Nelle braccia dell’ex

Mia cara Berenice,

sono arrivato a Roma dopo un viaggio trascorso placidamente nella culla delle braccia di Morfeo.

Venivo, del resto, da due settimane piacevolissime, ma decisamente piene. Ieri sera, mio padre mi ha trovato in croce sul letto, circondato di bagagli abbozzati e regali scartati. Mi ha chiesto se non mi sentissi bene, l’ho rassicurato che stavo benissimo.

Oltre a organizzare mentalmente il treno di valigie, dovevo decidere quali regalie portare a Roma e quali lasciare in Veneto, perché troppo voluminose o perché solo ivi spendibili, come un buono omaggio per una camicia su misura, in aggiunta a incombenze varie.

Ieri poi, come già ti ho scritto, l’autunno si è abbattuto sul Nord Italia come una mannaia. È perciò con piacere inaspettato che sono tornato all’ovile del caldo romano, temperato e depurato dalle colate di sudore.

A Termini mi sono stati serviti a prezzo modico degli ottimi spaghetti al pistacchio e gamberetti; ha inoltre aperto i battenti una nuova pasticceria.

La città risulta più pulita e in ordine, probabilmente in vista del prossimo Giubileo e grazie alla riapertura della principale discarica sita in Malagrotta, a lungo paralizzata da un incendio. In via Nazionale, sono state rimosse le impalcature che velavano l’ampia facciata del Palazzo delle Esposizioni.

Arrivato rapidamente a casa, ho fatto un ulteriore sonnellino godendomi il sole dalla finestra aperta. F., durante la mia assenza, ha tirato la casa a lucido e il limone sembra in discreta salute.

Il quartiere è vivo e affollato; Villa Pamphili, dove mi trovo ancora, ancora di più.

Un appagato saluto.

Stan

Roma puttana

Mia cara Berenice,

il 71° Festival della Canzone Italiana si è concluso nella tarda notte di ieri, per cui, secondo un inattaccabile ordine delle priorità, posso di nuovo scriverti stasera.

La prima serata del Festival, come ricorderai, è stata co-condotta dall’attrice italiana Matilda De Angelis, recentemente sbarcata a Hollywood. Ella ha un passato di musicista – si è infatti esibita in un duetto – e ha recitato nel video ufficiale di “Felicità puttana”, canzone del gruppo Thegiornalisti.

Felicità puttana, Roma puttana.

Roma Amor, come scrivono le quattordicenni che infestano di lucchetti il Ponte Milvio.

Ricordi come io e la mia città avevamo litigando, amaramente e ferocemente, durante e dopo la prima ondata pandemica? Vittime del confinamento, come tante coppie.

Ricordi la sua reazione fredda e sussiegosa, quando minacciai di andarmene a Bruxelles?

Non credeva, l’algida signora, che avrei veramente preso quell’aereo. Dopotutto c’erano la pandemia, il parere contrario della mia famiglia, la prospettiva concretissima – e infatti puntualmente realizzatasi – di un nuovo confinamento in Belgio.

Si schiantò perfino il motore dell’aereo – ricordi? – a pochi minuti dal decollo.

Salii su un altro apparecchio e atterrai a Bruxelles. Quando sbucai dalle scale mobili della stazione di Schuman, era buio e un vento gelido mi schiaffeggiava la faccia con guanti bagnati.

La stanza interrata nel cuore del Quartiere Europeo sembrava presaga di sventura, ma, a volte, è possibile battere il pronostico.

Sono tornato, figurativamente parlando, abbronzato, con gli occhiali da sole e i segni di un succhiotto sul collo.

Avevo la più ferrea volontà di fargliela pagare.

La buona notizia è che, finalmente, si è fatta prendere dal panico.

Clima primaverile, cielo azzurro e mura ocra, il Ministero riportato magicamente quasi ai tempi ante-pandemia, corridoi affollati, saluti festosi, attrezzatura informatica nuova di zecca, novità organizzative e dossier stuzzicanti.

La casa a Monteverde, che solitamente dopo ogni viaggio mi veniva riconsegnata irta di trappole e dispetti, tirata a lucido e a nuovo, simile a una reggia o alla caverna di Aladino. Il vicino del primo piano mi ha aiutato a riavviare il gas, quello dell’ultimo si è offerto spontaneamente di cambiare l’antenna televisiva comune, ormai malfunzionante.

Il quartiere, il mercato, le bancarelle di libri usati. Too Good to Go diffusosi, improvvisamente, più di un teoria complottista, con esercizi aderenti ogni duecento metri.

Quanto a questo, il cibo merita un capitolo a parte. Qualche giorno fa, uscendo dal Ministero in pausa pranzo, sono andato a fare due passi per Trastevere. A Piazza San Cosimato, per la misera somma di sei euro, mi hanno dato un lesso con patate arrosto che non ti so descrivere. Oggi A. ha sbattuto su un ottimo risotto di frutti di mare il carico di un pesce intero in cartoccio; io avevo acquistato le zeppole di San Giuseppe, grosse come un pugno.

Insomma, la signora si è spaventata, e questa è la buona notizia.

La cattiva è che io sono crollato come un quattordicenne grondante ingenuità e ormoni.

I’ll see you later, Mrs. Robinson.

Stan

Hansel

Mia cara Berenice,

scusami se solo ora riesco a intrattenerti più diffusamente sul mio ritorno nella Città Eterna.

Il viaggio in se è andato, visti i presupposti, incredibilmente liscio.

Non ho potuto effettuare il check-in online, partire dal Belgio implicava la compilazione di un modulo di autocertificazione cartaceo.

L’aeroporto di Bruxelles piuttosto vivo, benché uno schermo all’ingresso dei gate annunciasse una capienza di appena il sei per cento. Al banco del check-in, la hostess mi ha fatto compilare un secondo modulo, diverso da quello che avevo scaricato dal sito, ritirato poi da una collega prima dell’imbarco.

Nessuno ha chiesto la déclaration sur l’honneur per l’espatrio belga. Nessuno ha verificato il referto del mio tampone prima dell’atterraggio a Fiumicino, dopo che avrei potuto contagiare l’intero volo.

Ritirati dal nastro trasportatore i miei due giganteschi trolley, mi sono trascinato fino alla stazione dell’aeroporto, salendo sul primo treno per Trastevere. Il biglietto mi è stato convalidato due volte, ai tornelli e dal capotreno.

Giunto alla stazione di Trastevere, ho constatato con orrore che nessuno degli ascensori funzionava e, con erculeo scatto di reni, ho sollevato entrambi i trolley per scendere le scale. Fermatomi sul pianerottolo per riposarmi, ho sollevato lo sguardo e mi sono trovato davanti una signora con il mio stesso problema. Mi sono avvicinato per darle una mano, ma mi ha investito con una serie di insulti sull’Italia e la nostra incuria infrastrutturale; dall’accento mi parve spagnola o sudamericana. Comunque, a quel punto ho tirato dritto.

Arrivato in tram a Monteverde, ho riavviato la casa come fosse un computer. Elettricità: OK. Acqua: OK. Router: OK. Gas: ERRORE. Con l’aiuto del vicino, ho risolto quasi subito: probabilmente una bolla d’aria nei tubi.

Tra ascensori e gas, non un grande inizio, dirai tu. In effetti, non si può negare che, pur non essendo Bruxelles la mitica Atlantide, i marciapiedi terremotati e i cassonetti straripanti di Roma non le appartengano.

Tuttavia, come dissi una volta a un amico arrivato nell’Urbe dall’Inghilterra, Roma si fa perdonare tutto. Sono bastati due passi per il quartiere, da casa al supermercato, per farmi sentire come Hansel e Gretel nella casa di marzapane.

Cibo, cibo ovunque. Ha perfino aperto una nuova hamburgheria. La sera mi sono ingozzato di pizza bianca, gorgonzola e mascarpone.

Ora la strega mi inforni pure.

Un biscottato saluto.

Stan

Il ritorno alla campagna

Mia cara Berenice,

qui in Italia, la pandemia sta facendo impennare le vendite de “La peste” di Camus. Qualcun altro consiglia la lettura del “Decameron” di Boccaccio.

Dal canto mio, per puro caso mi ritrovo fra le mani “La luna e i falò” di Cesare Pavese, vero capolavoro ambientato nell’Italia rurale del primissimo dopoguerra.

All’Autore riesce, in una rara alchimia, la sintesi fra attaccamento viscerale alla terra e rassegna puntuale, cruda e spietata, della miseria, dell’arretratezza e delle ingiustizie delle campagne.

Questa bizzarra dicotomia contribuisce forse a spiegare perché, ancora oggi, sia così diffuso il rimpianto di quel mondo iconograficamente bucolico, ma concretamente fatto di rachitismo, pellagra, capifamiglia e fattori dittatoriali, servitù della gleba camuffata da mezzadria, latifondisti e preti rapaci.

Particolarmente fanatico nel difenderne la causa è un altro autore a me molto caro, Giovannino Guareschi, che forse conosci per la trasposizione cinematografica dei suoi romanzi e racconti su don Camillo e Peppone.

Ancora oggi, come dicevo, il ritorno alla campagna è vagheggiato da destra e da sinistra. La prima ci vede filiere corte e nazionali, autosufficienti, virilità e ancoraggio sicuro alla banchina cementizia degli antichi valori. La sinistra meno industria, capitalismo e globalizzazione, più orizzontalità e solidarismo, magari una maggior facilità di integrazione per gli immigrati, più facilmente assorbibili dalla filiera agricola.

Su questa inedita convergenza vanno a innestarsi, naturalmente, l’ambientalismo, l’animalismo, il biodinamico, l’ecologismo e un’intera nebulosa new age dai contorti piuttosto polverosi e indistinti.

La pandemia, infine, ha dato nuovo impulso a tutto ciò, aggiungendovi una comprensibile tinteggiatura millenaristica. Madre Natura è stanca di noi, gli animali sono usciti dagli zoo e ci hanno chiuso in gabbia, la tragedia deve essere l’occasione per un ripensamento radicale del nostro modo di vivere e del nostro modello produttivo, il vero virus siamo noi.

Ora, io un’idea abbastanza precisa su come, nel mondo di Pavese, si sarebbe affrontata la pandemia. Molto semplicemente, si sarebbe lasciato morire mezzo milione di anziani quasi senza battere ciglio. Qualche ordinanza prefettizia e sindacale, carabinieri a cavallo con le mascherine, la colletta di qualche società benefica, magari un potenziamento delle condotte mediche e poco altro. Anche l’attenzione mediatica sarebbe stata non dico nulla, ma decisamente più annacquata.

Tanto premesso, un certo ritorno alla campagna potrebbe pure esserci. La crisi economica, unita alla difficoltà di far arrivare manodopera straniera, potrebbe facilitare il reclutamento di braccianti autoctoni. Potrebbe esserci un rifiorire di imprese agricole, una tendenza rilevata già prima della pandemia. Le filiere potrebbero diventare più corte, ma su questo ho maggiori dubbi, dato che le merci possono circolare liberamente. L’industria e le città, luoghi naturali di assembramento, potrebbero perdere terreno in favore della campagna. Mi aspetto anche un forte impulso all’agriturismo, in grado di consentire vacanze a breve distanza, isolate e rilassanti.

Anche durante le guerre, del resto, la campagna è sempre stata il locus amoenus più vagheggiato: più facile procacciarsi cibo, maggiore lontananza dai bombardamenti, stacco dall’estetica meccanizzata dei conflitti moderni.

Sei dunque pronta ad abbracciare gli agnellini, come Maria Antonietta al Petit Trianon?

Stan