Piaceri e metamorfosi del gentiluomo contemporaneo

Mia cara Berenice,

capita sovente al gentiluomo contemporaneo, negli interludi del fine settimana o di lavoro agile, di regredire a uno stato quasi ferino, come chi è affetto da licantropia sotto l’effetto della luna piena. L’abbigliamento dominante diventa la tuta, quasi a sottolineare il contrasto stridente con la calcificazione sul divano. La capigliatura si fa leonina e arruffata, lasciando come unica speranza lo spacciarla come indice di genio scientifico e algebrico. La peluria sul mento si allunga.

Eppure, è proprio in questi frangenti che emerge il sangue blu o, in mancanza, la solida e severa educazione ricevuta.

Proprio quando si affaccia sull’abisso della più completa abiezione, il gentiluomo trova un rinnovato piacere nel radersi “a culo di donna”, come urlavano i marescialli istruttori del Regio Esercito, e nel domare a colpi di spazzola la capigliatura selvaggia, così come si è ricavata una fiorente agricoltura nella Rodesia del Sud. Il leggero bruciore della pelle del viso diventa un’aura lieve di santità e la ricomposizione dei capelli un domare la forma e la materia simile a quello dello scultore o dell’architetto. Per conferire un tocco di distinzione alla tuta, poi, basta abbassare la cerniera ed esibire alla vista la maglietta originale dell’Università di Cambridge, marchio albionico spendibile ovunque come la sterlina d’oro. Un’energica passata di spazzolino e dentifricio artigianale francese sulla bocca impastata di saliva sonnolenta completerà l’opera e il gentiluomo sarà pronto a inginocchiarsi davanti al Re in persona per ricevere un cavalierato o un cordone.

Quanto alle pantofole, di essere non ci si dovrà vergognare, troppo a lungo sono state orgogliosamente indossate dai Pontefici e ricettrici di casti e devoti baci di Cardinali e Principi. Usi superati? In nessun modo. Non più tardi dell’anno scorso, la ditta piemontese De Fonseca ha fatto omaggio al Pontefice regnante di un paio di pantofole di foggia friulana bianche realizzate a mano con lo stemma papale. Contrariamente a quanto talvolta si ritiene, infatti, scarpe e pantofole pontificie non sono sempre e necessariamente rosse.

Un compito saluto.

Stan

Fiori nel deserto

Mia cara Berenice,

ieri una pioggia battente cadeva su Roma, nel primo giorno della vittoria della destra.

Oggi splende il sole ed è accaduto qualcosa di ancora più straordinario.

Ieri sera, un’agenzia di traduzione ceca per cui lavoro mi ha notificato che un grosso progetto dato in appalto da Google, a cui partecipo ormai da anni, sarebbe stato chiuso per disposizione del committente.

Come compensazione, mi veniva offerto un altro progetto, sempre per il gigante americano. Per aderire all’offerta, dovevo accedere al portale commerciale (business) aziendale, inserire un codice, aggiornare i miei dati personali e commerciali, superare un test.

Ebbene, tutto ciò ha funzionato. Certo, ho dovuto rigenerare la password per il portale aziendale, ma era il minimo sindacale. A proposito, ora che ci penso, stamane ho partecipato a una riunione sindacale in modalità ibrida e anche lì tutto è filato liscio: niente problemi con i microfoni casalinghi o direzionali, niente ritorni d’audio, niente connessioni traballanti, nulla.

Insomma, niente panico, anzi: ottimismo e, per restare nell’ambito della politica vintage, sole che ride.

Sarebbe molto più grave se, improvvisamente, gli autobus dell’ATAC arrivassero in orario, un evento che segnerebbe non il mero ritorno di un regime fascista, ma più probabilmente uno strappo nel tessuto stesso dell’Universo.

Un tranquillizzante saluto.

Stan

I nuovi aedi

Mia cara Berenice,

secondo le previsioni, quando il lavoro da remoto o ibrido sarà a regime, gli uffici saranno spazi di coworking imperniati sulla scrivania condivisa, da prenotare come il posto sotto l’ombrellone. L’Alta Autorità Europea ne parlava apertamente già durante il mio semestre a Bruxelles. Io, da buon mediterraneo tradizionalista, sono un poco scettico.

Gli uffici sono feudi e simboli, difesi con le unghie e con i denti. Al mio arrivo all’Ufficio del Primo Ministro, il Capo Dipartimento temeva che la stanza singola assegnatami mi attirasse gelosie e ritorsioni. Al Ministero, ogni riallocazione delle stanze – anche nel periodo post pandemico – incardinava un’actio finium regundorum, con i funzionari dell’Ufficio del Consegnatario a ispezionare cautamente i corridoi, come i membri di una Commissione di Demarcazione ONU.

C’è poi la pandemia non ancora esaurita, tra varianti e sottovarianti, con i relativi strascichi psicologici, rinfocolati dall’arrivo nientemeno che del vaiolo delle scimmie. Passerà davvero molto tempo, credo, prima che qualcuno abbia voglia di condividere la postazione di lavoro.

In ogni caso, il regime transitorio attuale ha già adottato un proprio parametro, il computer portatile collegato a tastiera, schermo e mouse. Quando sa che il giorno successivo dovrà lavorare da casa, il dipendente lo scollega e se lo infila in borsa. Ho visto ormai adottare questo sistema al Ministero, all’Alta Autorità e all’Ufficio del Primo Ministro.

In tutti e tre i casi, la gabola è stata sempre la stessa: di ottima qualità e dimensioni la postazione fissa, esiguo e penoso il portatile. Si può sempre, dirai tu, usare un proprio computer personale; ma generalmente è proibito e non consente di accedere a certi servizi e applicativi interni. All’Alta Autorità, in particolare, non si poteva fare praticamente nulla.

Nell’Ufficio del Primo Ministro si è verificato un ulteriore inconveniente, certo transeunte e legato alle centrali di committenza. La presa unica per collegare il portatile al resto dell’apparato, denominata ufficialmente stazione di espansione (docking station) e accrocchio dal nostro funzionario informatico, tende a surriscaldarsi, così pregiudicando la funzionalità dello schermo e della rete Internet locale.

“Ormai è tutto cinese,” ha commentato il tecnico inviato dagli Affari Generali, soppesando nella mano il tizzone incandescente, “ma c’è cinese e cinese”.

Morale della favola? Gli informatici sanno coniugare mirabilmente praticità e poesia, come il seminatore del D’Annunzio.

Alalà!

Stan

Autodafé

Mia cara Berenice,

ebbene sì, confesso.

Confesso in ginocchio, il capo raso e cosparso di cenere, battendomi il petto.

Sto lavorando in treno con il portatile.

Sono la réclame del dannato lavoro agile.

Incarno l’aspetto positivo della pandemia, l’Uomo Nuovo Sovietico che abbraccia il cambiamento.

Tra poco acquisterò un monopattino elettrico e mi darò all’esplorazione dei piccoli borghi (staycation).

Coltiverò un orto urbano in giardino – al quale, effettivamente, un po’ di manutenzione in più farebbe un gran bene.

Andrò a Ostia a carezzare il dorso dei delfini.

La cosa più terribile? Che finirà proprio così.

Come scriveva il grande Poeta, “di me medesmo meco mi vergogno”.

Un rassegnato saluto.

Stan