L’ospite cinese

Mia cara Berenice,

a Roma c’è un illustre ospite straniero e non è il solito gentiluomo inglese e francese interno a fare schizzi di monumenti. Si tratta invece di Sua Eccellenza Wang Yi, Direttore della Segreteria della Commissione Centrale Affari Esteri del Partito Comunista Cinese, consigliere di Stato, membro del Politburo, già Ministro degli Esteri di lungo corso, nel pieno di un Grand Tour europeo.

La Cina potrebbe avere un ruolo cruciale per condurre a una soluzione negoziata la guerra in Ucraina, ma in cambio di cosa? All’Italia, probabilmente Wang (nei nomi cinesi, il cognome si antepone al prenome) ha chiesto un rilancio della Nuova Via della Seta, un’iniziativa di ampio respiro del Governo cinese per riportare agli antichi fasti, sull’onda della globalizzazione, il commercio eurasiatico. Il progetto, tuttavia, stenta a decollare, anche per la comprensibile diffidenza dei Paesi convolti, timorosi di una colonizzazione informale cinese. La Nuova Via, oltretutto, rischia di essere un fendente sanguinoso nel ventre profondo della Russia, gelosa della sua sfera d’influenza sulle Repubbliche ex sovietiche… ecco un ulteriore motivo per cui ti dico spesso di non credere all’asse Mosca-Pechino. Tornando a Roma, per le ragioni sopraccitate la Via piace poco anche all’attuale Governo nazionalista italiano.

Certamente, la Cina amerebbe ricevere mano libera su Taiwan e la garanzia del silenzio sulla situazione dei diritti umani all’interno dei suoi confini, sulla repressione a Hong Kong e sulla persecuzione della Chiesa Cattolica… ma sono concessioni troppo grosse da fare. Per quanto riguarda il silenzio, in regime democratico è impossibile garantirlo. La neutralità su Taiwan, invece, potrebbero offrirla solo gli Stati Uniti, e dubito vi sarebbero disposti.

Per quanto possa sembrare cinico e neocoloniale, forse proprio in Ucraina la Cina potrebbe trovare il suo premio. Oltre al lustro di mettere fine a un così drammatico conflitto europeo, Pechino potrebbe trasformare la neutralità ucraina in una zona franca a proprio favore. Immagini, Sua Eccellenza Wang, grossi prestiti cinesi al Governo ucraino, appalti a imprese cinesi per la ricostruzione, diritti minerari cinesi sul Donbass, magari perfino un contingente di truppe di pace cinesi schierato sulla linea di demarcazione armistiziale.

Non basterebbe, forse?

Stan

Il carro armato

Mia cara Berenice,

Nordamerica ed Europa Occidentale hanno preso una manciata di segnalini a forma di carro armato e li hanno disposti sull’Ucraina.

Abrams, Challenger, Leclerc, Leopard.

Un pugno di carri farà la differenza? Ne bastano una dozzina, in effetti, per costituire un’unità, una compagnia.

Un mezzo prezioso, una cattedrale corazzata, il simbolo anche psicologico della guerra, dopo la baionetta e la spada. Arma decisiva della Seconda Guerra Mondiale, messa parzialmente in ombra dai conflitti in punta di fioretto della Guerra Fredda, durante la quale è stato soprattutto simbolo di repressione, nelle strade e piazze dell’Europa dell’Est e della Cina, ma anche del Sudamerica.

Durante la Guerra del Golfo, gli Abrams americani hanno saputo prendersi la scena, spiccavano orgogliosamente nel vuoto del deserto, imponenti, duna di sabbia nella sabbia; reggevano bene la concorrenza delle nuove star dell’arma aerea, l’elicottero Apache, il cacciacarri Thunderbolt con la sua Gatling da cartone animato, i missili da crociera Tomahawk.

Oggi disponiamo di una tale varietà di mezzi corazzati da farci venire dubbi gnoseologici su cosa sia o non sia un carro armato. L’Enciclopedia Treccani, per la cronaca, lo definisce un “veicolo munito di scafo corazzato, dotato di movimento autonomo e armato di bocche da fuoco (cannone e mitragliatrici)”.

Ultimamente, alcuni esperti del ramo pronosticavano la fine del carro armato: troppo costoso, troppo vulnerabile ad armi relativamente economiche e facili da usare, come i lanciarazzi e i droni. La prima fase della guerra in Ucraina sembrava dare ragione a queste Cassandre, ma ora l’Ucraina stessa chiede carri armati.

La suggestione ispirata dagli scontri tra carri ivi in corso è amplificata dalla presenza sul campo di battaglia di vecchi modelli sovietici, eredi diretti dei mitici T-34 di Kursk e Stalingrado… e ora, ecco arrivare anche i Leopard della Bundeswehr. Ricorda che, durante la Guerra Fredda, il Patto di Varsavia accusava abitualmente la NATO e la Germania Ovest di voler rifondare la Wehrmacht e riabilitare silenziosamente i nazisti (vero, ma accadeva anche nella Germania Est, dove non pochi confluirono nella Stasi): mettendo insieme i puntini, la propaganda russa sul nazismo ucraino ti sembrerà meno lunare e l’effimera, isolata resistenza della Cancelleria tedesca meno bizzarra. Dico bizzarra perché, dopo aver fornito all’Ucraina ogni sistema d’arma in catalogo, non sono i Leopard a fare la differenza: è, appunto, una questione di suggestioni.

Attacco l’Austria-Ungheria con otto Armate.

Stan

Simboli natalizi

Mia cara Berenice,

ancora buona Natale.

Si festeggia anche in Ucraina, dove la neve cade frammista a bombe russe.

Anche in Ucraina, dove fino all’anno scorso si festeggiava in gennaio, secondo il calendario ortodosso. Il Patriarcato di Kiev, ormai scismatico rispetto a quello di Mosca, ha ordinato che la Messa natalizia si celebri oggi, salvo ripeterla – almeno per un periodo transitorio – in gennaio, secondo la tradizione.

Senza voler scadere nel tifo da stadio da salotto televisivo, l’impressione è che la cosiddetta “operazione militare speciale” abbia spezzato il delicatissimo equilibrio che teneva sospeso tra Occidente e Oriente un Paese dilaniato da forti pulsioni filorusse e altrettanto potenti forze antirusse.

Tra le prime, possiamo citare le seguenti.

La lingua. Oltre un ucraino su tre ha come prima il russo o è bilingue, ma quasi tutti comunque parlano il russo.

La storia. La Rus’ di Kiev può essere considerata il primo embrione, quantomeno ideale, dello Stato russo. L’Ucraina, inoltre, faceva parte dell’Impero Russo e dell’Unione Sovietica.

I cosacchi. Non erano solo ucraini, né sempre così disciplinati, né gli unici a servire sotto le armi zariste, ma erano considerati la spada russa per antonomasia.

Le forze antirusse sono altrettanto forti e tendenzialmente più recenti, pur avendo solide radici storiche.

Al primo posto, infatti, troviamo di nuovo i cosacchi. Non sempre, come ho detto, furono così incondizionatamente fedeli allo Zar, erano piuttosto truppe riottose che si tolleravano per il loro grande potenziale combattivo, un po’ come certi eroi d’azione delle pellicole americane. Se il loro rapporto con l’Imperatore fu altalenante, di certo odiavano il Partito Comunista. Durante la Guerra Civile Russa, si schierarono con la fazione bianca. Durante la Seconda Guerra Mondiale, ebbero legami con l’Asse, così come un parte dei vertici politici e intellettuali ucraini – un elemento su cui è imperniata la propaganda russa contemporanea. La croce equilatera bianca dei cosacchi è recentemente ricomparsa sui mezzi delle Forze Armate ucraine.

Questo ci porta all’Holomodor, la carestia creata a tavolino dai pianificatori comunisti per domare l’Ucraina negli anni ’30, ormai diffusamente riconosciuta come crimine di genocidio.

Ultimo ma non ultimo, abbiamo il legame storico con la Polonia, bastione cattolico e anticomunista – di nuovo, non a caso, la propaganda russa fa riferimento anche a un presunto cattolicesimo ucraino. Basti dire che una delle canzoni diventate simbolo della resistenza all’Armata russa, “Hej Sokoly”, è comune a Ucraina e Polonia.

Riassumendo, temo che la mossa scomposta di Putin abbia definitivamente reciso il cordone ombelicale russo-ucraino, basato su componenti organiche ormai risalenti, non scevre di ambiguità e sbilanciate in favore della Russia, scatenando un guerriero delle steppe fortemente antirusso e dall’antichissima, temuta tradizione militare.

Da una parte, è una buona notizia. Difficilmente l’Ucraina potrà mai essere soggiogata. Troverà sempre una sponda nell’Europa dell’Est antirussa (Polonia e Repubbliche baltiche), ma soprattutto continuerebbe a resistere – certo, con maggiore fatica e probabilmente con mezzi meno convenzionali – anche in caso di attenuazione degli aiuti occidentali. Dopotutto, la prima e più decisiva fase della guerra, la battaglia di Kiev, ci racconta la storia di una difesa organizzata più con determinazione e capacità di improvvisare che con dovizia di mezzi, combinando strumenti informatici, propaganda, resistenza spontanea e droni turchi non certo classificati come armi di punta. La famosa interminabile colonna corazzata russa verso la capitale sarebbe stata neutralizzata dall’unità di ricognizione aerea Aerorozvidka, un gruppo di informatici che tallonava i carri armati su quad acquistati mediante crowdfunding. Leggende della propaganda? Può darsi. Eppure in effetti, in quelle prime settimane, nessuno credeva nella possibilità di salvare Kiev, tanto che al Governo ucraino era stata offerta l’estrazione su mezzi americani.

La cattiva notizia è che la pace è molto, molto lontana, come ha evidenziato recentissimamente uno degli osservatori più qualificati, il Governo turco. Il Cremlino lamenta il fatto che l’Ucraina sarebbe eterodiretta dall’Occidente, ma, paradossalmente, solo una forte pressione euroamericana potrebbe convincere Kiev ad accontentarsi di qualcosa di meno della piena vittoria.

Un saluto.

Stan

Sant’Himars

Mia cara Berenice,

in Iraq circolavano i mazzi di carte americani con le foto dei gerarchi ricercati, in Ucraina girano dei santini: San Bayraktar, San Javelin e ora Sant’Himars.

HIMARS sta per High Mobility Artillery Rocket System, sistema lanciarazzi ad alta mobilità, fondamentalmente un lanciarazzi multiplo montato su camion simile – per fare un paragone che farebbe inorridire gli esperti – al vecchio Katiuscia sovietico.

Di questi sistemi, l’Ucraina ne avrebbe ricevuti otto, mentre altri otto sarebbero in arrivo.

Secondo la Lockheed Martin, la casa produttrice dell’HIMARS, ce ne sarebbero 540 già operativi in tutto il mondo; quasi tutti sotto bandiera americana, dato che, sempre secondo la Lockheed, l’articolo è stato pochissimo esportato, anche in ambito NATO.

Ecco dunque che l’HIMARS diventa un’arma chiave non solo per combattere la guerra, ma anche per capirla.

Su 540 operativi (e altri presumibilmente in magazzino), l’Ucraina ne avrà solo 16, per giunta non dei modelli più potenti. Gli Stati Uniti, infatti, hanno limitato la consegna agli HIMARS con gittata fino a 70 km, per assicurarsi che l’Ucraina non bombardasse in profondità il territorio russo.

Come quasi tutti i dati, anche questo si può leggere in due modi.

Da una parte, sembra avvalorare la tesi secondo cui gli Stati Uniti mirano cinicamente ad allungare la guerra tra Ucraina e Russia, più che a far prevalere Kiev.

Dall’altra, però, il censimento gli HIMARS smonta la narrazione secondo cui Washington avrebbe un atteggiamento imprudente, squilibrato e provocatorio nei confronti del Cremlino.

Un impassibile saluto da giocatore di poker.

Stan

Illuminazione sulla via di Kiev

Mia cara Berenice,

il Pontefice ha rilasciato a La Civiltà Cattolica, la rivista della Compagnia di Gesù fondata nel 1850, un’intervista balzata agli onori della cronaca soprattutto nella parte dedicata alla guerra in Ucraina.

Dopo aver ammonito che “non ci sono buoni e cattivi metafisici”, il Papa, citando un Capo di Stato straniero anonimo che aveva previsto la guerra, ha ripreso la sua nota frase sull’abbaiare della NATO alle porte della Russia.

Non è su questo, però, che voglio soffermarmi. Fedele alla sua augusta tradizione diplomatica, la Santa Sede sta portando avanti una mediazione che potrebbe rivelarsi di valore, in una controversia non priva di riflessi religiosi. Al fianco del Cremlino c’è – come sempre nella storia – il Patriarcato di Mosca e i nazionalisti russi tacciano l’Ucraina non solo di neonazismo, ma anche di cattolicesimo. Significativamente, la Russia ha accolto con favore i felpati passi della Santa Sede. Quindi, ben vengano gli equilibrismi, tipici del resto dell’ambiente curiale romano.

Quello che più mi ha colpito, forse addirittura spaventato, è come proprio nel pieno del suo sforzo di bilanciamento il Papa abbia pronunciato una frase illuminante ai miei occhi, ma nel senso opposto a quello auspicato da Sua Santità. “Non capiscono,” ha detto il Pontefice, sempre citando l’innominato Capo di Stato straniero, “che i russi sono imperiali”.

È vero, verissimo. Il Presidente russo Putin stesso, in questi giorni, ha rievocato lo Zar Pietro il Grande. Altri commentatori avevano già espresso lo stesso concetto, in modo più articolato del Papa, ma con minore forza di sintesi, la sferzata del lampo che squarcia l’oscurità.

Come può un impero vivere all’interno di un ordine internazionale che, pur nell’effervescente ed effimero frizzare della globalizzazione, resta solidamente imperniato sugli Stati nazionali? Non può o ci riesce a fatica, adottando una pelle ibrida sempre suscettibile di muta, di essere gettata secca e accartocciata a terra.

Un documentaristico saluto.

Stan

Non odiare il lunedì

Mia cara Berenice,

l’altro ieri, 9 maggio, era la Giornata dell’Europa, l’anniversario del raid indipendentista veneto sul Campanile di San Marco e della vittoria sovietica nella Seconda Guerra Mondiale.

Una data molto temuta, perché si paventava qualche terrificante post degli esperti di comunicazione della Commissione, la comparsa dell’ennesimo carro armato artigianale in Veneto o un’apocalittica dichiarazione di guerra del Presidente Putin dalla Piazza Rossa.

Ciò non è avvenuto, facendo sperare in una possibile pace e sottolineando la debolezza della Russia fiaccata dall’invasione, tanto che gli analisti si interrogano sull’annullamento del trasvolo, ufficialmente imputato a cattive condizioni meteo, anche se sui cieli di Mosca splendeva il sole.

A emergere, infine, è stata la debolezza estrema della giustificazioni russe del fallito blitz ucraino, incoerenti e contraddittorie.

Nel suo discorso del 22 febbraio, il Presidente Putin scelse di dare un taglio storico, sostenendo in buona sostanza che le Repubbliche ex sovietiche sarebbero una costruzione artificiosa, un mero accidente, un’aberrazione della propaganda e della politica bolscevica, puntando esplicitamente l’indice contro Lenin – dovrebbe ricordarlo chi, dall’estrema sinistra, sostiene Mosca.

In un successivo discorso del 24 febbraio, notificato ufficialmente al Segretario Generale delle Nazioni Unite dal Rappresentante Permanente russo, si citato presupposti completamente diversi, ossia gli interventi militari occidentali nei Balcani, in Iraq, in Siria e in Libia. Operazioni concluse da tempo. Quella in Libia, poi, autorizzata dal Consiglio di Sicurezza grazie all’astensione della Russia.

L’altro ieri, nuovo revirement. L’invasione russa dell’Ucraina diventa un attacco preventivo, per prevenire uno analogo occidentale – contro una Potenza nucleare?

Tornando alla Giornata dell’Europa, a Roma la si è festeggiata con un concerto in Campidoglio, che ho potuto comodamente raggiungere dopo il lavoro. Oltre alle varie Autorità europee e nazionali, civili e religiose, erano presenti gli Ambasciatori degli Stati membri e l’Ambasciatore d’Ucraina. Il legato di Francia, Paese che detiene la Presidenza di turno, ha pronunciato un discorso davvero ispiratore. In generale, l’appoggio a Kiev è stato chiaro e netto, senza troppi distinguo che avrebbero violato il precetto evangelico “sit verbum vestrum: est, est; non, non”, per di più alla presenza di un Cardinale Arcivescovo.

L’Azienda Comunale Elettricità e Acque aveva illuminato gli edifici del Campidoglio con i colori dell’Unione.

Un solenne saluto.

Stan

Organi delle Nazioni Unite e anacronismi

Mia cara Berenice,

la visita a Mosca del Segretario Generale Guterres, impilato dal Presidente Putin in cima all’estremità del solito, grottesco tavolone, difficilmente farà dimenticare il ruolo marginale dell’ONU nella crisi ucraina.

Allo stesso modo, è probabile che solo i giuristi faranno attenzione alla Risoluzione approvata ieri dall’Assemblea Generale per contrastare l’utilizzo del diritto di veto da parte dei cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Russia e Cina.

Ogni volta che tale diritto sarà esercitato, l’Assemblea si riunirà automaticamente e discuterà la condotta tenuta dal membro permanente. Una misura non drastica, ma certamente imbarazzante e chiaramente mirata alla Russia – la Cina, oltre ad avere tenuto una linea piuttosto ambigua, nella prassi preferisce astenersi.

Viene in mente il 1956, quando l’Assemblea Generale, scavalcando il Consiglio di Sicurezza bloccato dal veto anglo-francese, schierò la prima forza di pace ONU in Egitto, invaso da Londra e Parigi per aver nazionalizzato il Canale di Suez.

In quel caso, Gran Bretagna e Francia vollero comportarsi da imperi, organizzando una spedizione punitiva coloniale senza consultare Stati Uniti e Unione Sovietica.

Oggi, la Russia è convinta di essere ancora, appunto, l’Unione Sovietica.

Un parallelo saluto.

Stan

Europa e guerra, Europa in guerra, Europa di guerra

Mia cara Berenice,

non mi aspettavo tanto entusiasmo, da parte tua, per il riarmo della Germania: hai già dimenticato Sadova e la perdita del Lombardo-Veneto?

Oltretutto, in ambito militare l’Europa non spende così poco, piuttosto spende male. Poco fa, l’Alto Rappresentante Josep Borrell notava che le spese militari europee sono quasi l’equivalente di quelle cinesi e il quadruplo di quelle russe.

Da una parte, la Cina dichiara, secondo le stime, la metà di quanto spende. Dall’altra, immagino che Borrell non tenesse conto della Gran Bretagna, le cui forze armate non sono affatto disprezzabili.

Come mai una cleptocrazia come la Russia spende un quarto di noi e può permettersi interventi in Siria e Ucraina, mentre noi non oseremmo invadere il Bhutan? C’è il terror belli di cui l’Europa è imbevuta dopo due Guerre Mondiali, certo; ma ci sono anche, banalmente, duplicazioni e inefficienze, come dimostrato dal tentato intervento anglo-francese in Libia.

Inoltre, come diceva il mio vecchio amico G., grande esperto di guerra sottomarina, è inutile integrare le forze armate europee, finché non esiste una vera politica estera e di difesa comune, sottratta al diritto di veto di ciascuno Stato membro.

Tuttavia, l’infame guerra in Ucraina un impatto positivo l’ha avuto. Approfittando dello sconvolgimento portato dal conflitto, il senatore Giovanni Pittella, detto Gianni, già Vice-Presidente Vicario e capogruppo socialdemocratico al Parlamento Europeo, ha osato rompere un vero e proprio tabù. Nel corso di un’audizione davanti alla Commissione Finanze della sua Camera, Pittella ha ammesso che sul PNRR bisogna “avere il coraggio di guardare la realtà. Il termine ultimo del 2026 perché la spesa debba essere certificata è oggi irrealistico”. Naturalmente, Pittella ne incolpa soprattutto la guerra, ma ha l’onestà di accennare anche alle criticità amministrative, soprattutto nei Comuni.

Insomma, viene finalmente certificato l’ovvio. Perché costringere l’Italia, che fatica a spendere i fondi europei ordinari in un settennio, a impiegare una somma enormemente più elevata in un quinquennio? Nella peggiore delle ipotesi, sarà un plateale fallimento, non solo per l’Italia, ma anche per le Istituzioni europee e il processo di integrazione. Nella migliore, avremo una spesa di pessima qualità, forse ancora più deleteria.

Un profetico saluto.

Stan

Chernobyl

Mia cara Berenice,

l’improvvisa e improvvida invasione russa dell’Ucraina – personalmente, ero convinto si sarebbero accontentati del Donbass, rimettendo in scena il copione già visto per la Crimea – ha scatenato la prevedibile guerra di propaganda, arte in cui del resto i russi sono degni eredi dei sovietici.

Le fonti dirette sono poche, le notizie si contraddicono, il materiale caricato in Rete non sempre è attendibile; la stampa italiana, per esempio, si è fatta turlupinare da foto di una parata militare del 2020 e addirittura di un videogioco.

Tuttavia, lo stesso Governo di Kiev avrebbe ammesso che la Russia ha preso il controllo dell’ex centrale nucleare di Chernobyl, sopraffacendo la locale guarnigione. È difficile immaginare battaglia che sia simbolo più eloquente di questa guerra.

C’è tutto.

L’incoscienza di combattere tra scorie radioattive e misure di contenimento sovietiche (il famoso sarcofago in cemento armato colato sul reattore) la cui obsolescenza ha suscitato non pochi allarmi fra gli esperti.

Gli strascichi dell’ottusa oppressione russa.

La comprova dei tratti coloniali, ereditati dall’Impero zarista, di un’Unione Sovietica ufficialmente federalista o addirittura confederale, in pratica iper-centralizzata.

La miseria di combattere per un lembo di terra contaminata.

Il sapore di presagio della fortunata miniserie angloamericana del 2019, accolta in Russia con una denuncia per diffamazione da parte del Partito Comunista, ma anche dei vari film e videogiochi occidentali hanno sfruttato Chernobyl come ambientazione dell’orrore, immaginando che il pulsante cuore radioattivo generasse mostri, mutanti, golem, zombie…

Chernobyl.

Un saluto gracchiante diffuso dagli altoparlanti.

Stan

Bolshoi

Mia cara Berenice,

la Federazione Russa non sarà l’unico Stato a riconoscere le Repubbliche Popolari del Donetsk e del Luhansk: lo farà anche la Siria, come annunciato dal Ministro degli Esteri Faisal Mekdad.

Dal punto di vista estetico, un filo rosso di coreografia e teatralità lega gli interventi militari russi in Medio Oriente e sulle sponde del Mar Nero.

Nel 2016, dopo la liberazione di Palmira dal Califfato, l’Orchestra Mariinsky di San Pietroburgo al completo si esibì tra le millenarie rovine dell’anfiteatro romano.

La liberazione dell’antica città costò la vita al tenente Alexander Prokhorenko, Eroe della Federazione Russa. Sulla Rete venne fatto circolare l’audio, da alcuni ritenuto apocrifo, dell’ultima trasmissione radio dell’ufficiale.

“[I miliziani dello Stato Islamico] sono qui fuori, effettuate subito l’attacco aereo, sbrigatevi, è finita, dite alla mia famiglia che li amo e che sono morto combattendo per la Patria”.

“Negativo, rientra alla Linea Verde!”

“Comando, è impossibile. Sono circondato, sono qui fuori, non voglio che mi prendano e mi esibiscano come un trofeo, effettuate l’attacco aereo, scherniranno me e la mia uniforme. Voglio morire con dignità e portarmi dietro tutti questi bastardi. Esaudite il mio ultimo desiderio, effettuate l’attacco aereo, mi uccideranno comunque”.

“Confermare richiesta”.

“Sono qui fuori, è la fine, comandante, grazie, dite alla mia famiglia e al Paese che li amo. Dite loro che sono stato coraggioso e che ho combattuto fino all’ultimo. Prendevi cura della mia famiglia, vendicate la mia morte. Addio, comandante, dica alla mia famiglia che li amo!”

Vero o meno che sia l’audio, lo stesso spiccato gusto propagandistico è risultato evidente sia in occasione della presa della Crimea, sia in quella della ripresa delle ostilità militari nel Donbass.

Nel primo caso, in aggiunta al profondo simbolismo storico della penisola, abbiamo visto gli uomini in tute nere e i veicoli militari senza contrassegni eruttati letteralmente dalla terra, un’epifania suggellata dall’invocazione di un istituto giuridico antico e dimenticato, simile alle formule magiche usate nei primissimi processi della Roma arcaica: annessione.

Nei giorni scorsi, invece, abbiamo assistito a una riunione in diretta televisiva, attentamente coreografata, del Consiglio di Sicurezza Nazionale russo presieduto dal Presidente, esibitosi poi in un drammatico discorso alla Nazione nel quale, evocando le glorie passate e attaccando l’apparato comunista di cui pure faceva parte, si è ben meritato il soprannome di Zar.

Ora, prevedibilmente, affluiscono i primi video di colonne militari russe che attraversano il confine, a coronamento di settimane di immagini satellitari sgranate di carri armati, elicotteri, caserme e ospedali da campo.

Un inchino.

Stan