Un milione di parole

Mia cara Berenice,

il contatore dell’agenzia già americana, ora israeliana mio principale committente parla chiaro. Nel corso della mia carriera di traduttore, iniziata ufficialmente nel 2015 ma intensificatasi negli ultimi anni, ho tradotto oltre un milione di parole.

Un milione di parole: logorrea.

Uno di quegli interminabili convegni accademici o giuridici in cui ogni relatore riprende il medesimo tema funditus.

Una sessione parlamentare notturna in cui un deputato dell’opposizione parla senza mai fermarsi o sedersi, a scopo ostruzionistico.

Un biblico fiume di latte e miele.

Una cascata che abbraccia lo sguardo e assorda con il suo boato.

Una vecchia canzone cantata al Festival di Sanremo e trasmessa dalla RAI in bianco e nero: “Un milione di paroleeee…”

Il Corpus Juris Civilis o il Corpus Juris Canonici.

Le pezze per rendicontare un progetto europeo Interreg.

Le circunlocuzioni in antico giapponese curiale, quando devi spiegare ai tuoi sudditi che l’Impero ha perso la guerra e tu, discendente diretto della dea del sole Amaterasu, dovrai rinunciare agli onori divini.

Il rapporto alluvionale di una Sottocommissione dell’ONU che deve giustificare la sua esistenza e le sue prebende.

Forse però sono troppo cupo, in fondo è stato un vasto, morbido arazzo variegato e arlecchinesco, una fantasmagoria di donne, cavalieri, arme e amori, non priva di snodi drammaturgici memorabili: la cartella clinica in portoghese del bambino caduto in vacanza in Brasile, il catalogo di bustini e corsetti, i bugiardini dei prodotti naturopatici da non qualificare assolutamente come presidi medici.

No, ne è valsa la pena.

Ad majora.

Stan

Profumo d’Oriente

Mia cara Berenice,

ricordi quando ti dissi di essere un traduttore – calcando un poco la mano per fare colpo – e tu mi sfidasti a declamare un certo discorso di Bismarck al Reichstag?

Facesti bene a stroncare il mio gallismo, anche perché quella del traduttore è una professione fantozziana.

Il cottimo più estremo, pagato un tot di centesimi a parola – ma se sei pagato a cartella o a ora, è peggio.

Proprio ieri pomeriggio riflettevo sulla testarda attitudine di clienti e agenzie a usare per le traduzioni i fogli di calcolo, progettati per tutt’altro e prevedibilmente inadatti, quando improvvisamente mi è piovuta sullo schermo la mail di una project manager, che chiameremo Kelly Hu in omaggio alla grande attrice americana.

Project manager, chi è costei? Si tratta di una traduttrice o ex traduttrice, assunta da un’agenzia per coordinare e supervisionare il lavoro di più traduttori su più progetti. Ne parlo al femminile perché, per qualche misteriosa ragione, è invariabilmente una ragazza: forse perché incarna il femminile nel suo essere, al tempo stesso, indispensabile e foriera di sventure.

Kelly sollecitava, per l’appunto, la consegna del foglio di calcolo su cui stavo lavorando, cercando di imprimere un minimo di decenza nella traduzione automatica di una serie di notizie finanziarie sui mercati asiatici.

Per un attimo, penso che si tratti solo di un gentle reminder: la consegna era fissata per le diciotto ora di Greenwich, quindi diciannove ora di Roma. Tuttavia, so per esperienza che la project manager ha sempre uno stiletto nascosto sotto i pizzi, per cui rileggo rapidamente il carteggio pregresso, dai cui codicilli emerge l’amara verità: la consegna era fissata alle diciotto ora di Hong Kong, il che spiega perché tutte le project manager di quest’agenzia abbiano un prenome inglese e un cognome cinese.

Poco male, la revisione è quasi completata e la spedisco a strettissimo giro. Kelly si profonde in ringraziamenti. Maledette Triadi.

Ti saluterei come nel kung fu, ma temo non sia possibile per iscritto.

Stan