Rimetti a noi i nostri debiti

Mia cara Berenice,

oggi pomeriggio, tra varie incombenze, ho fatto un bonifico al Ministero. Era avvenuto che, nel mio transito fra i ruoli del Dicastero e quelli dell’Ufficio del Primo Ministro, il primo mi avesse erogato per errore una mensilità e mezza di stipendio, a servizio ormai cessato. Ora, tutto è compiuto. Proprio ieri, il Dipartimento del Personale della mia nuova Amministrazione ha chiesto ufficialmente al Ministero la consegna del mio fascicolo personale.

Termina così il mio primo incarico lavorativo a Roma, la dextera Dei che mi afferrò per i capelli, mi sollevò dalla provincia e mi scaraventò, senza troppi complimenti o preavviso, nel cuore pulsante della capitale, una delle città più vaste, complesse e caotiche d’Europa.

Oh, non esitai, neppure un attimo. Era un’altra Italia, in cui le assunzioni di funzionari erano rare quanto i fiocchi di neve a maggio. Il concorso che condusse alla mia dovette essere bandito addirittura con Legge, previa speciale autorizzazione della Commissione Europea, sedotta dalla prospettiva dell’iniezione di giovani specialisti in Fondi Europei in uno Stato che faticava (fatica) a gestirli.

Proprio un blocco biennale tombale delle assunzioni aveva impedito al Governatorato, dove ero approdato prima come borsista universitario distaccato, poi come consigliere, di stabilizzarmi come assistente amministrativo, profilo per cui avevo superato regolare concorso.

L’eccezionalità dell’evento mi rese dolce il trasferimento e consentì anche alla Scuola Nazionale dell’Amministrazione di organizzare per tutti noi – a prescindere dal Ministero di assegnazione – una lunga e intesa formazione comune, culminata in una settimana residenziale nella Reggia di Caserta.

Il resto, la scoperta di essere un topo di città e non un topo di campagna, venne dopo e spontaneamente.

Un nostalgico saluto.

Stan

Il cortile del Liceo

Mia cara Berenice,

c’era un tempo in cui l’estate andava da giugno ad agosto.

Ricordo nitidamente il primo anno in cui il caldo arrivò, imperioso e inequivocabile, all’inizio di maggio.

Ero al Liceo, nel cuore dell’età ingrata. Si andava in ricreazione dopo la terza ora, tra i pilastri di cemento armato del cortile come sotto il cavalcavia di un’autostrada. Gli studenti fumavano appoggiati ai piloni, i docenti più dignitosamente davanti all’ingresso, punteggiando le sigarette con qualche sigaro toscano, a rimarcare che, almeno entro i locali d’istituto, il Muro di Berlino non era mai caduto.

Le ragazze gioivano per le precoci tintarelle e lamentavano le minori opportunità di portare i vestiti acquistati per la mezza stagione. I ragazzi, come dicevo, fumavano appoggiati ai piloni.

Non era ancora giunta l’era degli accorpamenti e dimensionamenti selvaggi, degli Istituti Comprensivi e Onnicomprensivi, e quello era ancora un Liceo Ginnasio Statale, intitolato a Concetto Marchesi. I segni dell’incipiente barbarie, tuttavia, c’erano tutti.

Finito il biennio iniziale del Ginnasio, il curriculum diventava quasi completamente scientifico, almeno per i gusti di chi, come me, viveva di rendita traducendo dal latino e dal greco antico. Il tutto era complicato da tre indirizzi linguistici (inglese, francese e tedesco) e due indirizzi sperimentali (linguistico e informatico) che si intersecavano nella stessa Sezione, in un garbuglio didattico e burocratico inestricabile.

Condividevamo l’edificio con un Istituto Turistico che, di anno in anno, andava gonfiandosi, schiacciando le nostre classi sempre più striminzite e ulteriormente decimate da trasferimenti e bocciature.

Poco dopo che ebbi ottenuto il diploma, arrivò inevitabilmente l’accorpamento a un Liceo Scientifico dall’altra parte della città, il Guglielmo Marconi. Fu detto che il Consiglio d’Istituto avrebbe adottato un nuovo nome, individuando una personalità assommante meriti umanistici e scientifici. Si chiama ancora Marconi.

Un nostalgico saluto.

Stan

L’odore della benzina

Mia cara Berenice,

narra la leggenda che, a Roma Nord, tutti possiedano una Smart. Dopo alcuni giorni passati nel cuore profondo dei Domini di Terraferma, la cruda realtà mi dice che qui tutti possiedono un’Audi, un’Alfa, un SUV o un SUV Audi. Lo stesso patriarca ha un’Alfa a gas e, siccome quest’ultima richiede piccole quantità di benzina per l’avviamento e l’indicatore era in profondo rosso, mi ha chiesto di provvedere.

Mi sono dunque diligentemente incolonnato a una pompa bianca e, per la prima volta da molto tempo, le mie narici sono state solleticate dall’odore pungente della benzina.

Proustianamente, sono stato sbalzato all’indietro, sbattuto sul sedile posteriore della mia infanzia.

Fra i compiti per casa, vi era quello di stilare un elenco di odori che mi piacessero e, con la mia rotonda calligrafia – ahimè, perduta come una voce bianca -, inserii, in coda all’elenco, l’odore della benzina. Mia madre mi costrinse a depennarlo, perché – sentenziò – quello della benzina è un odore sgradevole per definizione.

Il giorno dopo, nelle minuscole scuole elementari di campagna di F., S. venne invitato a leggere il suo elenco e, subito dopo l’odore di un formaggino industriale, snocciolò – lo ricordo come fosse ora – l’odore della benzina.

Anni dopo, nelle pagine di un autorevole esponente della letteratura, trovai nuovamente citato il carburante come esempio di sollazzevole profumo. “Ecco, madre,” urlai mentalmente, in un grido strozzato di trionfo e dolore, “hai sbagliato”.

Lo definirei un esempio particolarmente icastico, per quanto indubbiamente melodrammatico, di emancipazione.

Se Nerone o Norman Bates avessero squarciato il loro petto con un grido simile, probabilmente il primo non avrebbe fatto sventrare la madre da un fante di marina e il secondo – per restare in tema acqueo – non avrebbe intasato di sangue femmineo gli scarichi delle docce.

Un catabasico saluto.

Stan