Mia cara Berenice,
come risulterà fin troppo ovvio, è stato il lavoro a ispirarmi il racconto che ti allego.
Un saluto.
Stan
IL COLLEGA RITROVATO
I tedeschi si erano ritirati, i fascisti erano spariti nel nulla, i carabinieri erano dei loro, gli inglesi erano alle porte: era tempo, insomma di scendere in paese, anche in fretta.
“Che hai?” Fece l’Ivana a Carlo, vedendolo buttarsi in spalla il fucile con una cert’aria.
“Che ho?” Rispose Carlo, ficcandosi una nazionale mezza consumata in bocca. “Niente ho”.
“Mi sembri nervoso”.
“Eh…”
“Ti hanno scritto da casa?”
“No, no”.
“Allora? La Chiavica l’abbiamo beccata…” L’Ivana si riferiva al Chiavellati, brigadiere della Guardia Nazionale Repubblicana. Era sotto stretta sorveglianza da tempo e non aveva avuto scampo. All’alba, lo erano andati a prendere nella caserma abbandonata dall’ultimo milite. Il Chiavellati era stato dilaniato da una delle sue stesse bombe a mano, forse volutamente.
“Eh,” sbuffò Carlo, “tu lo sai che io lavoravo in Comune, prima”.
“Me lo ricordo. Ora posso anche dirtelo, abbiamo fatto un controllo su di te, perché eri sospetto”.
“Avete fatto bene, ma adesso ho paura che qualche testa calda vada lì e se la prenda con qualcuno che non c’entra niente”.
“Lì dove?”
“In Comune”.
“Non credo… l’unico veramente fascista era il Podestà e quello se n’è scappato in Svizzera con ampio anticipo. Il commissario prefettizio non è mai arrivato. Ora ne metteremo uno noi”. L’Ivana si interruppe, intercettando lo sguardo fisso e spento di Carlo. “Ma tu non me la conti giusta. Tu stai pensando a qualcuno in particolare… qualche stenografa, in particolare? Qualche ausiliaria?”
“Ausiliaria, ma che dici… che stenografa… no, il mio compagno di stanza”.
“Oh… chi era?”
“Un funzionario vecchia maniera, di quelli che ogni mattina si presentano in ufficio in colletto duro e cravatta, nonostante le quattro lire di stipendio che ci davano. Gli mancava poco alla pensione, aveva passato i sessanta, non poteva certo venire in montagna!”
“Certo”.
“Mi ha insegnato tutto”.
“Vedrai che non gli faranno niente. Perché dovrebbero fargli qualcosa?”
Carlo, però, masticava amaro mentre marciava giù dal costone, aveva un passo così lesto e affannoso che sembrava volesse conquistare Berlino da solo e l’Ivana stentava a tenergli dietro, sotto il peso dello Stern e dello zaino pieno di volantini ciclostilati. Ben presto furono al limitare del paese e, trattandosi davvero di un paesello, in pochi minuti raggiunsero l’unica piazza. Le campane della Chiesa Arcipretale suonavano a festa, mentre dal balcone del Municipio le avanguardie sventolavano il tricolore. Intorno al fontanone si faceva festa come per una sagra patronale, con bicchieri di vino e fisarmoniche.
Ignorando completamente i compagni che tentavano di coinvolgerlo nella baraonda, Carlo prese di petto il portone spalancato del Municipio, ma, arrivato davanti allo scalone polveroso, si fermò come sopraffatto dai ricordi. Non era cambiato nulla. Lo stesso strato di polvere e accozzaglia indefinibile sui mobili vetusti, le stesse teche malandate con i reperti della Grande Guerra e, tra le teche e la scrivania dell’usciere, l’angusto corridoio che portava…
Ruggero se ne stava lì, con i gomiti inguainati dai coprimaniche sulla scrivania, nel suo giacchettone sformato sulle spalle. Dopotutto, quello era orario di servizio. Tutto il chiasso proveniente dalla piazza e dal piano di sopra, del resto attutito dagli spessi muraglioni del palazzo, non lo riguardava.
Carlo rise di cuore: “Cavaliere!”
Ruggero alzò il testone da tricheco.
“Era ora che ti facessi rivedere,” brontolò, accennando alle pile di pratiche che imgombravano la scrivania, “credi che il lavoro diminuisca perché c’è la guerra? Il lavoro aumenta!”
“Cavaliere! Non sa quanto ero in pensiero per lei!” Ruggero non era mai passato, nemmeno negli anni di massimo splendore del regime, al voi fascista.
“In pensiero? Per me? Sei tu che te ne andavi in giro a sparare!”
“Temevo avesse problemi con i fascisti o con i tedeschi”.
“Sono venuti i tedeschi, delle SS. Volevano l’elenco dei cittadini ebrei”.
Carlo inarcò le sopracciglia sotto il berrettone, perplesso: “Perché? Ci sono ebrei in paese?”
“Non che io sappia. Comunque ho detto loro di rivolgersi alla Prefettura, perché la schedatura l’avevano fatto loro e qui non erano ancora state eseguite le prescritte annotazioni”.
“E non se la sono presa?”
“Certo, come fanno tutti, ma c’era poco da fare. Ho detto loro di rivolgersi alla Prefettura”.
Carlo rise di cuore, per la seconda volta.