Il maggio radioso

Mia cara Berenice,

siamo ormai a metà maggio e fa ancora gradevolmente fresco. Al Nord finalmente piove, senza accompagno di vento o tempesta, con gran sollievo degli agricoltori. Non ho ancora fatto il cambio di stagione, se non per i giacconi pesanti, si dorme ancora meravigliosamente con la coperta. Un cielo grigio e una pioggerellina fessa che mi riportano ai bei tempi dell’infanzia, quando in maggio l’estate era ancora un’idea lontanissima.

Ricordo bene il giorno in cui tutto cambiò. Ero al Liceo, in ricreazione, sotto la fila di pilastri di cemento che delimitavano la striscia di cortile non invasa dalle erbacce. Un ragazzo piuttosto modaiolo si lamentava che, a causa del “caldo assurdo”, rischiava di non indossare mai il nuovo giacchino che aveva acquistato. Una ragazza cercava di consolarlo, ipotizzando che potesse sfoggiarlo di sera. Rientrati in aula, il professore di Storia e Filosofia espresse l’auspicio che quell’insolito caldo precoce allentasse la sua presa: “Anche per quelli che devono fare la maturità… con questo caldo…” “Cazzi loro,” sibilò una ragazza fanatica della tintarella.

Un “cazzi loro” che conferma quanto già attestato dalla scienza e dalla cinematografia, ossia che il caldo, in aggiunta ai tanti altri inconvenienti, rende anche aggressivi. Mi chiedo se sia stato assolato quel famoso maggio radioso del 1915, quando qualcuno pensò bene di manifestare per l’entrata in guerra dell’Italia e, proprio quando non serviva, delle manifestazioni di piazza sortirono l’effetto voluto. Sì, doveva fare caldo, davvero caldo, se D’Annunzio a Quarto, a un evento commemorativo della Spedizione dei Mille, poté esibirsi addirittura in una riscrittura blasfema delle Beatitudini: “Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore. Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia”.

Uno sconcertato saluto.

Stan

Illusioni

Mia cara Berenice,

il Pakistan è dilaniato dalle tensioni dopo l’arresto dell’ex Primo Ministro Imran Khan, ufficialmente per corruzione, secondo molti per aver pestato i piedi alle potentissime Forze Armate. La Corte Suprema ha ordinato il rilascio di Khan, ma solo perché il suo arresto è stato eseguito illegalmente all’interno di un ufficio giudiziario, il processo andrà avanti; forse Khan potrà anche essere appreso nuovamente, in un luogo in cui ciò sia consentito. L’anno scorso, Khan aveva subito un attentato. Benazir Bhutto, un’altra ex Primo Ministro, non fu altrettanto fortunata nel 2008.

È difficile non compiangere il Pakistan, la Terra dei Puri che tante illusioni ha visto svanire dopo la concessione dell’indipendenza da parte dell’Impero Britannico, dopo la Seconda Guerra Mondiale. Sotto la loro lunga amministrazione coloniale, gli inglesi avevano convinto i pakistani di essere la punta di lancia dell’Esercito anglo-indiano, le razze guerriere del Raj, in contrapposizione agli indù, dediti alla spiritualità e al commercio. Uno dei più forti argomenti degli oppositori della concessione dell’indipendenza all’India, come Sir Winston Churchill, era che i pakistani avrebbero preso, immediatamente e violentemente, il sopravvento sulla maggioranza indù, emarginandola o peggio.

Per la nuova Nazione fu perciò uno choc quando le guerre con l’India terminarono in sanguinosi pareggi o in vere e proprie sconfitte, come la secessione del Pakistan Orientale, attuale Bangladesh. Il Paese reagì abbarbicandosi tenacemente al mito delle sue Forze Armate che ne approfittarono per occupare un posto fondamentale nella costituzione materiale del Paese – o, per dirla in modo più prosaico, interferire pesantemente nella politica.

La seconda, pericolosa illusione del Pakistan, affine e legata alla prima, è la convinzione di essere l’erede dell’Impero Mughal, la Potenza islamica che regnò sull’India, originaria in realtà dell’Afghanistan e delle steppe asiatiche. Questo, oltre alla necessità di mantenere il controllo dell’irrequieta Frontiera di Nord Ovest, spiega gli stretti rapporti del Pakistan con i talebani afghani, mai veramente interrotti nemmeno dopo l’11 settembre 2001 – tanto che gli Stati Uniti, nell’operazione di rintraccio e omicidio di Osama bin Laden in Pakistan nel 2011, si guardarono bene dall’avvertire le Autorità locali, fino a rischiare che gli elicotteri delle loro Forze Speciali venissero abbattuti.

La terza illusione temo sia appunto questa, che l’ambiguo legame con gli Studenti afghani non abbia, prima o poi, conseguenze letali per un Paese già fragile. Anche perché non si tratta di un’alleanza di comodo, ma sentita, profonda e ideologica, con il Pakistan che si è consegnato a una versione dell’Islam tra le più estreme e conservatrici; di comodo, semmai, è l’alleanza con l’Occidente, oltretutto insidiata da uno storico asse con la Cina in funzione anti-indiana.

Un sobrio saluto.

Stan

Elogio dell’India

Mia cara Berenice,

l’avere visto la miniserie indiana “L’esercito dimenticato” mi ha fatto riflettere su come avessero ben ragione gli inglesi a definire l’India la gemma più preziosa sulla corona dell’Impero Britannico o frasi simili, vere del resto in senso letterale, dato che il pezzo più pregiato dei gioielli della Corona è il diamante indiano Koh-i-Noor.

Un Paese così complesso, un vero e proprio subcontinente, che riesce a funzionare in modo democratico e per giunta federale. Una dimostrazione vivente dell’infondatezza dell’argomentazione secondo cui Paesi come la Russia o la Cina sarebbero semplicemente troppo grandi per non essere autocrazie.

Un risultato tanto più notevole, se si pensa alle innumerevoli guerre civili che hanno dilaniato l’India. Quando la Compagnia delle Indie Orientali inglese sbarcò, trovò un paese già diviso, su cui la sovranità dell’Impero Mughal era solo nominale: un sistema per certi versi feudale, in cui sultani, marajah, rajah, nababbi e nizam erano sovrani.

La celebre, sanguinosissima rivolta indiana del 1857, immortalata anche dai romanzi di Emilio Salgari, fu di fatto un conflitto civile, truppe anglo-indiane contro insorti indipendentisti. La Seconda Guerra Mondiale vide contrapporsi all’Esercito Indiano britannico l’Esercito Nazionale Indiano, allestito dagli indipendentisti nei territori occupati dal Giappone – appunto di ciò dà conto “L’esercito dimenticato”. Infine, i terribili massacri che seguirono la concessione dell’indipendenza nel 1947, con la scissione delle Province musulmane nel Pakistan, con l’appendice della secessione del Pakistan Orientale, l’attuale Bangladesh, nel 1971 e del conflitto nel Kashmir, mai concluso.

C’erano tutti i presupposti per rendere l’India uno Stato fallito, invece il Paese non solo è sopravvissuto, ma ha prosperato. Spero e credo che, nel medio-lungo termine, la democrazia federale indiana arriverà a superare il centralismo autoritario cinese, procedendo lenta ma sicura, come la tartaruga contro la lepre.

Un saggio saluto.

Stan

Firenze

Mia cara Berenice,

il viaggio di ritorno è stato piuttosto traumatico, per motivi che potrò spiegarti solo a voce. Comunque eccomi qui, sano e salvo.

È stato curioso toccare due volte Firenze mentre leggevo “Cronache di poveri amanti” di Vasco Pratolini. Mi ha fatto venire voglia di visitare una città da me sempre colpevolmente trascurata. Vi sono stato una volta sola, in missione per il Ministero, cenammo a un ristorante lungo l’Arno, con vista su Ponte Vecchio… e venimmo accusati di non aver pagato una quota del conto. A Firenze ha sede, per l’appunto, un importante Istituto di Ricerca del Ministero dell’Educazione Nazionale e vi si tiene ogni anno la principale fiera sulla didattica. Il canonico Grand Tour comprensivo degli Uffizi non l’ho mai fatto. Quando sarà, dovremo badare a evitare i mesi più caldi, che mi dicono gettare sulla città una cappa d’afa terribile.

Firenze salì agli onori delle cronache nel decennio scorso, quando partorì il cosiddetto “Giglio Magico”, la squadra composta dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, dal Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi e da altri stretti collaboratori che sembrava destinata a rivoltare l’Italia come un calzino, prima di andare a schiantarsi contro il referendum sulla riscrittura della Carta.

Insieme a Venezia e Roma, Firenze è la città italiana più celebre all’estero, probabilmente quella più strettamente associata al Rinascimento. Queste splendide città-Stato del Settentrione ebbero una parabola per certi versi simili a quella di Roma. Gettarono le basi della loro grandezza nel vigore di una costituzione originale ed eclettica, con elementi oligarchici e democratici. Raggiunsero il massimo del fulgore da monarchie assolute camuffate. Infine, indebolite e semplicemente troppo piccole, caddero in mano straniera.

Tuttavia, Firenze ebbe la sua rivincita durante il Risorgimento, quando il fiorentino venne adottato come lingua nazionale e la città fu capitale d’Italia per sei anni, prima della presa di Roma. Oggi, a Unità ormai compiuta almeno politicamente e giuridicamente, Firenze si erge a simbolo, nel bene e nel male, delle fortissime identità locali italiane, che spiegano perché si ha tanta paura dell’innocuo Disegno di Legge sull’autonomia differenziata.

Un saluto dal campanile.

Stan

Il carnevale perduto

Mia cara Berenice,

si avvicina la domenica di settuagesima e, quindi, l’inizio del carnevale. Lo festeggiate, a Vienna? Fatico a immaginarlo e immaginarvi.

Nelle Venezie i festeggiamenti, circoscritti per lo più a sfilate di carri allegorici, tendono a essere piuttosto sottotono, con l’ovvia eccezione di Venezia stessa, dove il celebre carnevale attira una folla tale da indurmi, ai tempi del Governatorato, a barricarmi in ufficio. Ho ancora in mente l’immagine, emblematica, di una ragazza straniera con una gigantesca gonna a campana, incastrata a metà di una calle.

A Roma, la situazione è analoga a quella della Terraferma veneta. Si festeggia, certo, soprattutto a beneficio dei bambini, ma il carnevale non è – mi pare – un evento di particolare richiamo o aggregazione, un elemento identitario.

Eppure, fino al XIX secolo, il carnevale più famoso in Italia e forse al mondo non era affatto quello di Venezia, ma quello di Roma, pittoresco sfondo di alcuni capitoli de “Il conte di Montecristo” di Dumas Padre, ma ritratto da tanti altri illustri visitatori.

Il sito dedicato al turismo dal Comune di Roma lo ribadisce, facendo risalire il carnevale romano addirittura al XII secolo, a meno di non considerarlo addirittura il successore dei Saturnali dell’Antica Roma.

Tuttavia, ecco nel XV secolo ricomparire la Serenissima con un Papa veneziano, Paolo II, la cui firma compare in calce a una Bolla che introduce le forsennate corse lungo la grande arteria ancora oggi denominata via del Corso, quella da me percorsa ogni mattina per andare in ufficio; l’iniziativa pontificia ebbe notevole fortuna e le grandi famiglie aristocratiche si sfidavano facendo gareggiare i loro migliori cavalli berberi.

Il Martedì Grasso si concludeva con la Festa dei Moccoletti, durante la quale si scendeva in strada mascherati con una candela (moccolo), proteggendo spasmodicamente la propria fiammella e cercando di estinguere quella altrui. Il carnevale romano aveva naturalmente le sue maschere, personaggi leggendari come Rugantino e Meo Patacca.

Non dovrebbe stupirti che una simile manifestazione si svolgesse sui sagrati di Santa Madre Chiesa, né che sia stato il severo Governo sabaudo a vietarla. La stessa fine, del resto, fece fare la virtuosa Francia rivoluzionaria al carnevale di Venezia, riesumato dai comitati cittadini solo negli anni ’70. Bizzarro che, con il gran parlare di rilancio di Roma, non si lanci un’iniziativa analoga nella capitale… per la verità, non è il turismo che manca… la pandemia, facendo i debiti scongiuri, sembra davvero alle spalle e la stagione natalizia è stata affollatissima.

Un fischio con la lingua di Menelik.

Stan

Il Liceo Classico ritrovato

Mia cara Berenice,

periodicamente – l’ho visto accadere di recente su LinkedIn – si riaccende il dibattito sull’utilità e attualità del Liceo Classico, un indirizzo di scuola superiore di impronta storico-umanistica, contraddistinto dallo studio del latino e del greco antico.

In realtà, quel Liceo in buona parte non esiste più. Con l’entrata a regime dell’autonomia scolastica, molte scuole superiori hanno depennato dai loro programmi il greco antico o anche il latino. Già ai miei tempi, terminato il biennio iniziale (Ginnasio), le materie scientifiche prendevano il sopravvento.

Il latino e il greco antico io li apprezzai molto, perché il tradurli consentiva di distinguere gli studenti brillanti dagli sgobboni e dagli adepti della mnemotecnica. In effetti, però, lo stesso risultato si sarebbe forse potuto ottenere con l’inglese.

La vera risposta a questa domanda me l’ha data il gran parlare di declino dell’Occidente che usa di questi tempi. Chi è uscito da un Liceo Classico non se ne fa impressionare troppo, perché ricorda gli ininterrotti lai degli autori romani, perfino in epoca repubblicana, sulla decadenza dell’Urbe, definita già da Sallustio “mature peritura”.

Oggi, l’Occidente dato ormai per morto sta rispondendo meglio del previsto all’aggressione russa in Ucraina, l’ex Armata Rossa arranca, sulla Cina si addensano nuvole minacciose e l’ascesa di Brasile, Sudafrica, India tarda a manifestarsi.

L’ex alunno del classico, che non si è affrettato a imparare il mandarino, vive più serenamente anche sul luogo di lavoro, nei cui corridoi non mancano mai di soffiare profezie apocalittiche di sventura che allineano l’inettitudine di vertici, dirigenti e colleghi in direzione di una lapide di marmo nero su cui sono scolpiti il fallimento e il licenziamento collettivo nel settore privato, l’arresto e il giudizio contabile nel settore pubblico.

Ave atque vale.

Stan

Simboli natalizi

Mia cara Berenice,

ancora buona Natale.

Si festeggia anche in Ucraina, dove la neve cade frammista a bombe russe.

Anche in Ucraina, dove fino all’anno scorso si festeggiava in gennaio, secondo il calendario ortodosso. Il Patriarcato di Kiev, ormai scismatico rispetto a quello di Mosca, ha ordinato che la Messa natalizia si celebri oggi, salvo ripeterla – almeno per un periodo transitorio – in gennaio, secondo la tradizione.

Senza voler scadere nel tifo da stadio da salotto televisivo, l’impressione è che la cosiddetta “operazione militare speciale” abbia spezzato il delicatissimo equilibrio che teneva sospeso tra Occidente e Oriente un Paese dilaniato da forti pulsioni filorusse e altrettanto potenti forze antirusse.

Tra le prime, possiamo citare le seguenti.

La lingua. Oltre un ucraino su tre ha come prima il russo o è bilingue, ma quasi tutti comunque parlano il russo.

La storia. La Rus’ di Kiev può essere considerata il primo embrione, quantomeno ideale, dello Stato russo. L’Ucraina, inoltre, faceva parte dell’Impero Russo e dell’Unione Sovietica.

I cosacchi. Non erano solo ucraini, né sempre così disciplinati, né gli unici a servire sotto le armi zariste, ma erano considerati la spada russa per antonomasia.

Le forze antirusse sono altrettanto forti e tendenzialmente più recenti, pur avendo solide radici storiche.

Al primo posto, infatti, troviamo di nuovo i cosacchi. Non sempre, come ho detto, furono così incondizionatamente fedeli allo Zar, erano piuttosto truppe riottose che si tolleravano per il loro grande potenziale combattivo, un po’ come certi eroi d’azione delle pellicole americane. Se il loro rapporto con l’Imperatore fu altalenante, di certo odiavano il Partito Comunista. Durante la Guerra Civile Russa, si schierarono con la fazione bianca. Durante la Seconda Guerra Mondiale, ebbero legami con l’Asse, così come un parte dei vertici politici e intellettuali ucraini – un elemento su cui è imperniata la propaganda russa contemporanea. La croce equilatera bianca dei cosacchi è recentemente ricomparsa sui mezzi delle Forze Armate ucraine.

Questo ci porta all’Holomodor, la carestia creata a tavolino dai pianificatori comunisti per domare l’Ucraina negli anni ’30, ormai diffusamente riconosciuta come crimine di genocidio.

Ultimo ma non ultimo, abbiamo il legame storico con la Polonia, bastione cattolico e anticomunista – di nuovo, non a caso, la propaganda russa fa riferimento anche a un presunto cattolicesimo ucraino. Basti dire che una delle canzoni diventate simbolo della resistenza all’Armata russa, “Hej Sokoly”, è comune a Ucraina e Polonia.

Riassumendo, temo che la mossa scomposta di Putin abbia definitivamente reciso il cordone ombelicale russo-ucraino, basato su componenti organiche ormai risalenti, non scevre di ambiguità e sbilanciate in favore della Russia, scatenando un guerriero delle steppe fortemente antirusso e dall’antichissima, temuta tradizione militare.

Da una parte, è una buona notizia. Difficilmente l’Ucraina potrà mai essere soggiogata. Troverà sempre una sponda nell’Europa dell’Est antirussa (Polonia e Repubbliche baltiche), ma soprattutto continuerebbe a resistere – certo, con maggiore fatica e probabilmente con mezzi meno convenzionali – anche in caso di attenuazione degli aiuti occidentali. Dopotutto, la prima e più decisiva fase della guerra, la battaglia di Kiev, ci racconta la storia di una difesa organizzata più con determinazione e capacità di improvvisare che con dovizia di mezzi, combinando strumenti informatici, propaganda, resistenza spontanea e droni turchi non certo classificati come armi di punta. La famosa interminabile colonna corazzata russa verso la capitale sarebbe stata neutralizzata dall’unità di ricognizione aerea Aerorozvidka, un gruppo di informatici che tallonava i carri armati su quad acquistati mediante crowdfunding. Leggende della propaganda? Può darsi. Eppure in effetti, in quelle prime settimane, nessuno credeva nella possibilità di salvare Kiev, tanto che al Governo ucraino era stata offerta l’estrazione su mezzi americani.

La cattiva notizia è che la pace è molto, molto lontana, come ha evidenziato recentissimamente uno degli osservatori più qualificati, il Governo turco. Il Cremlino lamenta il fatto che l’Ucraina sarebbe eterodiretta dall’Occidente, ma, paradossalmente, solo una forte pressione euroamericana potrebbe convincere Kiev ad accontentarsi di qualcosa di meno della piena vittoria.

Un saluto.

Stan

La vita spericolata del pendolare e del Decreto-Legge

Mia cara Berenice,

troppe volte e troppo a lungo, oramai, mi sono dilungato sul jackpot inverno-Natale-ATAC.

Non posso quindi dirti che stamattina pioveva a dirotto e ancora piove.

Non posso raccontarti che, ieri, lungo Viale di Trastevere il traffico era talmente immobile che i passeggeri dell’autobus si sono ammutinati, costringendo l’autista a farli scendere lungo la strada.

Non posso aggiungere che, oggi, tutte le classi prime di una scuola elementare sono salite già a Monteverde, restando a bordo fino al capolinea.

Ti intratterrò, quindi, su un argomento ugualmente noioso: il Decreto-Legge. Antico compagno di strada delle Istituzioni italiane, ce lo sta mostrando sotto una nuova luce l’imminente scadenza del 31 dicembre 2022, resa più cogente dall’avvio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il PNRR si distingue dalle tradizionali Programmazioni dei Fondi Strutturali e di Investimento Europei (Fondi SIE), oltre che per la minor durata e la maggior dote finanziaria, in quanto prevede come obiettivi non solo la chiusura di progetti e il raggiungimento di tetti di spesa, ma anche il varo di riforme.

Che ci vuole, dirai tu. Alla fin fine, la riforma è un pezzo di carta, da far firmare al Presidente della Repubblica, controfirmare dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, vistare dal Guardasigilli e pubblicare sulla Gazzetta Ufficiale. Lo credevo anch’io… e invece no. A quanto pare, esistono dossier legislativi scottanti, come la Legge sulla Concorrenza. In ogni caso, anche su questo fronte si registrerebbero difficoltà e la Commissione Europea avrebbe già avvertito il Governo che un Decreto-Legge non vale a far raggiungere un obiettivo di riforma, a meno che non sia convertito in Legge dal Parlamento entro il 31 dicembre.

Ai sensi del terzo comma dell’articolo 77 della Costituzione, infatti, i Decreti-Legge “perdono efficacia sin dall’inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione”. Naturalmente, in sede di conversione, le Camere possono modificare le norme del Decreto.

L’ennesimo colpo di scena sfoderato, ormai in pieno terzo millennio, da un atto normativo più antico dell’Italia stessa. Il Decreto-Legge nasce, infatti, nel Piemonte-Sardegna, dove nel 1848 Re Carlo Alberto di Savoia fu costretto a concedere lo Statuto.

Lo Statuto, detto appunto Albertino, non fa menzione del potere del Re o del Governo di legiferare per decreto. Viene invece affermato con forza il potere legislativo condiviso dal Re e dalle Camere: queste ultime approvano le Leggi, il Sovrano le promulga. Una volta firmata dal Re, la Legge è suprema: anche quando violasse lo Statuto, non c’è giudice che abbia il potere di dichiararla nulla, annullarla o disapplicarla. Un potere legislativo forte che, oltre a essere conforme alle tradizionali teorie della separazione dei poteri, nelle intenzioni doveva andare a beneficio soprattutto del Parlamento e, specificamente, della Camera dei Deputati elettiva.

Paradossalmente, proprio questo potere legislativo forte della Camera finì per favorire la nascita spontanea dei Decreti-Legge. La Legge, infatti, non aveva limiti, nemmeno di efficacia nel tempo. Si affermò quindi la prassi per cui il Governo legiferava per decreto e il Parlamento, con Legge, ratificava retroattivamente.

Dopo l’ascesa al potere del fascismo, il Governo Mussolini ne approfittò per far approvare, nel 1926, la Legge “Sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche”. I Decreti-Legge emanati dal Governo restavano così in vigore per ben due anni; spirato tale termine senza essere stati convertiti in Legge, cessavano semplicemente di avere effetto.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, nella stesura dell’attuale Costituzione repubblicana, si preferì codificare l’istituto del Decreto-Legge, per timore che risorgesse per prassi spontanea, così come dal nulla era comparso dopo l’entrata in vigore dello Statuto Albertino. Il Decreto-Legge conserva così i nominali presupposti di necessità e urgenza, ma soprattutto deve essere convertito in Legge entro sessanta giorni, pena la perdita d’efficacia retroattiva. Anche così, e nonostante gli sforzi di Presidenza della Repubblica e Corte Costituzionale di reprimere almeno gli abusi più clamorosi, l’utilizzo del Decreto-Legge rimane patologico. Secondo la banca dati ufficiale Normattiva, dal 1946 a oggi ne sono stati emanati più di 3.500, e potrebbero essere sfuggiti alla ricerca alcuni Decreti-Legge emanati con denominazione diversa.

Un esausto saluto.

Stan

Una storia di marineria

Mia cara Berenice,

durante un’esercitazione NATO nell’Atlantico settentrionale, la portaerei Giuseppe Garibaldi della Marina Militare italiana venne affiancata da un magnifico veliero battente bandiera americana.

Stupita da tanta bellezza, la portaerei segnalò: “Chi siete?”

Il veliero lampeggiò: “La USS Constitution, della Marina degli Stati Uniti”.

Si trattava, in effetti, di una nave militare americana risalente al XVIII secolo, tuttora in servizio attivo.

La Garibaldi rispose, entusiasta: “Siete la nave più bella del mondo!”

Non è una storia meravigliosa?

Un commosso saluto.

Stan

Sugli affondamenti più illustri

Mia cara Berenice,

in tempi di guerra di propaganda, abbiamo le vere navi fantasma, gli Olandesi Volanti del Mar Nero: la Moskva.

Colpita da un attacco missilistico secondo l’Ucraina, vittima di un incendio secondo la Russia – non che questa seconda eventualità sia meno imbarazzante.

Danneggiata, anzi affondata, anzi piegata su un fianco, anzi rimorchiata in porto, perfino “in grado di navigare” secondo il Pentagono.

Un’ambiguità che trasforma il robusto scafo d’acciaio in materia impalpabile, confusa nel cielo e nell’acqua, e forse proprio questo rende il caso della Moskva simbolico.

Le navi, del resto, hanno una profonda attitudine a fungere appunto da simbolo, soprattutto nel loro canto del cigno finale.

Il celebre caso del Titanic, nel 1912, segnò la fine della gaudente e ottimistica Belle Époque, con la Grande Guerra ormai alle porte.

L’autoaffondamento della corazzata tedesca Bismarck, nel 1941, metteva fine al periodo di grazia della Wehrmacht e dava il la alla riscossa britannica: la battaglia d’Inghilterra era finita, l’anno successivo sarebbe arrivata la battaglia di El Alamein.

L’epilogo della supercorazzata Yamato, nel 1945, fu lo stesso del Giappone imperiale.

Il siluramento dell’incrociatore General Belgrano da parte del sommergibile nucleare britannico Conqueror, nel 1982, preannunciò all’Argentina che l’annessione delle Isole Falklands non sarebbe stata la passeggiata militare cui si pensava all’inizio.

Perfino il tragico incidente della Costa Concordia, nel 2012, suscitò nella stampa internazionale commenti sul carattere nazionale italiano che si pensavano relegati alle sprezzanti annotazioni degli aristocratici inglesi, francesi e tedeschi del Grand Tour. A caldo, per Vanity Fair la nave da crociera diventò “l’apogeo dell’edonismo mediterraneo”; il comandante della nave, il famigerato Francesco Schettino, “l’oggetto del disprezzo internazionale. Focoso e abbronzatissimo, i capelli scuri imbrillantati”. A freddo, tre anni dopo l’Independent ammise che “da gran parte dei media mondiali, questo ex comandante perpetuamente abbronzato con i capelli alla triglia è stato allegramente ritratto come il tipico italiano: vistoso, subdolo e codardo”.

Insomma, le navi vanno maneggiate con cura, non solo in senso letterale.

Ahoy!

Stan