When Johnny comes marching

Mia cara Berenice,

marzo è mese di ferali ricorrenze.

Non mi riferisco alla Giornata dell’Unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera, che ha indotto le Autorità a interdire inopinatamente al traffico Piazza Venezia in un affollatissimo venerdì mattina lavorativo.

Il 16 marzo 2014 si è tenuto, nella Crimea occupata dalla Russia, il referendum che ne ha sancito l’annessione da parte di Mosca. Già allora ricordo che quella parola, “annessione”, mi parve gravida di funesti presagi. Rivelava un Cremlino non solo poco ligio al diritto internazionale (quasi tutti i Governi lo sono), ma soprattutto proiettato nel passato. Da quanto tempo non veniva proclamata un’annessione forzosa? La Turchia, nella parte occupata di Cipro, ha preferito installare un Governo fantoccio. Perfino il Terzo Reich e l’Impero napoleonico utilizzavano le incorporazioni territoriali con moderazione, preferendo spesso gli Stati vassalli. L’annessione, insomma, è una misura estrema, indicativa di estremismo o di colonialismo.

All’alba del 20 marzo 2003, invece, iniziava l’invasione angloamericana dell’Iraq, che mi vide sin da principio contrarissimo. Innanzitutto, Washington e Londra si stavano rendendo ridicole, la prima con la teoria delle armi di distruzione di massa, la seconda con bizantini cavilli giuridici, finalizzati a ripristinare l’autorizzazione all’uso della forza armata concessa dal Consiglio di Sicurezza in occasione della Guerra del Golfo. Inoltre, era evidente che si rischiava di consegnare il Paese all’Iran e al jihad. Per dire che si può essere favorevoli al sostegno all’Ucraina senza essere filoamericani fanatici.

Compatta fu anche l’opposizione dell’Europa continentale, con una posizione molto ferma della Germania e la Francia che usò i suoi storici agganci in Africa per impedire la formazione, in senso al Consiglio di Sicurezza, della cosiddetta “maggioranza morale” teorizzata dagli anglosassoni, ossia nove voti favorevoli su quindici, al netto del veto francese. Dall’altra parte dell’Atlantico, se la presero parecchio. Il New York Post schiaffò in prima pagina la foto di un cimitero militare americano in Normandia, con il titolo: “Sono morti per la Francia, ma la Francia ha dimenticato”. Ci fu perfino un pittoresco quanto effimero tentativo di ribattezzare “freedom fries” le patatine fritte (French fries). Per dire che l’Europa, nonostante la mancata reale integrazione in materia di politica estera e di difesa, non è serva degli Stati Uniti e della NATO come la si dipinge.

Get ready for the Jubilee, Hurrah, hurrah!

Stan

Simboli natalizi

Mia cara Berenice,

ancora buona Natale.

Si festeggia anche in Ucraina, dove la neve cade frammista a bombe russe.

Anche in Ucraina, dove fino all’anno scorso si festeggiava in gennaio, secondo il calendario ortodosso. Il Patriarcato di Kiev, ormai scismatico rispetto a quello di Mosca, ha ordinato che la Messa natalizia si celebri oggi, salvo ripeterla – almeno per un periodo transitorio – in gennaio, secondo la tradizione.

Senza voler scadere nel tifo da stadio da salotto televisivo, l’impressione è che la cosiddetta “operazione militare speciale” abbia spezzato il delicatissimo equilibrio che teneva sospeso tra Occidente e Oriente un Paese dilaniato da forti pulsioni filorusse e altrettanto potenti forze antirusse.

Tra le prime, possiamo citare le seguenti.

La lingua. Oltre un ucraino su tre ha come prima il russo o è bilingue, ma quasi tutti comunque parlano il russo.

La storia. La Rus’ di Kiev può essere considerata il primo embrione, quantomeno ideale, dello Stato russo. L’Ucraina, inoltre, faceva parte dell’Impero Russo e dell’Unione Sovietica.

I cosacchi. Non erano solo ucraini, né sempre così disciplinati, né gli unici a servire sotto le armi zariste, ma erano considerati la spada russa per antonomasia.

Le forze antirusse sono altrettanto forti e tendenzialmente più recenti, pur avendo solide radici storiche.

Al primo posto, infatti, troviamo di nuovo i cosacchi. Non sempre, come ho detto, furono così incondizionatamente fedeli allo Zar, erano piuttosto truppe riottose che si tolleravano per il loro grande potenziale combattivo, un po’ come certi eroi d’azione delle pellicole americane. Se il loro rapporto con l’Imperatore fu altalenante, di certo odiavano il Partito Comunista. Durante la Guerra Civile Russa, si schierarono con la fazione bianca. Durante la Seconda Guerra Mondiale, ebbero legami con l’Asse, così come un parte dei vertici politici e intellettuali ucraini – un elemento su cui è imperniata la propaganda russa contemporanea. La croce equilatera bianca dei cosacchi è recentemente ricomparsa sui mezzi delle Forze Armate ucraine.

Questo ci porta all’Holomodor, la carestia creata a tavolino dai pianificatori comunisti per domare l’Ucraina negli anni ’30, ormai diffusamente riconosciuta come crimine di genocidio.

Ultimo ma non ultimo, abbiamo il legame storico con la Polonia, bastione cattolico e anticomunista – di nuovo, non a caso, la propaganda russa fa riferimento anche a un presunto cattolicesimo ucraino. Basti dire che una delle canzoni diventate simbolo della resistenza all’Armata russa, “Hej Sokoly”, è comune a Ucraina e Polonia.

Riassumendo, temo che la mossa scomposta di Putin abbia definitivamente reciso il cordone ombelicale russo-ucraino, basato su componenti organiche ormai risalenti, non scevre di ambiguità e sbilanciate in favore della Russia, scatenando un guerriero delle steppe fortemente antirusso e dall’antichissima, temuta tradizione militare.

Da una parte, è una buona notizia. Difficilmente l’Ucraina potrà mai essere soggiogata. Troverà sempre una sponda nell’Europa dell’Est antirussa (Polonia e Repubbliche baltiche), ma soprattutto continuerebbe a resistere – certo, con maggiore fatica e probabilmente con mezzi meno convenzionali – anche in caso di attenuazione degli aiuti occidentali. Dopotutto, la prima e più decisiva fase della guerra, la battaglia di Kiev, ci racconta la storia di una difesa organizzata più con determinazione e capacità di improvvisare che con dovizia di mezzi, combinando strumenti informatici, propaganda, resistenza spontanea e droni turchi non certo classificati come armi di punta. La famosa interminabile colonna corazzata russa verso la capitale sarebbe stata neutralizzata dall’unità di ricognizione aerea Aerorozvidka, un gruppo di informatici che tallonava i carri armati su quad acquistati mediante crowdfunding. Leggende della propaganda? Può darsi. Eppure in effetti, in quelle prime settimane, nessuno credeva nella possibilità di salvare Kiev, tanto che al Governo ucraino era stata offerta l’estrazione su mezzi americani.

La cattiva notizia è che la pace è molto, molto lontana, come ha evidenziato recentissimamente uno degli osservatori più qualificati, il Governo turco. Il Cremlino lamenta il fatto che l’Ucraina sarebbe eterodiretta dall’Occidente, ma, paradossalmente, solo una forte pressione euroamericana potrebbe convincere Kiev ad accontentarsi di qualcosa di meno della piena vittoria.

Un saluto.

Stan

Dracarys

Mia cara Berenice,

nel 1917, sull’onda della Rivoluzione Russa, il Granducato di Finlandia, un feudo dello Zar, proclamò la sua indipendenza: oltre un secolo passato a scrutare ansiosamente i confini con l’Unione Sovietica, accanitamente difesi durante la Guerra d’Inverno del 1939-1940.

Ignoro sinceramente se da lì, oggi, le vedette riescano a vedere l’alta lingua di fuoco dello stabilimento di Portovaya, dove la Russia brucia il suo gas naturale, per non venderlo all’Europa, a un ritmo stimato di oltre quattro milioni di metri cubi al giorno.

Un’immagine che non ha nemmeno il tono apocalittico dei pozzi di petrolio incendiati dalle truppe irachene, durante la Guerra del Golfo del 1990-1991, ma piuttosto quello di una stupidità sconsolante e disarmante. L’alito del drago appollaiato a Portovaya, infatti, non si limita a dissipare risorse naturali, ma inquina pure e massicciamente, con il suo fiato pestilenziale.

La malefica evocazione di Rasputin non ha nemmeno la precisione militare dei draghi di “Il Trono di Spade” che, almeno, si prendono la briga di scendere in battaglia e sono cavalcati da una leggiadra e biondissima Emilia Clarke.

Come lo Smaug de “Lo Hobbit”, se ne resta immobile, assiso su un tesoro inutile, salvo scatenarsi con furia cieca e sanguinaria se provocato.

Curiosamente, la più alta decorazione russa è l’Ordine di San Giorgio, istituito da Caterina la Grande e ripristinato dopo la caduta dell’Unione Sovietica: San Giorgio, il santo associato all’uccisione di un drago, ma anche alla Gran Bretagna, in questo momento uno dei più acerrimi nemici della Russia.

Il drago, infine, è strettamente legato alla Cina, l’ingombrante, riluttante e ambiguo alleato di Mosca. Ha un ruolo importante nell’oroscopo e nel calendario cinesi, oltre a svettare sullo sfondo giallo della bandiera dell’Impero Qing.

Un mostro incontrollabile, pestilenziale e distruttivo, ma che pure affascina a tutte le longitudini, sotto cieli diversissimi, agli antipodi della terra e della civiltà. Una considerazione estetico-antropologica forse di per sé sufficiente a comprendere il misterioso e oscuro richiamo esercitato dalla Russia post-sovietica e nazionalista su tante anime: certi mostri non se ne vanno, senza lasciarci mutilati.

Dracarys.

Stan

Milites gloriosi

Mia cara Berenice,

il caldo estivo, a quanto pare, eccita il machismo grottesco.

Da settimane ormai il Prof. Avv. Conte, già Presidente del Consiglio e attuale Capo Politico del Movimento 5 Stelle, notifica ultimatum al Governo. Non ha ottenuto nulla, se non una certa dose di ridicolo e una scissione, guidata dal Ministro degli Esteri Luigi Di Maio.

Oggi, il Presidente della Duma o di una sua Camera ha minacciato la riannessione dell’Alaska, regolarmente venduta dalla Russia agli Stati Uniti nel XIX secolo.

Infine, non vedo traccia del drastico calo delle temperature promesso dai meteorologi, che ormai rivaleggiano con virologi ed esperti di strategia militare e geopolitica.

Troppa vanagloria alla Kadyrov. È come se io proclamassi di voler prendere la situazione in mano e affrontare finalmente tua madre.

Un umilissimo saluto.

Stan

Illuminazione sulla via di Kiev

Mia cara Berenice,

il Pontefice ha rilasciato a La Civiltà Cattolica, la rivista della Compagnia di Gesù fondata nel 1850, un’intervista balzata agli onori della cronaca soprattutto nella parte dedicata alla guerra in Ucraina.

Dopo aver ammonito che “non ci sono buoni e cattivi metafisici”, il Papa, citando un Capo di Stato straniero anonimo che aveva previsto la guerra, ha ripreso la sua nota frase sull’abbaiare della NATO alle porte della Russia.

Non è su questo, però, che voglio soffermarmi. Fedele alla sua augusta tradizione diplomatica, la Santa Sede sta portando avanti una mediazione che potrebbe rivelarsi di valore, in una controversia non priva di riflessi religiosi. Al fianco del Cremlino c’è – come sempre nella storia – il Patriarcato di Mosca e i nazionalisti russi tacciano l’Ucraina non solo di neonazismo, ma anche di cattolicesimo. Significativamente, la Russia ha accolto con favore i felpati passi della Santa Sede. Quindi, ben vengano gli equilibrismi, tipici del resto dell’ambiente curiale romano.

Quello che più mi ha colpito, forse addirittura spaventato, è come proprio nel pieno del suo sforzo di bilanciamento il Papa abbia pronunciato una frase illuminante ai miei occhi, ma nel senso opposto a quello auspicato da Sua Santità. “Non capiscono,” ha detto il Pontefice, sempre citando l’innominato Capo di Stato straniero, “che i russi sono imperiali”.

È vero, verissimo. Il Presidente russo Putin stesso, in questi giorni, ha rievocato lo Zar Pietro il Grande. Altri commentatori avevano già espresso lo stesso concetto, in modo più articolato del Papa, ma con minore forza di sintesi, la sferzata del lampo che squarcia l’oscurità.

Come può un impero vivere all’interno di un ordine internazionale che, pur nell’effervescente ed effimero frizzare della globalizzazione, resta solidamente imperniato sugli Stati nazionali? Non può o ci riesce a fatica, adottando una pelle ibrida sempre suscettibile di muta, di essere gettata secca e accartocciata a terra.

Un documentaristico saluto.

Stan

Non odiare il lunedì

Mia cara Berenice,

l’altro ieri, 9 maggio, era la Giornata dell’Europa, l’anniversario del raid indipendentista veneto sul Campanile di San Marco e della vittoria sovietica nella Seconda Guerra Mondiale.

Una data molto temuta, perché si paventava qualche terrificante post degli esperti di comunicazione della Commissione, la comparsa dell’ennesimo carro armato artigianale in Veneto o un’apocalittica dichiarazione di guerra del Presidente Putin dalla Piazza Rossa.

Ciò non è avvenuto, facendo sperare in una possibile pace e sottolineando la debolezza della Russia fiaccata dall’invasione, tanto che gli analisti si interrogano sull’annullamento del trasvolo, ufficialmente imputato a cattive condizioni meteo, anche se sui cieli di Mosca splendeva il sole.

A emergere, infine, è stata la debolezza estrema della giustificazioni russe del fallito blitz ucraino, incoerenti e contraddittorie.

Nel suo discorso del 22 febbraio, il Presidente Putin scelse di dare un taglio storico, sostenendo in buona sostanza che le Repubbliche ex sovietiche sarebbero una costruzione artificiosa, un mero accidente, un’aberrazione della propaganda e della politica bolscevica, puntando esplicitamente l’indice contro Lenin – dovrebbe ricordarlo chi, dall’estrema sinistra, sostiene Mosca.

In un successivo discorso del 24 febbraio, notificato ufficialmente al Segretario Generale delle Nazioni Unite dal Rappresentante Permanente russo, si citato presupposti completamente diversi, ossia gli interventi militari occidentali nei Balcani, in Iraq, in Siria e in Libia. Operazioni concluse da tempo. Quella in Libia, poi, autorizzata dal Consiglio di Sicurezza grazie all’astensione della Russia.

L’altro ieri, nuovo revirement. L’invasione russa dell’Ucraina diventa un attacco preventivo, per prevenire uno analogo occidentale – contro una Potenza nucleare?

Tornando alla Giornata dell’Europa, a Roma la si è festeggiata con un concerto in Campidoglio, che ho potuto comodamente raggiungere dopo il lavoro. Oltre alle varie Autorità europee e nazionali, civili e religiose, erano presenti gli Ambasciatori degli Stati membri e l’Ambasciatore d’Ucraina. Il legato di Francia, Paese che detiene la Presidenza di turno, ha pronunciato un discorso davvero ispiratore. In generale, l’appoggio a Kiev è stato chiaro e netto, senza troppi distinguo che avrebbero violato il precetto evangelico “sit verbum vestrum: est, est; non, non”, per di più alla presenza di un Cardinale Arcivescovo.

L’Azienda Comunale Elettricità e Acque aveva illuminato gli edifici del Campidoglio con i colori dell’Unione.

Un solenne saluto.

Stan

False friend

Mia cara Berenice,

ci sono notizie che sembrano buone, ma sono in effetti cattive.

Incontri Elizabeth Hurley in un pub: notizia buona, anzi ottima.

Elizabeth Hurley si rivela essere, in effetti, il Diavolo: notizia cattiva, addirittura pessima.

Il riferimento è, ovviamente, a “Indiavolato” (USA, 2000), rifacimento o remake de “Il mio amico il diavolo” (Gran Bretagna, 1967).

In questi giorni, si dice che la Russia stia ricevendo soccorso da Cina e Iran.

La prima ha fatto atterrare un carico di missili in Serbia, storico alleato ortodosso della Russia nei Balcani.

La seconda starebbe inviando armi direttamente alla Russia, via Iraq e Iran.

Ma sono davvero buone notizie per Mosca?

Innanzitutto, la fornitura cinese sarebbe stata acquistata nel 2019. Soprattutto, prima della guerra in Ucraina l’acquisto di armi cinesi da parte della Serbia sarebbe stato considerato uno smacco per la Russia e, molto probabilmente, lo è ancora.

Per quanto riguarda le forniture iraniane, come si suol dire, peggio che andar di notte. Quando devi chiedere aiuti militari all’Iran stritolato dalle sanzioni, probabilmente è ora di accantonare sogni imperiali e nostalgie zariste. Per giunta, secondo il Messaggero, al fine di mettere in sicurezza le linee di rifornimento in Siria la Russia sarebbe stata costretta a riprendere ivi le operazioni militari contro lo Stato Islamico.

Se c’è una buona notizia per il Cremlino, ecco, è il transito delle armi attraverso l’Iraq. Questo conferma quanto il Paese a maggioranza sciita sia scivolato nella sfera d’influenza iraniana, per effetto della disastrosa e inspiegabile guerra voluta dall’Amministrazione Bush nel 2003. Per aggiungere beffa a danno, quell’operazione militare è stata citata dalla Russia nella lettera ufficiale inviata alle Nazioni Unite per giustificare l’invasione dell’Ucraina.

Terrific!

Stan

Il volo Mosca-Pechino è stato annullato

Mia cara Berenice,

comprendo la preoccupazione del colonnello generale von Hazai per un asse Mosca-Pechino, anche se mi sfugge in che modo rafforzare le guarnigioni in Boemia potrebbe controbilanciarlo.

Personalmente, non sono particolarmente preoccupato, credo che questo matrimonio non si farà o, se si farà, rimarrà bianco, freddo e frigido.

Questa guerra ci ha mostrato l’importanza della storia, posto che la Russia pratica l’espansione territoriale dal tempo degli Zar, con buona pace di chi incolpa la NATO.

Ebbene, l’alleanza sino-russa fu tentata già nel secondo dopoguerra. Le condizioni, sulla carta, erano perfette: oltre alla contiguità geografica, Governi comunisti duri e puri al potere in entrambi i Paesi.

Sappiamo come è andata a finire pochi anni dopo, con la rottura violenta e polemica, il maoismo a fare da concorrente ideologico a livello mondiale al marxismo-leninismo, la visita di Nixon a Pechino del 1972.

Il fatto è che si tratta di due Paesi diversi, diversissimi.

La Russia in continua espansione territoriale, interrotta bruscamente da periodici crolli del fronte interno, dovuti all’economia asfittica e a istituzioni inefficienti.

La Cina superpotenza economica piuttosto che militare, dedita più a consolidare il suo vastissimo, complesso e popoloso impero che a espandersi.

Non è cambiata molto.

Ha un piccolo arsenale nucleare, simile a quelli europei, giusto il necessario per avere la certezza di non essere invasa.

È tornata sulla scena mondiale grazie al boom economico innescato dalle riforme del Presidente Deng.

Resta ossessionata dal controllo interno e dal consolidamento dei confini storici: da qui lo stato di polizia, l’ossessione per Taiwan, la miope repressione a Hong Kong e quella, ancora più surreale e assurda, contro milionari, VIP e influencer.

È sull’aspetto economico, tuttavia, che vorrei tornare a mettere l’accento. Secondo dati dalla sezione di ricerca della banca d’investimento Macquarie, citati da Elena Holodny su Insider, ancora nel ‘700 l’economia cinese era oltre sette volte quella della Gran Britannica, la principale Potenza economica, commerciale e marittima europea. Si noti che, in quel momento, l’Impero Cinese era già in declino, eppura ancora a inizio ‘900 superava in termini economici l’Impero Britannico ed era secondo solo agli Stati Uniti. Il crollo si è arrestato nel secondo dopoguerra, fino all’impennata attuale. Secondo Fortune, la Cina supererà anche gli USA, diventando la prima economia mondiale, entro il 2030.

Insomma, una nazione di bottegai, direbbe Napoleone.

E cos’ha in comune una nazione di bottegai con la Russia? Gli Stati Uniti e l’Europa avranno sempre di più da offrire, in termini commerciali e finanziari. Mi spingo a dire che, se non fosse per l’accidente storico di Taiwan, ci sarebbe lo spazio per una Cordiale Intesa… e forse c’è ancora.

Uno speranzoso saluto.

Stan

Chernobyl

Mia cara Berenice,

l’improvvisa e improvvida invasione russa dell’Ucraina – personalmente, ero convinto si sarebbero accontentati del Donbass, rimettendo in scena il copione già visto per la Crimea – ha scatenato la prevedibile guerra di propaganda, arte in cui del resto i russi sono degni eredi dei sovietici.

Le fonti dirette sono poche, le notizie si contraddicono, il materiale caricato in Rete non sempre è attendibile; la stampa italiana, per esempio, si è fatta turlupinare da foto di una parata militare del 2020 e addirittura di un videogioco.

Tuttavia, lo stesso Governo di Kiev avrebbe ammesso che la Russia ha preso il controllo dell’ex centrale nucleare di Chernobyl, sopraffacendo la locale guarnigione. È difficile immaginare battaglia che sia simbolo più eloquente di questa guerra.

C’è tutto.

L’incoscienza di combattere tra scorie radioattive e misure di contenimento sovietiche (il famoso sarcofago in cemento armato colato sul reattore) la cui obsolescenza ha suscitato non pochi allarmi fra gli esperti.

Gli strascichi dell’ottusa oppressione russa.

La comprova dei tratti coloniali, ereditati dall’Impero zarista, di un’Unione Sovietica ufficialmente federalista o addirittura confederale, in pratica iper-centralizzata.

La miseria di combattere per un lembo di terra contaminata.

Il sapore di presagio della fortunata miniserie angloamericana del 2019, accolta in Russia con una denuncia per diffamazione da parte del Partito Comunista, ma anche dei vari film e videogiochi occidentali hanno sfruttato Chernobyl come ambientazione dell’orrore, immaginando che il pulsante cuore radioattivo generasse mostri, mutanti, golem, zombie…

Chernobyl.

Un saluto gracchiante diffuso dagli altoparlanti.

Stan

Bolshoi

Mia cara Berenice,

la Federazione Russa non sarà l’unico Stato a riconoscere le Repubbliche Popolari del Donetsk e del Luhansk: lo farà anche la Siria, come annunciato dal Ministro degli Esteri Faisal Mekdad.

Dal punto di vista estetico, un filo rosso di coreografia e teatralità lega gli interventi militari russi in Medio Oriente e sulle sponde del Mar Nero.

Nel 2016, dopo la liberazione di Palmira dal Califfato, l’Orchestra Mariinsky di San Pietroburgo al completo si esibì tra le millenarie rovine dell’anfiteatro romano.

La liberazione dell’antica città costò la vita al tenente Alexander Prokhorenko, Eroe della Federazione Russa. Sulla Rete venne fatto circolare l’audio, da alcuni ritenuto apocrifo, dell’ultima trasmissione radio dell’ufficiale.

“[I miliziani dello Stato Islamico] sono qui fuori, effettuate subito l’attacco aereo, sbrigatevi, è finita, dite alla mia famiglia che li amo e che sono morto combattendo per la Patria”.

“Negativo, rientra alla Linea Verde!”

“Comando, è impossibile. Sono circondato, sono qui fuori, non voglio che mi prendano e mi esibiscano come un trofeo, effettuate l’attacco aereo, scherniranno me e la mia uniforme. Voglio morire con dignità e portarmi dietro tutti questi bastardi. Esaudite il mio ultimo desiderio, effettuate l’attacco aereo, mi uccideranno comunque”.

“Confermare richiesta”.

“Sono qui fuori, è la fine, comandante, grazie, dite alla mia famiglia e al Paese che li amo. Dite loro che sono stato coraggioso e che ho combattuto fino all’ultimo. Prendevi cura della mia famiglia, vendicate la mia morte. Addio, comandante, dica alla mia famiglia che li amo!”

Vero o meno che sia l’audio, lo stesso spiccato gusto propagandistico è risultato evidente sia in occasione della presa della Crimea, sia in quella della ripresa delle ostilità militari nel Donbass.

Nel primo caso, in aggiunta al profondo simbolismo storico della penisola, abbiamo visto gli uomini in tute nere e i veicoli militari senza contrassegni eruttati letteralmente dalla terra, un’epifania suggellata dall’invocazione di un istituto giuridico antico e dimenticato, simile alle formule magiche usate nei primissimi processi della Roma arcaica: annessione.

Nei giorni scorsi, invece, abbiamo assistito a una riunione in diretta televisiva, attentamente coreografata, del Consiglio di Sicurezza Nazionale russo presieduto dal Presidente, esibitosi poi in un drammatico discorso alla Nazione nel quale, evocando le glorie passate e attaccando l’apparato comunista di cui pure faceva parte, si è ben meritato il soprannome di Zar.

Ora, prevedibilmente, affluiscono i primi video di colonne militari russe che attraversano il confine, a coronamento di settimane di immagini satellitari sgranate di carri armati, elicotteri, caserme e ospedali da campo.

Un inchino.

Stan