Indizi di un caso mai aperto

Mia cara Berenice,

in Veneto, le sagre sono come l’Associazione Nazionale Alpini: intoccabili, nessuno alzerà mai un dito o emetterà un fiato contro di esse. Fra le altre cose, esse costituiscono l’intelaiatura su cui il Gabinetto del Governatore costruisce i tour elettorali.

Tuttavia, mi sono sempre chiesto quanta concorrenza facciano alla ristorazione commerciale, tenuto conto dei vantaggi enormi di cui godono in termini di avviamento, costi del personale, imposizione fiscale, sconti sulle forniture e – in misura minore – finanziamenti pubblici.

Durante questa lunga permanenza in Veneto, ne ho già visitate due.

La prima mi ha addebitato la somma di due euro e cinquanta per il coperto o servizio. Veniva inoltre presentato come piatto locale, denominato “Bocconcini di pollo alla …”, quello che era in tutto e per tutto un pollo al curry, servito con del riso pilaf.

La seconda è una delle poche a servire prevalentemente pesce. Un menù completo, dall’antipasto al dolce; io ho ordinato capesante e spaghetti alla pescatora. Ho potuto constatare che era tutto di ottima qualità, a eccezione dei dolci industriali. I piatti erano di porcellana e le posate di metallo. A disposizione degli avventori c’era la rete wi-fi. La cassa, ospitata nell’attigua sezione ANA, aveva due postazioni completamente informatizzate, dotate di POS.

Qual è il senso di queste considerazioni? Nessuno, le sagre continueranno a prosperare e io a usufruirne. Del resto, non hanno – almeno teoricamente – scopo di lucro, a differenza di ristoranti e agriturismi. Soprattutto, il fenomeno del Prosecco sembra aver riportato l’economia locale alla frenesia degli anni ’90, per cui nessuno si avventurerà a sindacare l’impatto delle sagre sul settore della ristorazione come invece sta avvenendo in Toscana, dove la stampa registra diverse proteste formali delle associazioni di categoria.

Un saluto senza “c” aspirata.

Stan

Multiveneto

Mia cara Berenice,

la trasferta veneta sta andando benissimo, ti ringrazio, talmente bene che è come se stessi visitando la regione un numero esponenziale di volte: una sorta di Multiverso Marvel in cui ogni dimensione parallela è il Veneto.

Mi spiego.

Letteralmente appena arrivato in stazione, mio padre mi ha chiesto se avessi visto in TV il passaggio del Giro d’Italia in città. Da lì, il discorso è naturalmente virato sullo scandalo che ha investito l’Associazione Nazionale Alpini. Le presunte molestie sessuali all’Adunata Nazionale di Rimini? No. La Sezione locale aveva diligentemente predisposto una grande scritta di saluto per l’elicottero della TV di Stato; quest’ultimo, tuttavia, non si è degnato di fare la sua ronzante comparsa. La stampa locale si è incaricata di dare il debito risalto al disappunto della Sezione e della cittadinanza.

Un palazzo del Comune in centro storico ospitava una mostra pittorica e fotografica dedicata ai Colli del Prosecco, dichiarati con gran fanfara Patrimonio UNESCO e ivi ritratti da artisti locali. Il Museo dell’Alpino, invece, proponeva una collezione dedicata all’Africa Italiana; l’ex militare di presidio mi ha caldeggiato con particolare orgoglio una rara uniforme coloniale dei bersaglieri.

La sera successiva, abbiamo pranzato a una sagra nelle vicinanze. Credo di averti già descritto dettagliatamente queste manifestazioni: grandi tensostrutture, giostrine, tavole e panche di legno, carne grigliata e polenta servite in vassoi di plastica da giovani volontari, incasso devoluto alla Parrocchia o alla Pro Loco. Dopo due soffocanti anni di pandemia, il tendone rigurgitava e siamo riusciti a sederci solo grazie ai buoni uffici di un paio di conoscenti. Era del resto tardissimo per il Nord, le diciannove e quaranta! Infatti, un cartello penzolante dal tavolo più vicino all’ingresso avvertiva che il capriolo era finito.

Dopo cena, abbiamo fatto visita a dei parenti con una cantina. Il giovanissimo titolare voleva acquistare un quarto trattore, la madre si opponeva e teneva vigorosamente il punto. Hanno tenuto a farci assaggiare del brut e del rosé.

Se vedemo!

Stan

Le sagre venete

Mia cara Berenice,

non è un caso che la mia pur breve permanenza nelle Venezie mi abbia portato, e per ben due volte, in una sagra.

Le sagre, nella mia terra natia, sono onnipresenti e inossidabili, niente e nessuno può scalzarle, nemmeno la pandemia… non è vero, moltissime sono saltate nonostante le disposizioni permissive del Governatorato, ma quella della mia Parrocchia, no.

Ci sono stato due volte con i miei genitori, clienti assidui. Mio padre, in particolare, è disposto a mangiare fuori dal perimetro del desco casalingo solo ed esclusivamente per barattarlo con la tovaglia di plastica del tavolo numerato di una sagra.

La sagra si tiene normalmente in coincidenza con la festività del santo patrono della Parrocchia, in uno spazio della Parrocchia stessa o del Comune, sotto la supervisione di un’associazione locale, la Pro Loco. Parrocchia, Pro Loco… enti paciosi e innocui le cui facciate scrostate celano, sovente, lotte feroci in cui si brandiscono i coltelli. D’altronde, il frusciare dei soldi che circonda le casse della sagra, per quanto coperto dalla musica pompata dalle casse per accompagnare il ballo liscio, non è sempre così inconsistente, nonostante la blanda attenzione riservata al medesimo dalle Autorità pubbliche e tributarie in particolare.

La sagra è infatti, in fin dei conti, un’impresa di ristorazione. File e file di tavole e panche di legno allineate sotto un tendone, su ogni tavolo un numero e un blocchetto per scrivere le ordinazioni da cui penzola, legata con lo spago, una penna o una matita.

Gli avventori si accomodano sulle panche, compilano il blocchetto con l’ordinazione e il numero del tavolo, strappano il foglio e inviano un rappresentante, di solito il capofamiglia, a mettersi pazientemente in fila davanti alla cassa per il pagamento, effettuato il quale la comanda viene spedita direttamente nelle cucine.

Poco dopo, dalle cucine stesse o dalla frasca esce una giovane e graziosa ragazza, la cui uniforme può essere una semplice maglietta colorata, con un vassoio su cui sono affastellate le bibite, posate e bicchieri di plastica. Dopo un certo tempo, seguirà una seconda inserviente con tovagliette di carta e il cibo: carne alla griglia, polenta abbrustolita, patatine fritte, fagioli con la cipolla, tocchi di carne allo spiedo, formaggio alla piastra.

Fra i tavoli, altre due spigliate ragazze spingono il carrello dei dolci – a volte preparati dalle brave signore della Parrocchia, a volte industriali – da proporre a chi ha già concluso con il salato.

La terza ondata è composta da due simpatici bambini. Uno si trascina dietro un sacco di plastica, l’altro vi sospinge tutto ciò che è rimasto sui tavoli.

La faccenda può concludersi qui o avere un esiguo contorno di intrattenimento: una pista da ballo in legno su cui ballare il liscio o roba più moderna, oppure la famigerata pesca di beneficenza. Nel secondo caso, si acquistano uno o più bigliettini di carta che, una volta srotolati, rivelano un numero. Li si consegna a una delle ragazze dietro al bancone e, salvo colpi straordinari di fortuna rappresentati dalla “pesca” di un numero particolarmente basso, si ricevono confezioni di spugne, pacchetti di biscotti di cui è bene verificare la scadenza, piccoli accessori per la casa, tubi di bolle di sapone o altre amenità.

È inutile significare a una ragazza del tuo buon gusto quanto tutto ciò sia meraviglioso.

Avete nulla del genere, in Austria?

Un popolaresco saluto.

Stan