… il tutto con metodi piuttosto spicci, mi è parso di capire… bene… tre giorni fa, i militari e i poliziotti del Governo hanno fatto irruzione nel quartier generale della setta, in un posto che si chiama…” Lesse da un taccuino. “Jacmel. I capi della setta stavano lì, senza minimamente nascondersi, a quanto pare… a quanto pare, in realtà, erano in ottimi rapporti con il Governo… per questo non si immaginavano il casino che stava per rovesciarsi loro addosso… per l’attacco hanno usato addirittura l’artiglieria e l’aviazione… nessuno è sopravvissuto… e tra i morti… c’era Bella”.

“Requiescat in pacem,” mormorò padre Mahoney.

“Come può immaginare, la sua morte ha fatto incazz… arrabbiare parecchio la CIA e l’Ambasciata. Ufficialmente, è stato un incidente, ma la verità è che… quasi sicuramente, è stata una mossa deliberata del Governo locale. Il capo della polizia segreta haitiana lo aveva detto esplicitamente ai nostri: se veramente il Governo doveva sfidare la Setta, allora la Strega doveva morire. Non poteva restare viva. Questa prospettiva, a quanto pare, terrorizzava gli haitiani, compreso il loro Presidente che non è certo un tipo tenero, mi creda…”

Padre Mahoney sospirò: “Immagino che la Strega fosse Bella”.

“Sì, la somma sacerdotessa della setta. Con ogni probabilità, era stata convertita già qui, a New York”.

“Lo avevo intuito. Fu lei a tradire il marito?”

Il capitano deglutì: “Aveva… i suoi occhi… i bulbi oculari… in un portagioie, nella sua toeletta”.

Padre Mahoney chiuse gli occhi.

“Ora, padre, il Dipartimento viene, per mio tramite, a chiederle un consiglio. Potremmo insabbiare la cosa e mantenere la versione ufficiale, secondo cui… quella donna è stata uccisa accidentalmente, durante il blitz, mentre era tenuta prigioniera della setta. Il fatto è che la storia della Strega è troppo nota, ormai, a Haiti. Abbiamo trovato immagini di quella donna nelle case di haitiani, capisce? Inoltre, bisognerebbe… seppellirla in terra consacrata… accanto al marito. Il mio collega, il diretto superiore di Bella, ha preso informazioni sulla sua famiglia… era di famiglia ricca, la classica dinastia dilaniata dalle discordie e dagli scandali… su quel versante, non farebbe nessuna differenza… ma io mi preoccupavo per… la signora Molly, la madre del povero Frank”.

Inaspettatamente, padre Mahoney sorrise: “La signora Molly è una roccia. La perdita del figlio non ha fatto che fortificarne la fede già solida. Per giunta, aveva già un pessimo presentimento sulla nuora”.

“Davvero?”

“Sì. Non le perdonava di aver avuto a che fare con quella setta, seppure per lavoro. Sa, una volta mi ha visto leggere una pubblicazione pentecostale e me l’ha letteralmente strappata di mano, per poi farla a pezzi sotto i miei occhi. Le ho fatto notare che, come pastore d’anime, è mio dovere conoscere il nemico. Mi ha risposto che chi dà retta a certa gente, anche una sola volta, è perduto. Capisce?” Il prete sorrise di soddisfazione. “Anche una sola volta”.

Antinozzi staccò gli occhi dal monitor e li riportò su Erika, non senza un certo timore. Sperava che la chiusa a effetto le fosse piaciuta, sperava che non… ecco, ecco quel sorrisetto sottile di scherno spuntare sulle bellissime labbra.

“Mi dica, professore,” chiese Erika, assaporando ogni sillaba e fissandolo negli occhi, “cosa le ha ispirato questo personaggio di femme fatale?”

Antinozzi impallidì. Un anno prima, quando gli era stata assegnata Erika, l’arrivo della vistosa e arrembante assistente gli aveva scatenato un delirio di onnipotenza, finito completamente fuori controllo. Fra un pranzo e un caffè, fra lunghi pomeriggi all’Università e convegni in riva al mare, tra una conversazione allusiva e l’altra, Antinozzi aveva avuto l’imprudenza di lanciarsi in un certo discorso, in parte improvvisato, in parte attentamente studiato e fantasticato. Lui ed Erika avevano in comune l’odio per Acanfora, il vecchio barone che da anni metteva il veto alla chiamata di Antinozzi come Ordinario e si era sdegnosamente rifiutato di prendere Erika come assistente, aborrendo il concetto stesso di industria culturale.

“Eppure mi guardava le gambe, professore, sapesse… sembrava avesse lo sguardo incollato come una ventosa”.

“Lei non ha sufficiente intraprendenza, mia cara. Se fossi una bella figliola come lei, lo farei cedere e registrerei tutto”.

“Registrare?”

“Una studentessa o una giovane accademica devono sempre registrare, quando sono sole con un professore: è la prima regola”.

“Ha perfettamente ragione, professore: infatti sto registrando”.

Antinozzi aveva ridacchiato, ma Erika aveva tratto dalla borsa il cellulare: illuminando il display, era ben visibile il registratore in funzione.

“Non si preoccupi, professore,” l’aveva subito rassicurato, con quel suo certo sorriso. “Ormai devo finire il dottorato con lei. Poi diventerò l’assistente di Acanfora. Sono certo accantonerà le sue riserve sul concetto di industria culturale, pur di poterla cacciare. L’essere la povera vittima di un episodio particolarmente disgustoso di molestie sessuali e malcostume accademico farà il resto”. Aveva roteato graziosamente gli occhi verso il cielo. “Sarò Ordinaria prima di compiere i trentacinque anni… del resto, se fossimo all’estero, non ci sarebbe nulla di strano, giusto?” Aveva aggiunto, facendogli l’occhiolino.

Aneddoti di accademia e di misoginia

Mia cara Berenice,

non serve una pandemia, per svuotare un Ministero in agosto.

Oggi c’eravamo solo io, E1 ed E2.

Non ci eravamo organizzati per mangiare insieme – le donne, si sa, hanno l’insana mania delle “schiscette” -, ma abbiamo preso un caffè.

E2 ha raccontato l’aneddoto su un professore universitario misogino, udito il quale, se la conversazione non avesse preso un’altra piega, avrei potuto vedere e rilanciare.

A Padova, il docente di Diritto Penale era così temuto da organizzare un preappello, “per fare vedere agli altri cosa li aspettava”. Con la solita sfrontatezza, mi offrii io.

Arriva il giorno fatidico e, tra i mormorii della folla, mi siedo di fronte alla Commissione.

“Dov’è il suo Codice Penale?” Mi apostrofa il professore, con la sua celebre voce cavernosa.

“Non ce l’ho,” confesso candidamente, “ce l’ho in formato telematico”. All’epoca, non era una cosa usuale come oggi.

“Qui si viene col Codice!” Prorompe. “O si procura un Codice o niente esame!”

Mi volto e una ragazza in prima fila mi allunga immediatamente un Codice.

“Ecco!” Sorrido.

Mi scandagliò per mezz’ora buona: “grilled”, direbbero gli anglosassoni. L’esame di Diritto Penale I prevedeva che, innanzitutto, si declamasse a memoria l’articolo del Codice richiesto; solo poi si passava all’esegesi. Allora, dirai tu, a che serviva il Codice? Assolutamente a nulla. A ogni modo, dopo mezz’ora il Prof. R. borbottò: “Bravo. Lei è bravo. Trenta e lode”.

Quanto alla misoginia, credo che nessuno possa battere uno dei Direttori che ebbi al Governatorato. Dividevo l’anticamera con due ragazze, due europrogettiste. Il Direttore infilò la testa e chiese un caffè. Solo allora si rese conto che, per caso, in quel momento in stanza c’ero solo io.

“Oh, scusa!” Si schermì.

“Direttore, non c’è problema. Ora le prendo il caffè, come lo vuole?”

“No, no! Ci mancherebbe altro!”

Un nostalgico saluto.

Stan