All in

Mia cara Berenice,

la visita del Presidente cinese a Mosca mi induce a ritornare sulla questione del ruolo di Pechino nella eventuale risoluzione della crisi ucraina.

Avevo ipotizzato che si potesse fare leva sulla proverbiale attitudine ad commercium della Cina per offrirle uno snodo della Via della Seta, contratti di ricostruzione, diritti minerari nel Donbass, magari perfino il ruolo di osservatore o forza di interposizione (peacekeeper).

Questo scenario, tuttavia, si basa sull’assunto che gli Stati Uniti siano disposti a fare grosse concessioni alla Cina pur di smettere di inviare in Ucraina armi che potrebbero più utilmente schierare nel Pacifico… sempre contro la Cina. Un dispendio di forze che potrebbe indurre Pechino a una molle e pelosa neutralità filorussa.

Gli Stati Uniti, però, potrebbero rilanciare, riducendo la Russia così a mal partito da costringere Pechino a una scelta: inviarle armi destinate all’invasione di Taiwan o perdere l’unico alleato di peso. Si spiegherebbe così il recente indurimento della Casa Bianca, senza troppe proteste da parte del Partito Repubblicano.

Questo alzare la posta rischia di mettere a dura prova la resistenza dell’Ucraina, le cui risorse demografiche sono scarse e, a differenza di quelle finanziarie e militari, non possono essere rimpinguate… ma è davvero così? Personalmente, sono certo che l’Ucraina è già piena di soldati polacchi senza mostrine. Inoltre, mandare uomini senza rompere la neutralità non è impossibile come si crede, si possono costituire unità di “volontari”: lo fece l’Italia nella guerra di Spagna, lo fece la Cina nella guerra di Corea. Si possono inviare “consiglieri militari”. Le guerre si possono internazionalizzare. Nella Siria filorussa, l’esercito del Governo si compone in realtà di miliziani iraniani e Hezbollah, militari russi, paramilitari della più varia e imprecisata provenienza.

Insomma, non mi sento di escludere l’all in americano.

Che fai, vedi?

Stan

When Johnny comes marching

Mia cara Berenice,

marzo è mese di ferali ricorrenze.

Non mi riferisco alla Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera, che ha indotto le Autorità a interdire inopinatamente al traffico Piazza Venezia in un affollatissimo venerdì mattina lavorativo.

Il 16 marzo 2014 si è tenuto, nella Crimea occupata dalla Russia, il referendum che ne ha sancito l’annessione da parte di Mosca. Già allora ricordo che quella parola, “annessione”, mi parve gravida di funesti presagi. Rivelava un Cremlino non solo poco ligio al diritto internazionale (quasi tutti i Governi lo sono), ma soprattutto proiettato nel passato. Da quanto tempo non veniva proclamata un’annessione forzosa? La Turchia, nella parte occupata di Cipro, ha preferito installare un Governo fantoccio. Perfino il Terzo Reich e l’Impero napoleonico utilizzavano le incorporazioni territoriali con moderazione, preferendo spesso gli Stati vassalli. L’annessione, insomma, è una misura estrema, indicativa di estremismo o di colonialismo.

All’alba del 20 marzo 2003, invece, iniziava l’invasione angloamericana dell’Iraq, che mi vide sin da principio contrarissimo. Innanzitutto, Washington e Londra si stavano rendendo ridicole, la prima con la teoria delle armi di distruzione di massa, la seconda con bizantini cavilli giuridici, finalizzati a ripristinare l’autorizzazione all’uso della forza armata concessa dal Consiglio di Sicurezza in occasione della Guerra del Golfo. Inoltre, era evidente che si rischiava di consegnare il Paese all’Iran e al jihad. Per dire che si può essere favorevoli al sostegno all’Ucraina senza essere filoamericani fanatici.

Compatta fu anche l’opposizione dell’Europa continentale, con una posizione molto ferma della Germania e la Francia che usò i suoi storici agganci in Africa per impedire la formazione, in senso al Consiglio di Sicurezza, della cosiddetta “maggioranza morale” teorizzata dagli anglosassoni, ossia nove voti favorevoli su quindici, al netto del veto francese. Dall’altra parte dell’Atlantico, se la presero parecchio. Il New York Post schiaffò in prima pagina la foto di un cimitero militare americano in Normandia, con il titolo: “Sono morti per la Francia, ma la Francia ha dimenticato”. Ci fu perfino un pittoresco quanto effimero tentativo di ribattezzare “freedom fries” le patatine fritte (French fries). Per dire che l’Europa, nonostante la mancata reale integrazione in materia di politica estera e di difesa, non è serva degli Stati Uniti e della NATO come la si dipinge.

Get ready for the Jubilee, Hurrah, hurrah!

Stan

99 Luftballons

Mia cara Berenice,

in una scena degna della Marvel, gli americani si sono raccolti davanti alla TV per vedere un caccia F-22 abbattere un pallone aerostatico cinese al largo della Costa Orientale. Per Pechino, raccoglieva dati meteorologici ed era stato accidentalmente spinto dal vento in direzione degli Stati Uniti; per Washington, era un pallone spia.

Palloni da osservazione… non se ne vedevano dalla Grande Guerra, quando i cieli erano un intreccio di biplani variopinti pilotati da aristocratici, un vero circo volante da fanciulleschi applausi, a paragone dell’inferno delle trincee.

Anche per questo, forse, mongolfiere e dirigibili ancora ci affascinano, hanno quel delicato sapore retrò e steampunk a cui dobbiamo la loro apparizione in film come “Indiana Jones e l’ultima crociata” (USA, 1989) e “Sucker Punch” (USA, 2011), nonché nella saga videoludica di “Red Alert”, in cui l’Armata Rossa schiera il possente dirigibile corazzato Kirov.

Anche per questo, forse, trovo rassicurante il raffronto fra questo incidente e quello dell’U-2 abbattuto sui cieli sovietici nel 1960: è difficile immaginare una guerra nucleare scatenata da un pallone aerostatico. Non a caso, la celebre canzone “99 Luftballons” dei Nena, per deridere la paranoia della burocrazia militare della Guerra Fredda, mostra appunto dei caccia scagliati nel cielo per abbattere dei palloncini.

È come se, in qualche modo, il primo sconfinamento aereo della Cina riflettesse la storia di un Paese privo – a differenza della Russia – di una storia di espansionismo. Come le altre Potenze asiatiche, la Cina ha piuttosto la tendenza a ripiegarsi su se stessa e isolarsi, in nome di una presunta superiorità culturale. Pechino è sempre stata molto attiva nel ripristinare i suoi confini storici, ma lo ha sempre fatto con mezzi pacifici, rifiutando perfino la prima offerta di restituzione di Macao da parte del Portogallo, ritenuta prematura. Non interferisce in modo particolare negli affari di antichi Stati vassalli dell’Impero, come il Vietnam, le Coree o il Giappone. Su Taiwan, tutto sommato, non ha avuto politiche estremiste, sparando più carte bollate che proiettili. L’unica eccezione è la brutale annessione del Tibet, ma si tratta, appunto, di un’eccezione, connotata da moltissime circostanze peculiari. Il Tibet stesso aveva mantenuto una grande ambiguità sulla sua nominale soggezione alla sovranità cinese. Era una teocrazia medievale – per quanto romantica -, arretrata e assolutamente incapace di difendersi. Soprattutto, quella non era la vera Cina, ma la Cina maoista, una parantesi in cui si tentò di estirpare, con violenza disperata e inutile, la millenaria cultura confuciana del Paese.

Insomma, tutto sommato si può sorridere immaginando le più sofisticate navi della Marina degli Stati Uniti scandagliare l’Atlantico, alla ricerca spasmodica di frammenti del pallone disintegrato da spedire nei laboratori militari e del Ministero della Sicurezza Interna.

Un clownesco saluto.

Stan

Giustizia e pressioni esterne

Mia cara Berenice,

mia cara Berenice, dopo un lungo e comprensibile silenzio, l’attrice americana Amber Heard è tornata sulle reti sociali per annunciare di aver “preso la difficilissima decisione di chiudere con un accordo stragiudiziale la causa per diffamazione intentata dal mio ex marito in Virginia”. Nel lungo e denso post, la Heard paragona sfavorevolmente il sistema giudiziario americano a quello britannico, a suo dire meno permeabile alle pressioni del suo ex marito e della sua comunità di ammiratori.

Non intendo entrare nel merito di una vicenda processuale complicatissima e che non ho minimamente seguito.

Mi interessa qui evidenziare come il sistema giudiziario britannico e quello americano, nati dallo stesso ceppo, abbiano preso strade fortemente divergenti.

Il primo ha fortemente circoscritto l’utilizzo delle giurie popolari e conservato un solenne e paludato cerimoniale che – personalmente ne sono convinto – rende molto più difficile all’isteria della folla varcare la soglia del tribunale.

Negli Stati Uniti, il diritto al processo per giuria è garantito dalla Costituzione, la procedura più informale, la spettacolarizzazione del processo più diffusa. Da una parte, i media cingono d’assedio il processo, pur resistendo generalmente il divieto di condurre riprese video; dall’altra, il processo per giuria stesso è diventato un topos narrativo e cinematografico. Viene così a crearsi un’osmosi affascinante in astratto, ma talvolta devastante nel caso concreto.

E in Italia? L’amministrazione della giustizia è prevalentemente affidata a giudici togati. I giudici popolari, presenti nelle Corti d’Assise, non sono paragonabili ai giurati anglosassoni, anche perché deliberano insieme ai giudici togati, estensori della motivazione della sentenza, la cui posizione ha certamente grande peso. Significa questo che i tribunali sono esenti da pressioni esterne o di altra natura? Vi è chi sostiene non sia così, soprattutto per quanto riguarda l’anello debole delle indagini preliminari nel procedimento penale, dove i requisiti di forma sono necessariamente allentati e la tentazione della ribalta mediatica può diventare forte.

Questo però ci conduce a un’altra tematica, molto più ampia e complessa.

Negli ordinamenti anglosassoni, le indagini sui reati sono considerate un affare puramente di polizia che nulla a che ha fare con il processo penale e molto poco con la giurisdizione. Il giudice interviene solo in modo occasionale, di solito per autorizzare perquisizioni e intercettazioni. Questo, indubbiamente, rende più facili e frequenti gli abusi da parte della polizia, non solo negli Stati Uniti ma anche nel Regno Unito – ne sanno qualcosa molti irlandesi o i sindacalisti intercettati ai tempi del Governo Thatcher. Dall’altra parte, però, i verbali d’indagine non esistono per il giudice che esige l’integrale formazione della prova in aula, in dibattimento. Non a caso la polizia britannica, quando vuole fare scattare facilmente le manette (di nuovo, il pensiero corre all’Irlanda), è costretta a far introdurre disposizioni legislative che la autorizzino all’arresto amministrativo senza alcun capo d’accusa, il cosiddetto “internamento” (internment).

In Italia, nonostante l’emanazione di un Codice di Procedura Penale teoricamente modellato sul modello anglosassone alla fine degli anni ’80, persiste l’idea che le risultanze delle indagini abbiamo già ufficialità e dignità processuale. Dopotutto, le indagini preliminari fanno parte integrale del procedimento penale, sono supervisionate da ben due magistrati (Pubblico Ministero e Giudice delle Indagini Preliminari), spesso già in contraddittorio con i difensori o addirittura in regime di incidente probatorio (cioè anticipando eccezionalmente il dibattimento). Del resto, in questo l’Europa continentale è influenzata da una tradizione radicata e profonda risalente alla figura francese del Giudice Istruttore e, prima ancora, al diritto romano-canonico.

Concludendo, in Italia probabilmente le pressioni esterne influenzano il processo meno che negli Stati Uniti; ma influenzano le indagini, e queste ultime influenzano il processo.

Che al mercato comprò…

Stan

I ristoranti messicani

Mia cara Berenice,

ieri sera, sul secondo canale della TV di Stato, davano “C’era una volta a… Hollywood” (USA-GB, 2019), con Brad Pitt, Leonardo DiCaprio, Margot Robbie e Dakota Fanning. Insieme a “Bastardi senza gloria” (USA-Germania, 2009), i due “Kill Bill” e “Django Unchained” (USA, 2012), un gradito regalo di Tarantino, che avevo sbrigativamente archiviato dopo “Jackie Brown” (USA, 1997), probabilmente in reazione al fanatismo cieco che il regista di “Pulp Fiction” suscitava all’epoca.

Il climax della storia di “C’era una volta a… Hollywood”, che non svelerò, mi ha colpito per un particolare apparentemente secondario: il modo in cui tutto, in California, sembra ruotare intorno ai ristoranti messicani.

In effetti, quando visitai la Costa Occidentale, ricordo che il Tex-Mex o una sua declinazione limitrofa era onnipresente, perfino nei fast food. In tutta franchezza, lo trovai orribile, ma sono passati davvero parecchi anni ed è possibile che le cose siano cambiate. Magari si è affermata una cucina messicana più pura, dato che un abitante della California su tre è ispanico; già all’epoca, in effetti, i cartelli erano tutti bilingui.

E qui a Roma?

Secondo il sito di gastronomia Puntarella Rossa, i migliori ristoranti texani in una città tenacemente abbarbicata alla sua cucina tradizionale sono Puerto Mexico sulla Portuense, El Pueblo ad Aurelio e La Punta Expendio de Agave a Trastevere. Sul menù di quest’ultimo compaiono taco, tostada, ceviche, churros e paleta.

I churros, piuttosto comuni del resto anche in Italia, li mangiai in Venezuela; non sono proprio uno spuntino leggerissimo, soprattutto ricoperti di cioccolato fuso.

A Venezia, con mia sorpresa, ci sono ben due ristoranti messicani, l’Iguanna in zona Ghetto e il La Cantinita al Lido, apparentemente aperto tutto l’anno; nulla a Marghera-Mestre.

Panorama prevedibilmente più variegato a Padova, con un’offerta concentrata soprattutto nel centro storico.

Buenas.

Stan

I quartieri americani di Roma

Mia cara Berenice,

non ce l’ho affatto con le tue telenovele sul Compromesso Austro-Ungarico del 1867, dico solo che in Italia ne abbiamo di molto migliori.

Una, per esempio, si intitola “L’apertura di Starbucks in Italia”. Apre. Non apre. Apre ma con miscele italiane. Apre sono negli aeroporti. Apre solo a Milano e a Roma.

Nell’ultima puntata, uno Starbucks doveva aprire in via del Corso, accanto a un Apple Store lindo e nuovo di zecca. A quanto pare, la catena dell’orange moka frappuccino ha cambiato idea: il bar sorgerà in un centro commerciale fuori Roma. Peccato, perché Apple Store e Starbucks avrebbero creato una perfetta cittadella americana, in cui giovani dinoccolati e disossati avrebbero potuto ciondolare con gli iPad nelle orecchie e un tazzone da asporto in mano. In tal modo, sarebbero stati facilmente individuati e identificati dalla Polizia, così da avviare celermente le pratiche per la revoca della cittadinanza.

Fortunatamente, a Roma i fortilizi americani non mancano. In via Veneto abbiamo l’Ambasciata degli Stati Uniti che occupa un intero isolato ed è fortilizio in senso letterale, con lo stile architettonico tipico del compound nella Zona Verde di Baghdad o di Kabul prima della riconquista talebana. I marine se ne stanno accuratamente rintanati all’interno, il perimetro è sorvegliato da poliziotti e militari italiani, e guardie giurate.

A Trastevere sorge la John Cabot University, “an American university in the hearth of Rome”, ai cui studenti bar e pizzerie a metro intorno a Piazza Trilussa riservano “friendly discount”. Fondata nel 1972, offre un’amplissima gamma di corsi in materie umanistiche e scientifiche. La sua presenza spiega perché Trastevere abbia continuato a parlare inglese anche nel 2020, quando la pandemia aveva praticamente azzerato i viaggi internazionali. Contrariamente a quanto inizialmente riportato dalla stampa, non erano immatricolati alla John Cabot i due studenti americani arrestati nell’estate del 2019 per aver accoltellato a morte un vice-brigadiere dei carabinieri durante un controllo antidroga.

The ladies they will all turn out
And we’ll all feel gay when Johnny comes marching home!

Stan

La vendetta dei complottisti

Mia cara Berenice,

a essere sincero, non mi dispiace così tanto che padre Uwe Eglau ti abbia esorcizzato, male non ti farà… e nemmeno a me.

Del resto, non c’era nessun bisogno di dirgli che ti sei vaccinata, e addirittura con quattro dosi grazie agli agganci di tua madre all’Ambasciata di Russia!

Le posizioni del buon prelato ti erano note. Non me ne sarei attese altre, del resto, da un fanatico pre-conciliare che ti costringe a confessarti in latino.

Oltretutto, sarà esasperato dal rigido obbligo vaccinale austriaco, proprio mentre nel resto del mondo gli antivaccinisti si stanno prendendo qualche piccola soddisfazione.

No, non mi riferisco tanto alla tirata del vostro medico, secondo cui la pandemia starebbe finendo “da sola”.

Innanzitutto, non sappiamo ancora se sia vero, anche se lo speriamo tutti ardentemente.

In secondo luogo, non sarebbe una gran notizia. Le pandemie sono sempre finite “da sole”, in epoche in cui non esistevano né medicinali né vaccini, mentre in compenso si dava la caccia a streghe e untori. Il punto è quanti morti e quanta devastazione si lasciano alle spalle, prima di finire “da sole”. Quindi, vedete di cambiare quel ciarlatano: un confessore reazionario è innocuo e anzi naturale, un medico incapace molto meno. Il fatto che sia Conte Paladino non renderà più efficaci le sue discutibili terapie.

Comunque, pensavo piuttosto agli Stati Uniti, vero regno degli antivaccinisti, dove le compagnie aeree hanno chiesto alle Autorità federali di bloccare l’attivazione del 5G da parte delle compagnie telefoniche, per timore che esso interferisse con la strumentazione degli aerei. Pare peraltro che si sia già trovata una soluzione.

Quindi, se l’allentamento delle restrizioni proseguirà, potremo farci quel famoso viaggio dai van Houten negli Hamptons… sempre che abbandonino la loro pretesa di farmi giocare a squash a Chelmsford.

Un fermo saluto.

Stan

Sull’annessione delle Isole Hawaii da parte degli Stati Uniti

Mia cara Berenice,

sono lieto che il mio accenno all’annessione delle Isole Hawaii da parte degli Stati Uniti ti abbia incuriosita.

L’ho definito un caso classico di colonialismo, e lo confermo.

Le Hawaii furono “scoperte” da James Cook nel 1778. Il primo contatto non fu esattamente pacifico, ma piuttosto avventuroso, salgariano, tanto da concludersi con il capitano inglese infilzato da un pugnale.

Poco dopo, l’arcipelago finì sotto il controllo della locale dinastia dei Kamehameha, eufonico e musicale nome assurto a fama universale grazie alla saga nipponica di Dragon Ball.

La vera conquista, tuttavia, fu quella dei missionari, coloni e piantatori di canna di zucchero che cominciarono ad affluire numerosi più o meno nello stesso periodo; i nuovi venuti divennero presto un’élite tale da soppiantare l’aristocrazia indigena, fino a diventare Ministri dei Re Kamehameha. Molti erano americani, e anche la Marina degli Stati Uniti mise gli occhi su Pearl Harbor, potenziale presidio strategico nel Pacifico.

Nel 1887 l’élite bianca, organizzata in un Comitato di Salute Pubblica, impose al Re la promulgazione di una nuova Costituzione e la nomina di un Governo con Ministri stranieri.

Nel 1893, il Comitato costrinse l’ultima Regina indigena ad abdicare. Nel 1894 venne proclamata la Repubblica e, nonostante qualche intoppo legato anche alle proteste internazionali, nel 1898 l’arcipelago venne infine annesso dagli Stati Uniti.

Le isole furono inizialmente un Territorio, con un Governatore nominato dal Presidente degli Stati Uniti, previa approvazione del Senato. Quasi a sottolineare la natura coloniale dell’annessione, sulla bandiera del Territorio campeggiava una Union Jack.

Nel 1959, anche a seguito di proteste pro democrazia, le isole divennero uno Stato americano a pieno titolo; ciononostante, ancora oggi sopravvive un movimento indipendentista.

Quindi, come dice il Presidente del Consiglio di Reggenza del Regno Hawaiano, buona giornata e aloha!

Stan

Burnout America

Mia cara Berenice,

stamane, l’edizione italiana dell’Huffington Post titolava a tutta pagina che la maggior parte dei lavoratori sarebbe disposta a rinunciare a parte dello stipendio o dei benefit per conservare il telelavoro.

Solo che si tratta di un sondaggio condotto negli Stati Uniti, come era intuitivo, dato che vi si fa riferimento all’assistenza sanitaria e, soprattutto, pochi in Italia possono permettersi un taglio della retribuzione.

Questo non significa che, in Italia, il telelavoro – o lavoro agile, come lo chiamiamo qui pomposamente – non piaccia, ma sicuramente il contesto americano è profondamente diverso.

Al di là della sua flessibilità molto maggiore, il mercato del lavoro a stelle e strisce è attualmente investito da un fenomeno che la stampa ha battezzato “the Great Resignation”, la grande ondata di dimissioni. In parole povere, i dipendenti sono stufi marci dei loro datori di lavoro ed è ovvio che reagiscano in modo particolarmente negativo al richiamo in ufficio.

Certo, ha un suo ruolo anche la disoccupazione particolarmente bassa che, soprattutto negli ultimi tempi, sta rendendo difficile trovare baristi, autisti, camerieri; ma problemi simili vengono segnalati anche in Gran Bretagna e – seppure in modo discutibile e aneddotico – perfino in Italia.

Molto più rilevante, a mio avviso, è il ruolo del cosiddetto “burnout”, probabilmente esacerbato dalla pandemia.

Secondo l’Ufficio Federale di Statistica, quasi un lavoratore americano su dieci ha un doppio lavoro. La percezione, tuttavia, è quella che il fenomeno sia molto più diffuso, come evidenziato da un articolo di Aparna Mathur su Forbes. La famosa deputata democratica Alexandra Ocasio-Cortez, in particolare, ha dichiarato che “la disoccupazione è bassa perché tutti fanno due lavori”. La Mathur, pur sottolineando correttamente la scarsa accuratezza statistica di questa affermazione, ammette che probabilmente diversi doppi lavori sfuggono alle statistiche ufficiali, ad esempio perché inquadrati in rapporti di lavoro autonomo tipici della gig economy. Inoltre l’OCSE, in un rapporto del 2004, punta il dito sul lavoro nero svolto soprattutto da immigrati negli Stati Uniti. Infine lo stesso telelavoro, con la sua flessibilità oraria, potrebbe aver dato nuovo impulso al cumulo di impieghi.

Sempre su Forbes, Jack Kelly riporta gli esiti di un sondaggio della piattaforma Indeed, secondo cui oltre la metà dei lavoratori americani si dichiara in burnout: una percentuale salita di dieci punti percentuali durante la pandemia – del resto, per otto partecipanti su dieci, la pandemia ha peggiorato le condizioni di lavoro.

Cosa pensare di un’economia che, fin da prima dell’attuale emergenza sanitaria, beneficia di un massiccio sostegno pubblico, eppure sottopone la sua forza lavoro a una simile pressione, con buona pace di chi sostiene che l’automazione sta rendendo obsoleto il concetto stesso di impiego e ci sta conducendo verso una società basata sul reddito garantito universale?

Forse, l’esempio americano rende più comprensibile l’attuale atteggiamento della Cina che, dopo essere diventata una grande Potenza con un’iniezione di capitalismo, sta rapidamente riducendo le dosi del farmaco.

Un pensoso saluto.

Stan

Brevi cenni sulla nuova alleanza militare anglosassone nel Pacifico e sul ruolo dell’Europa

Mia cara Berenice,

perdonami se non condivido la tua indignazione, ma non riesco a trattenere le risate nel figurarmi il vecchio maresciallo von Beck-Rzikowsky che deride la Francia, con tutte quelle medaglie tintinnanti.

Del resto, mia cara, non è successo nulla.

No, non mi riferisco all’abitudine, tipicamente francese, di farsi assestare schiaffoni a tutte le latitudini.

Parlo dell’irrilevanza dell’Europa.

Secondo te, sarebbe dimostrata dalla nuova alleanza militare stipulata da Stato Uniti, Gran Bretagna e Australia in funzione anticinese, dal contratto per la fornitura di sommergibili europei stracciato da Canberra, dal fatto che le relative proteste sono pervenute da Parigi e non da Bruxelles.

Io ti dico che l’irrilevanza dell’Europa è stata ufficializzata e bollinata, oltre mezzo secolo fa, dalla crisi di Suez, di cui fu protagonista proprio quella Gran Bretagna che oggi si illude di salpare lontano da Calais.

Da allora, non è cambiato nulla, semplicemente all’Unione Sovietica si è sostituita la Cina.

Si può avere l’impressione che la situazione sia peggiorata perché durante la Guerra Fredda l’Europa era, almeno, terreno di scontro, mentre oggi le flotte si fronteggiano nel Pacifico e nello Stretto di Formosa; ma è, appunto, in gran parte un’impressione.

Ci sarà una risposta, un colpo di reni? In tutta franchezza, ne dubito. Naturalmente, spero di sbagliarmi. In un mondo civile, i destini del mondo si decidono tra Londra, Parigi, Berlino, Vienna e San Pietroburgo, possibilmente indossando degli enormi parrucconi.

Un incipriato saluto.

Stan