Metapoesia

Mia cara Berenice,

un moderno zerbinotto direbbe che Roma ha un distretto culturale diffuso. Incastonati nel vetusto tessuto urbano, edifici bianchi, lucenti, squadrati, tappezzati di vetrate, dall’illuminazione neutra, fredda, intensa, ecologica. Perfino a Trastevere, nella marea mugghiante della movida e della paccottiglia, il bisturi della ristrutturazione ha ripulito e ricavato questi mozziconi d’osso.

Uno, appunto a Trastevere, ospita un cinema, due caffè, un’aula studio, un’area espositiva e una sala conferenze. Quest’ultima sorge al primo piano, tra due vetrate che danno sulla strada e sul bar, illuminate – in deroga alle regole ordinarie – da fumosi fasci di luci colorate.

Ieri sera vi si teneva, a cura di un simposio privato ma col beneplacito del Governatorato, un recital in onore di un grande poeta turco, esiliato dal Governo della Madrepatria per le sue idee marxiste.

Il pubblico sedeva su sedie bianche o su divanetti scuri. Dal fondo, un tecnico del suono carezzava i microfoni dei due lettori che si alternavano nel declamare versi, lettere, aneddoti e cenni biografici.

Si era ormai alla fine dell’evento e della breve vita del poeta, stroncato dai postumi delle torture e dello sciopero della fame nelle carceri turche, quando dalla strada si è levato un grido altissimo, acuto, strozzato. Da quale gola fosse eruttato o perché, non si è mai saputo.

Un saluto.

Stan

Storie cinematografiche

Mia cara Berenice,

leggere il giornale sta diventando, per mille motivi, sempre più complicato.

Spiegarne uno cartaceo era diventato una sciccheria retrò, ma ora, con l’ecologismo, si ha scrupolo di sprecare carta.

Sulla Rete, ormai, anche le più modeste testate locali sono a pagamento: sacrosanto, ma non ci si può abbonare a tutte.

Poi la pandemia, dici niente? Leggere le notizie è diventata una roulette russa, il cui parossismo tragicomico si è raggiunto con la variante deltacron, mostruosa combinazione di mostri meccanici uscita da un vecchio anime.

Infine, la guerra, che tale rimane, per quanto la Russia si sforzi di regalarci aneddoti più leggeri, dalla nonna ucraina che avvelena un intero plotone con una torta, al soldato che si arrende con carro armato e tutto in cambio di diecimila dollari e della cittadinanza ucraina.

Per fortuna il Corriere di oggi, oltre ad avere la prima pagina dedicata ai negoziati di Istanbul, riporta varie storie particolarmente idonee a distrarmi, dato che sembrano scritte dalla penna di un – più o meno virtuoso, più o meno mediocre – sceneggiatore hollywoodiano.

Una ragazza che aveva smesso il grembiule di commessa per lavorare nel porno online – un’OnlyFans creator, direbbero con la loro tipica concisione gli anglosassoni – assassinata dal vicino di casa, all’epilogo di chissà qualche torbida storia.

La Preside di un Liceo accusata di avere una relazione con uno studente.

Will Smith che spiega di aver preso a ceffoni Chris Rock perché perseguitato dai fantasmi del passato, quando non aveva saputo difendere la madre dalle percosse paterne.

La rivelazione che Max Mosley, il defunto Presidente della Federazione Internazionale delle Automobili, avvolto in vita in un potpourri di escort, sadomasochismo e neonazismo, si sarebbe suicidato dopo aver appreso di avere un cancro terminale.

Un tizio che ha lasciato la città per andare a vivere in una casa sull’albero.

Insomma, non ci si può lamentare.

Trovi?

Stan

Portali

Mia cara Berenice,

sarà un caso, ma per la terza volta mi vedo a costretto a ritornare sul rapporto fra realtà e fantasia, fra realtà e finzione, fra realtà e narrazione.

La letteratura e il cinema sono pieni di portali, soglie che conducono su un altro mondo: la Caverna delle Meraviglie, la tana del Bianconiglio, l’armadio di Narnia, lo Stargate, la Nona Porta di Roman Polanski, la pillola rossa, e potrei continuare. I racconti di Dino Buzzati sono tappezzati di porte riposte, ignorate dal protagonista che, se invece le varcasse, finirebbe immerso in beatitudini innominabili, in un paradiso modellato a sua immagine a somiglianza dalla notte dei tempi. “E il padrone ti spiegherà che ti aspettava da lunghissimo tempo: per te la casa, la ragazza del pianoforte, l’usignolo notturno, altre risorse”.

Ebbene, in tali portali mistici e interdimensionali non è così difficile imbattersi.

Ti iscrivi a un’agenzia interinale per trovare un lavoretto estivo. Due distintissime e graziose signorine, cartelle sottobraccio, ti accompagnano al cartificio della vicina Zona Industriale. La facciata è accattivante, ergonomica, dai colori chiari e vivaci. C’è perfino l’abitazione dei custodi e, dallo sportello accanto alla sbarra, una signora gioviale conversa con te sui tuoi studi giuridici e su qualche compagno di corso. Negli uffici amministrativi vieni introdotto dalle due signorine a un direttore tecnico e a una direttrice delle risorse umane, vieni sottoposto a un colloquio completo e approfondito. Già lunedì potrai presentarti al lavoro.

Alcuni scambi di battute con il direttore tecnico ti avevano messo sul chi vive, ma non per questo l’ingresso del capannone perde le sue proprietà iperspaziali. Sulla pavimentazione di cemento si sono accumulati secoli di sporco – di quello che, nel vernacolo locale, si chiama “cragna” -, le macchine del cartonificio – che tu ingenuamente avevi immaginato sorelle maggiori della tua stampante a getto d’inchiostro – ricordano molto da vicino i torchi a caratteri mobili usati nel XV secolo per diffondere la Parola della Bibbia.

Molti anni dopo, vieni invitato a tenere un seminario in uno storico e prestigioso Liceo di Roma. Vieni accolto in una splendida sala antica, sui cui vetusti scaffali sono esposti antichi e arcani manufatti scientifici. Anche in questo caso, la Porta si fa preannunciare da un presagio sottile: dopo esserti seduto al tavolo riservato agli oratori, noti che i ponderosi volumi alle tue spalle sono finti.

La Porta si spalanca durante la pausa pranzo, quando, con il piatto del buffet in mano, cominci a girellare pigramente nel corridoio adiacente al salone. Senza farci caso, prosegui per un paio di metri – non di più – e, sulla tua destra, qualcuno ha lasciato aperta la porta di un’aula. Un sguardo rapidissimo e ozioso, quasi involontario, ti rivela una stanza terremotata, bucherellata da raffiche di mitra, devastata, il cui unico lato positivo è la capacità di superare la polemica sull’affissione del crocifisso nelle aule per mera mancanza di pareti. Speri di trovarti in un’aula dismessa o in corso di ristrutturazione, ma – ahimè – alcuni particolari inequivocabili – l’orario affisso sullo stipite, le scritte sulla lavagna, qualche oggetto dimenticato sui banchi – dicono che quella classe è ancora in uso.

Non sempre, però, i portali conducono agli Inferi.

Può capitare, ad esempio, che tu stia facendo una scampagnata in montagna e ti ritrovi in un classico paesino del Trentino Alto Adige/Sudtirolo: tirato a lucido, generosamente concimato di fondi europei e provinciali, traboccante di paccottiglia per turisti.

Ebbene, proprio lì, fra le vetrine di articoli in legno, gli alimentari di speck sottovuoto, la folla di chiassosi gitanti, ecco aprirsi la porta di un’antica chiesa, simile all’antro oscuro di un forno. In quell’oscurità, pulsa un candeliere votivo in ferro battuto completamente ricoperto di lumini accesi, veri lumini di cera le cui fiammelle oscillano impercettibilmente nella debole aria estiva. Ti vengono in mente certi cimiteri che ancora trovi abbracciati alle chiese delle Alpi o dell’Austria, con le croci in ferro battuto che, con le loro silhouette così chiare e nette, simili a un timbro a secco, paiono promettere la resurrezione con la stessa autorevolezza di un certificato anagrafico: “Carl Jürgens, morto il 27 giugno 2021, risorto in pari data. In fede”.

Un ossequiente saluto.

Stan

Cinema neorealista e pittura en plein air

Mia cara Berenice,

ci scrivono dalle Calabrie: “Il mio dirigente mi prescrive, nel redigere il piano ferie, di prestare attenzione che sia sempre presente almeno una persona adibita alla mia funzione; ma io sono l’unica persona adibita alla mia funzione”.

Dopo la posta del cuore, la posta del crepacuore.

Come consolatio, ha invitato la mia amica di penna ad apprezzare il sapore surrealista della richiesta del suo dirigente, degna del miglior cinema. Del resto, le ho fatto notare, l’assenza di produzioni cinematografiche nelle Calabrie impone di mettere in scena le sceneggiature nella vita reale.

A volte, peraltro, si fa lo stesso anche a Roma, dove invece set e produzioni non mancano. Sere fa, tornando a casa, ho trovato un’attrice o una modella intenta a sfilare sulla piazzetta sotto casa mia, mentre un operatore la riprendeva, devoto e deferente, passo passo. Qualche settimana prima, a Piazza della Repubblica, una corposissima troupe aveva allineato i suoi camion carichi di strumenti, a raggiera, a ridosso del colonnato.

Oggi, a pochi passi da lì, in Piazza dei Cinquecento, di fronte alla Stazione di Termini, era invece stata rimessa in scena “alla calabrese” la celebre scena del vigile che, sommerso dal traffico, fischia all’impazzata, sbracciandosi come il naufrago che è.

Una manifestazione dell’estrema sinistra, irta di bandiere rosse come un istrice, aveva infatti prodotto – se non altro – l’ingorgo perfetto, un serpentone ininterrotto e fragoroso di auto, tram, autobus e perfino bus turistici.

Con non poca difficoltà sono riuscito a svicolare e immettermi in via Nazionale. Voltatomi per dare un ultimo sguardo a quel baccanale, mi sono trovato davanti una vigilessa, impeccabile nella sua uniforme bianca che spiccava sulla mascherina nera, nell’atto di incedere a testa alta e spalle dritte, dando regalmente le spalle ai manifestanti, tra due ali di furgoni e agenti della Celere. Un quadro che si potrebbe intitolate “Lo Stato”, a immagine e sostituzione del più celebre “Il Quattro Stato”, riscossa del pubblico ormai colonizzato, secondo la ricostruzione di Bauman, dal privato.

Un saluto militare.

Stan

Carta vince, carta perde

Mia cara Berenice,

“Angiolina cammina cammina sulle sue scarpette blu”.

No, non essere gelosa: è un verso di Fabrizio De André, cantautore già da te poco amato. Dicesti che “le Autorità costituite avrebbero dovuto arrestarlo per istigazione collettiva al suicidio” e lo paragonasti a “un’arma di distruzione di massa vietata dalle convenzioni internazionali”, tale che “se fosse stata impiegata sul fronte occidentale nel ’40, Parigi non sarebbe mai caduta”. Io ti risposti che il richiamo alla Francia era in effetti appropriato, avendo De André un certo debito nei confronti di Georges Brassens.

Comunque, il verso è tratto dalla canzone “Volta la carta” che – alla faccia tua – ha un piglio giocoso e comico, come quello che la realtà ha nei confronti di quasi tutti noi.

Per esempio, nelle mie ultime ti parlavo della Statale 13 deserta; ebbene, oggi era incancrenita di traffico come nei giorni migliori. Carta vince, carta perde. Al posto del solleone estivo, ecco il volto sorridente di un mazziere; al posto delle carte una, cento, mille, diecimila Strade Statali. In una l’asfalto rispecchia il sole abbagliante, nell’altra è madido di pioggia. Una è deserta, l’altra ricoperta uniformemente da un serpentone di veicoli fermi; inspiegabilmente, nessuno suona il clacson, nessuno protesta. Su una è avvenuto un bruttissimo incidente, con un autotreno supino, di traverso, a metà di un ponte. Su un’altra, ghirlande di fiori accolgono i primi classificati di una corsa ciclistica. Su un’altra ancora, identiche ghirlande salutano Sua Maestà il Re d’Italia che, da un’auto scoperta, dispensa saluti con la mano guantata.

Cosa dire in coda a questa fantasmagoria, se non che, a quanto pare, sarei un pessimo storico? Ebbene, io rivendico di essere giudicato con il metro dei classici: historia opus oratorium maxime.

Ave atque vale.

Stan