In pericolo, in pericolo, in pericolo

Mia cara Berenice,

come ti accennavo in una delle mie ultime, sto leggendo “L’anno della morte di Ricardo Reis” di José Saramago. I primi capitoli si svolgono a cavallo della notte di San Silvestro, da qui un riferimento all’usanza di salutare il nuovo anno gettando roba vecchia dalle finestre delle case. A quanto pare, nel Portogallo degli anni ’30 questa tradizione veniva presa molto alla lettera, tanto che Saramago ci descrive il volo di “stracci, scatole vuole, ferrivecchi, avanzi e lische raccolti in giornali,” addirittura “un vaso di terracotta pieno di braci ardenti,” fino a un manichino a tre piedi che, sfiorando i fili del tram, rischia di causare un brutto incidente. Nel frattempo, la gente per la via tira dritto “cercando la protezione dei balconi, rasente gli edifici, grida verso l’alto, ma non sono nemmeno proteste, l’usanza è comune”.

Quando è grande, mia diletta, la forza della tradizione. Costringe le famiglie a dissanguarsi nelle varie ricorrenze, i laureandi di certi Atenei a farsi spogliare, impiastricciare, picchiare, a ingoiare cibi e bevande completamente alieni al gusto contemporaneo (e guai a mutare di un milligrammo la ricetta!), le Autorità a sopportare che durante il Carnevale si giri per le strade mascherati e travisati, e potrei continuare.

Stupisce che intorno a questo Moloch zannuto cavernoso e ringhiante si accalchino così tanti accoliti, in testuggine ermeticamente serrata a difesa, salmodiando ininterrottamente che la Tradizione è in pericolo, è in pericolo, è in pericolo. Non parlo solo di politici e filosofi di destra, ma anche del tentacolare associazionismo locale, dell’industria culturale anche nazionale generalmente collocata a sinistra, fino ad arrivare a organizzazioni internazionali promotrici della Convenzione per la Salvaguardia del Patrimonio Culturale Immateriale, conclusa a Parigi il 17 ottobre 2003, autorizzazione alla ratifica e ordine di esecuzione dati in Italia con Legge 27 settembre 2007, n. 167.

Nel relativo registro, tenuto dall’UNESCO, la Farnesina è riuscita a fare includere i pupi siciliani, il canto a tenore sardo, la liuteria di Cremona, la dieta mediterranea, la Festa dei Gigli di Nola, la Varia di Palmi, la Faradda dei Candelieri di Sassari, la traslazione della Macchina di Santa Rosa a Viterbo, la vite di Pantelleria, la falconeria, la pizza napoletana, il muretto a secco, la Perdonanza Celestiniana de L’Aquila, l’alpinismo, la transumanza, le perle di vetro, il corno da caccia, la cerca del tartufo.

Mi risulta che l’Università “Ca’ Foscari” di Venezia si stia adoperando per fare includere la gondola, lo scalmo e lo squero, magari unitamente a mille altre sfaccettature della città lagunare.

Nessun accenno invece al Palio di Siena, ma questo non deve stupire. Esso è una magia, un rituale costantemente ripetuto durante l’anno per racchiudere Siena in una bolla fuori dal tempo, autocontenuta e autosufficiente, impermeabile a interlocuzioni con la sede dell’UNESCO a Parigi.

Eppure, è impossibile non ricordare la Mamá Grande di Gabriel García Márquez che, in punto di morte, detta “al notaio l’elenco del suo patrimonio invisibile: La ricchezza del sottosuolo, le acque territoriali, i colori della bandiera, la sovranità nazionale, i partiti tradizionali, i diritti dell’uomo, le libertà cittadine, il primo magistrato, la seconda istanza, il terzo dibattito, le lettere di raccomandazione, le constatazioni storiche, le elezioni libere, le regine di bellezza, i discorsi trascendentali, le grandiose manifestazioni, le distinte signorine, i signori educati, i puntigliosi militari, sua signoria illustrissima, la corte suprema di giustizia, gli articoli di importazione proibita, le signore liberali, il problema della carne, la purezza della lingua, gli esempi per il mondo, l’ordine giuridico, la stampa libera ma responsabile, le Atene sudamericane, l’opinione pubblica, gli insegnamenti democratici, la morale cristiana, la scarsità di divise, il diritto di asilo, il pericolo comunista, la nave dello stato, la carestia della vita, le tradizioni repubblicane, le classi bisognose, i messaggi di adesione. Non riuscì a terminare. La laboriosa enumerazione troncò il suo ultimo respiro”.

Un saluto da Macondo.

Stan

Di magro

Mia cara Berenice,

oggi ho pranzato al ristorante siciliano di Piazza San Cosimato: risotto con frutti di mare, orata in crosta, caponata.

Bizzarra contraddizione!

Il pesce è considerato un piatto più pregiato della carne, eppure l’obbligo canonico di mangiare di magro il venerdì ha generato proprio la tradizione di portare in tavola i doni del mare.

“Quando don P. era arciprete del Duomo,” raccontava nonna, “davanti alla chiesa c’era quella famosa pescheria, sotto i portici. Ogni venerdì, vedeva la mogli dei signori entrare, tutte ingioiellate, e scegliere il pesce più pregiato. Ne era disgustato: sarebbe stata penitenza, quella?”

Ricordo bene don P., lo intervistai per preparare l’esame di diritto canonico, dato che era il Presidente del Tribunale Ecclesiastico. Fatico a immaginarlo così fautore della lotta di classe, era noto per essere un prete vecchio stampo, fedele al colletto e alla tonaca quando, ormai, i suoi colleghi di provincia erano da tempo passati a informi maglioni scuri. La casa canonica in cui mi ricevette era un moderno appartamento tirato a lucido, con tanto di perpetuo. Va dunque precisato che, a nonna, le signore ingioiellate non piacevano a prescindere dai racconti di don P. o dalle preferenze culinarie dei loro mariti.

In ogni caso, quella che don P. presuntivamente disapprovava era, all’occorrenza, un’arma potente nelle mani del clero.

In “Don Camillo e l’onorevole Peppone” (Italia, 1955) vediamo il parroco e il sindaco (divenuti rispettivamente monsignore e onorevole) brigare nella notte per far ritrovare anonimamente alle Autorità un carro armato, residuato della Seconda Guerra Mondiale, mai denunciato da una famiglia di contadini.

Nel caos che ne segue, don Camillo fa inavvertitamente irruzione in un’altra casa di campagna, i cui occupanti sono pacificamente intenti a cenare. Per distrarli e non destare sospetti, li apostrofa severamente: “Oggi è venerdì, avete mangiato di magro?”

Del resto, il pesce ha un profondo significato mistico fin dai tempi paleocristiani, quando il suo nome greco ichthys si faceva acronimo di Iesous Christos Theou Yios Soter, Gesù Cristo Figlio di Dio Salvatore.

Ai giorni nostri, invece, come dicevamo, il pesce è simbolo soprattutto di Mammona: dal crudo e il sushi particolarmente di moda oggi, a classici come l’aragosta, il caviale e le ostriche, queste ultime esponenzialmente potenziate, come un Pokémon al massimo livello evolutivo, dal loro potere perlifero.

In “Si vive solo due volte” di Ian Fleming, la Bond girl è appunto la pescatrice di ostriche Kissy Suzuki. Anche in questo caso, di magro c’è davvero poco, se non l’attrice giapponese Mie Hama, che interpretò la pescatrice nell’omonimo film del 1967.

Un salso saluto.

Stan

Le sagre venete

Mia cara Berenice,

non è un caso che la mia pur breve permanenza nelle Venezie mi abbia portato, e per ben due volte, in una sagra.

Le sagre, nella mia terra natia, sono onnipresenti e inossidabili, niente e nessuno può scalzarle, nemmeno la pandemia… non è vero, moltissime sono saltate nonostante le disposizioni permissive del Governatorato, ma quella della mia Parrocchia, no.

Ci sono stato due volte con i miei genitori, clienti assidui. Mio padre, in particolare, è disposto a mangiare fuori dal perimetro del desco casalingo solo ed esclusivamente per barattarlo con la tovaglia di plastica del tavolo numerato di una sagra.

La sagra si tiene normalmente in coincidenza con la festività del santo patrono della Parrocchia, in uno spazio della Parrocchia stessa o del Comune, sotto la supervisione di un’associazione locale, la Pro Loco. Parrocchia, Pro Loco… enti paciosi e innocui le cui facciate scrostate celano, sovente, lotte feroci in cui si brandiscono i coltelli. D’altronde, il frusciare dei soldi che circonda le casse della sagra, per quanto coperto dalla musica pompata dalle casse per accompagnare il ballo liscio, non è sempre così inconsistente, nonostante la blanda attenzione riservata al medesimo dalle Autorità pubbliche e tributarie in particolare.

La sagra è infatti, in fin dei conti, un’impresa di ristorazione. File e file di tavole e panche di legno allineate sotto un tendone, su ogni tavolo un numero e un blocchetto per scrivere le ordinazioni da cui penzola, legata con lo spago, una penna o una matita.

Gli avventori si accomodano sulle panche, compilano il blocchetto con l’ordinazione e il numero del tavolo, strappano il foglio e inviano un rappresentante, di solito il capofamiglia, a mettersi pazientemente in fila davanti alla cassa per il pagamento, effettuato il quale la comanda viene spedita direttamente nelle cucine.

Poco dopo, dalle cucine stesse o dalla frasca esce una giovane e graziosa ragazza, la cui uniforme può essere una semplice maglietta colorata, con un vassoio su cui sono affastellate le bibite, posate e bicchieri di plastica. Dopo un certo tempo, seguirà una seconda inserviente con tovagliette di carta e il cibo: carne alla griglia, polenta abbrustolita, patatine fritte, fagioli con la cipolla, tocchi di carne allo spiedo, formaggio alla piastra.

Fra i tavoli, altre due spigliate ragazze spingono il carrello dei dolci – a volte preparati dalle brave signore della Parrocchia, a volte industriali – da proporre a chi ha già concluso con il salato.

La terza ondata è composta da due simpatici bambini. Uno si trascina dietro un sacco di plastica, l’altro vi sospinge tutto ciò che è rimasto sui tavoli.

La faccenda può concludersi qui o avere un esiguo contorno di intrattenimento: una pista da ballo in legno su cui ballare il liscio o roba più moderna, oppure la famigerata pesca di beneficenza. Nel secondo caso, si acquistano uno o più bigliettini di carta che, una volta srotolati, rivelano un numero. Li si consegna a una delle ragazze dietro al bancone e, salvo colpi straordinari di fortuna rappresentati dalla “pesca” di un numero particolarmente basso, si ricevono confezioni di spugne, pacchetti di biscotti di cui è bene verificare la scadenza, piccoli accessori per la casa, tubi di bolle di sapone o altre amenità.

È inutile significare a una ragazza del tuo buon gusto quanto tutto ciò sia meraviglioso.

Avete nulla del genere, in Austria?

Un popolaresco saluto.

Stan

Il matrimonio italiano

Mia cara Berenice,

la pandemia marcia, non più implacabile ma comunque decisa, sulla stagione dei matrimoni.

Io ne avevo in agenda tre: uno in giugno, provvisoriamente rinviato ad agosto, e due in settembre. Presumo che entrambi si terranno l’anno prossimo, a cavallo di ulteriori nozze.

Il matrimonio italiano, infatti, è poco compatibile con il distanziamento sociale, anche per l’elevato numero di invitati.

Vengono spedite due tipologie di inviti, la partecipazione e l’invito vero e proprio. La prima è una mera comunicazione della cerimonia, il secondo conferisce il diritto di partecipare ai festeggiamenti successivi.

La prima tappa della giornata è in chiesa, anche se è sempre più diffusa e accettata la variante civile che si svolge in Municipio. In chiesa la sposa si presenta con il tradizionale abito bianco, in Municipio a volte potrà accontentarsi di un semplice abito elegante.

La cerimonia religiosa è generalmente ritenuta più coreografica, anche se, per accedervi, il diritto canonico prevede qualche orpello burocratico. Io, come sai, non apprezzo molto la Messa postconciliare e, d’altro canto, trovo affascinante il rito officiato dal sindaco o dall’ufficiale di stato civile con la fascia tricolore.

La cerimonia religiosa è quasi sempre concordataria, vale a dire che il matrimonio, a seguito di determinati adempimenti del parroco, acquisirà effetti civili. In particolare, il parroco dovrebbe dare lettura agli sposi degli articoli del Codice Civile disciplinanti il matrimonio. Non sempre vi provvede e immagino che, in quei casi, ci si limiti a dare atto dell’avvenuta lettura nell’atto di nozze.

Secondo l’impostazione più classica, lo sposo arriva in chiesa per primo; sopraggiunge poi la sposa, accompagnata dal padre. Durante il rito, gli sposi si scambiano gli anelli e, spesso, le promesse matrimoniali.

Concluse le formalità, gli invitati li attendono sul sagrato bersagliandoli di manciate di riso. A volte sono previsti gli scherzi agli sposi, come il farli salire su un veicolo dimesso o ridicolo, spesso avvolto nella carta igienica. Questa scena ti farà inorridire, e a ragione. Oltretutto, in tempi di pandemia, la carta igienica è diventata un bene prezioso.

A questo punto, gli invitati vengono indirizzati verso il ristorante, non sempre a un tiro di sasso dalla chiesa. Gli invitati consumano un primo rinfresco e attendono il sopraggiungere degli sposi, quasi sempre trattenuti dalle foto di rito.

Giunti finalmente i novelli coniugi – dopo un’attesa proverbialmente lunga – inizia l’interminabile pranzo che si protrae per ore, snodandosi lungo portate e portate, fino a sera, con canti balli e cotillon vari.

Temo che dal mio stile, smorto e crescentemente affrettato, traspaia quanto poco io ami i matrimoni – ebbene, è così, e a chi mi invita in genere lo dichiaro onestamente, pur senza rifiutare, cosa che costituirebbe quasi un oltraggio.

Negli ultimi anni, grazie al reality show “Il boss delle cerimonie” (ora “Il castello delle cerimonie”, per la semplice ragione che il boss è morto), ha raggiunto una certa notorietà il sottogenere del matrimonio napoletano, a cui è stata dedicata anche un’apposita canzone neomelodica.

Personalmente, non trovo che il matrimonio napoletano si distingua poi molto da quello italiano, comprese le nozze celebrate nel Nord che hanno un’ingiustificata fama di sobrietà. La discrepanza principale consiste nell’esistenza della serenata, cantata dal fidanzato sotto il balcone della futura moglie la sera prima delle nozze. La poverina ha il duplice onere di fingersi sorpresa e deliziata dalle doti canore del futuro sposo che invece, in molti casi, potrebbero indurla ad annullare il matrimonio senza ulteriore preavviso.

Dimmi, te ne prego, che in Austria i matrimoni sono veramente sobri. Te ne supplico, ti sto pregando in ginocchio.

Come faccio sempre, d’altronde.

Servilmente tuo,

Stan