Il tavolo dei parenti della sposa

Mia cara Berenice,

il battesimo è andato bene.

Ignoravo che i neonati andassero unti col crisma, oltre che bagnati con l’acqua santa; c’è stato perfino un accenno di esorcismo.

Il fonte battesimale, risalente al ‘700, era di un certo pregio.

Sole splendente, servizio al ristorante rapido.

La frase sibillina pronunciata da un invitato mi ha ispirato il racconto che ti allego.

Esci da questo corpo!

Stan

IL TAVOLO DEI PARENTI DELLA SPOSA

Gli agenti della polizia segreta erano universalmente odiati, eppure il loro lavoro non era certo facile. Sorvegliare per giorni, mesi, anni presunti dissidenti partoriti, in modo più o meno casuale, dalla paranoia del governo. Utilizzare l’Intelligenza Artificiale per analizzare l’enorme mole di dati raccolti era impossibile, perché nessun computer avrebbe mai potuto capire il senso di passare al setaccio la vita reale e virtuale della signora Arstotzka, ex maestra in pensione, solo perché uno dei suoi nipoti, emigrato all’estero, aveva partecipato a una marcia contro il governo. Inoltre, gli algoritmi erano tutti di origine americana o cinese: impossibile fidarsi.

Così, il governo continuava ad assumere agenti e “collaboratori esterni”, a un ritmo che presto sarebbe diventato insostenibile per le magre casse dell’erario. Molti alti papaveri si stavano preparando un comodo esilio all’estero; i semplici agenti, in mancanza di meglio, insabbiavano le indagini a carico di qualche vero oppositore, sperando di poter incassare qualche credito in futuro.

Per il momento, tuttavia, la vita nel tetro palazzo del Ministero della Sicurezza continuava a seguire la sua alienante routine burocratica, con una riunione convocata dal colonnello Vonel in persona nella Sala Conferenze H. Lungo il tavolo disposto perpendicolarmente a quello dei relatori, alcune ausiliarie e dipendenti civili avevano perfino allestito un buffet piuttosto corposo: uno sfoggio di abbondanza raro e anomalo che, come tale, preoccupava non poco i convenuti.

“Che sarà successo?”

“Un nuovo Direttore, forse?”

“Così, senza preavviso?”

“Perché, quando mai c’è stato preavviso?”

“Sono cominciate le purghe…”

Il cicaleccio venne interrotto bruscamente dall’ingresso imperioso di Vonel e dei suoi collaboratori che andarono a disporsi ai microfoni, mentre tutti i presenti scattavano sull’attenti.

“Riposo!” Annunciò Vonel, sedendosi. “Care colleghe e cari colleghi, ho ritenuto opportuno farvi convenire qui, strappando tutti noi ai nostri pressanti impegni, perché ci viene richiesto uno sforzo straordinario: un’operazione speciale”.

Tutti trattennero il respiro. Nel criptico linguaggio della Repubblica Popolare, “speciale” era sempre sinonimo di “guai”. Le Commissioni Speciali e i Tribunali Speciali conducevano le purghe interne. L’ultima operazione speciale, svoltasi all’estero, era stata un fiasco imbarazzante, costato carissimo al generale Katsenj, Direttore del II Dipartimento.

Vonel estrasse dalla sua cartella una piccola busta color avorio che sollevò tra pollice e indice, a beneficio dell’uditorio.

“Nell’ultima settimana, l’Ufficio Censura Postale ha intercettato centinaia di queste. Carta organica, ruvida, color perla, di primissima qualità. Come vedete, nonostante il loro continuo vittimismo, i signori dell’opposizione se la passano benissimo. Ogni busta contiene un foglietto di pari pregio, stampigliato in caratteri dorati a rilievo. Si tratta degli inviti alle nozze dell’illustre signor Caullinski”.

Un mormorio simile a un brivido percorse la sala. Poeta, drammaturgo, cattedratico degradato a impiegato postale, Premio Nobel per la Letteratura pochi anni prima, Caullinski era il più celebre dissidente del paese. Trattarlo come merita, ossia rinchiuderlo in una cella o conficcargli una pallottola nel cranio, avrebbe creato imbarazzi sgraditi al Ministero degli Esteri e al Ministero del Commercio Estero, per cui ci si era limitati a privarlo della cattedra, allontanarlo dalla capitale, impedirgli di recarsi alla cerimonia della consegna del premio a Stoccolma e sottoporlo alla più assillante e vessatoria sorveglianza di polizia.

“La fortunata,” proseguì Vonel, impassibile ma ben conscio dell’effetto delle sue parole, “è tale signora Escalli, prima ballerina dell’Opera di Stato. Forse qualcuno di voi la conosce, in ogni caso la conoscerete tutti presto. Una ragazza che avrebbe potuto sposare un membro del Comitato Centrale: che spreco. Ora, non spetta a noi decidere se queste nozze debbano avere luogo o no e con quali conseguenze. Nostro compito è fornire a coloro cui spetta la decisione tutti gli elementi necessari. Sono stato chiaro?”

Dall’uditorio si levò un corale “Signorsì!”

“Bene,” annuì Vonel. “Ora passo la parola al capitano Saratov per i dettagli operativi”.

Le nozze Caullinski determinarono, in pratica, una riorganizzazione dell’intero III Dipartimento. Gli Uffici vennero divisi trasversalmente in gruppi di lavoro, a ciascuno dei quali venne affidata una lista di invitati. Poi, quando pervenne al Ministero il tableau con la disposizione dei tavoli, prontamente affisso in sala conferenze, i gruppi di lavoro vennero rimescolati. Ciascuno consegnò, a tempo di record, il proprio rapporto alla squadra di Vonel che collazionò il tutto e, su tale base, raccomandò di interdire le celebrazione delle nozze. Il Comitato Centrale reagì al ponderoso incartamento con un silenzio di tomba e, quando ormai Vonel temeva seriamente di finire alle miniere di mercurio, il Ministro in persona lo ringraziò del suo lavoro indefesso e gli notificò che, purtroppo, motivi giuridici e politici ostavano all’interdizione del matrimonio. Si contava su Vonel, ovviamente, per una rigorosa sorveglianza dell’evento. Il colonnello non se lo fece ripetere e infiltrò le nozze in modo così massiccio che la maggior parte dei camerieri e cuochi erano suoi agenti e tutti gli altri, magistrato celebrante compreso, “collaboratori esterni”. Una fittissima cortina di ferro impedì che qualunque straniero assistesse alla cerimonia o ai festeggiamenti o che qualunque materiale sui medesimi filtrasse oltreconfine. Il quotidiano ufficiale del Partito pubblicò in terza pagina un trafiletto in cui annunciava, felicitandosene, le nozze dell'”illustre concittadino”.

Ora, Vonel doveva solo sigillare senza errori il fascicolo con un rapporto finale impeccabile per uscire indenne dall’impresa e forse guadagnarsi pure i galloni di generale e l’Ordine dell’Aquila Nera di II Classe. Lesse e rilesse scrupolosamente la bozza finale, dedicandovi i giorni e le notti. Dopo tre giorni senza riposo, convocò d’urgenza nel suo ufficio il sottotenente Volta, giovane ufficiale fresco d’accademia preposto al tavolo dei parenti della sposa.

“Sottotenente,” esordì Vonel, “il suo rapporto è piuttosto sintetico. Vi si sostiene che le persone sottoposte alla sua sorveglianza hanno parlato prevalentemente della mietitura e della siccità nel Distretto di Nirsk; sono seguiti alcuni aneddoti di caccia”.

“Signorsì!” Confermò Volta, sudando freddo.

“Tuttavia, ho svolto un controllo sulle trascrizioni e risulta che il signor…” Vonel rilesse il nome. “Wens, esattamente alle ore 16.31 e quindi durante…”

“Il sorbetto”.

“Il sorbetto, esatto, dichiarava, aperte virgolette, peccato che qui non ci sia lui, chiuse virgolette”.

“Uhm… è possibile, signore”.

“Non è possibile, è certo; è verbalizzato”.

“Certo, signore”.

“E non ha ritenuto opportuno approfondire questa frase?”

“Non credo parlasse del Comandante, signore,” disse Volta, riferendosi al dittatore fascista che aveva retto le sorti del Paese fino al 1949.

“Forse no,” concesse Vonel, “il punto è proprio questo: non lo sappiamo”.

Fu così che l’ultraottantenne signor Wens, bracciante agricolo in pensione, fu interrogato brutalmente dal Comando di Nirsk. Se gli avessero posto le domande con più calma, probabilmente avrebbe ricordato subito di aver pronunciato quella frase riferendosi al defunto padre della sposa, prematuramente stritolato da una mietitrebbia quasi trent’anni prima.

Il rudere

Mia cara Berenice,

ieri, fuori Orte, abbiamo visto un rudere. Un edificio completamente crollato, tanto che ne era rimasta solo la facciata e scoperti, come costole, i tre antichi piani. Immoto fra l’erba alta, carezzato dalla luce del tramonto, sembrava avere qualche tragica storia di paese da raccontare. Ci siamo avvicinati con precauzione ed era circondato di orme di cinghiale, riconoscibilissime. Sembrava beffarsi delle moderne, borghesi villette che gli erano state innalzate intorno, ridacchiare: “Io vi conoscono, sepolcri imbiancati di paese!”

Quei mattoni nudi, silenziosi e irridenti mi sono rimasti piantati nel cranio; da qui il racconto allegato.

Stan

IL RUDERE

Michele non aveva né la vivacità, né l’abbigliamento dei suoi ventisette anni. Scuro in volto e nel completo giacca e cravatta, stirato così accuratamente dalla madre da rendere ogni piega una lama, osservava disgustato le sue scarpe di vernice nera inzaccherarsi nella fanghiglia della campagna. Detestava quelle ville faraoniche spuntate come funghi in mezzo al nulla, eppure doveva decantarle: perché, quando sei un laureato disoccupato, prima o poi finisci a fare un lavoro a provvigione.

Odiava il proprietario di casa, un informatore medico benissimo avviato. Una multinazionale svizzera l’aveva assunto per la nuova, prestigiosa sede che intendeva aprire nel cuore di Roma, al centro di un triangolo mistico con ai vertici Palazzo Chigi, il Ministero della Salute e l’Agenzia del Farmaco. Gli svizzeri l’avevano ricoperto di soldi e, quindi, il ragazzo d’oro del paesello spiccava il volo e si trasferiva in un attico in zona Campo de’ Fiori. Campo de’ Fiori? Ma davvero? Eh sì, davvero. Si sarebbe portato dietro la bella del paese, un’insopportabile cretina che dai banchi della chiesa arcipretale era approdata a una cattedra di religione cattolica: per ora sotto casa, in prospettiva ed espletate le relative pratiche in Vicariato, in qualche prestigioso liceo del centro. Il tutto nonostante gli abiti provocanti che continuava a ostentare anche dopo il secondo figlio… o forse proprio grazie a quelli, malignava Michele.

La possibile acquirente era, se possibile, ancora peggio. Se l’informatore medico anelava il prestigio pariolino, lei lo sfuggiva. Nonostante gli abiti da figlia dei fiori in cui era infagottata, discendeva da una famiglia della nobiltà nera. Arrotondava la sua generosa rendita mensile dipingendo nuda su OnlyFans e ora poteva permettersi un atelier di lusso a Orte: “sulle orme di Pasolini”, ripeteva. Le aveva fatto visitare vari palazzi del centro storico, ma la tradizionale processione delle Confraternite l’aveva disgustata per qualche motivo. Così, eccoli in mezzo al nulla.

Michele suonò il sofisticato citofono e percepì l’occhio elettronico appuntarglisi addosso, seguito dal ronzio del cancelletto che si apriva. Sulla porta li attendeva una bambina. Michele si chinò e le sorrise: “Ciao! Ci sono papà e mamma?”

“Di sopra!” Echeggiò dall’interno una stentorea voce maschile.

Un’avveniristica scala di legno e vetro si infilava come un coltello nell’atrio, conducendo alla vasta terrazza che era, innegabilmente, il punto saliente della casa. Michele salì i gradini, lasciando che il design morbido e moderno ammorbidisse la cliente, prima di darle il colpo di grazia con il panaroma della campagna, con il sole a calare sul borgo di Orte all’orizzonte. L’informatore medico aveva chiaramente avuto la sua stessa idea e si godeva con un sogghigno soddisfatto la cliente, nonostante l’invariabile espressione sfingea e imbronciata della ragazza.

“Perfetto per dipingere, no?” Esplose, con un tono da cui si intuiva in modo trasparente quanta considerazione avesse della pittura e delle arti in genere.

La pittrice non rispose, limitandosi a rimirare il panorama. Si accigliò trovandolo parzialmente ostruito da un edificio in rovina, franato e sventrato. Michele lo conosceva, era ben noto a chiunque fosse del paese. A Orte, un bambino non era uomo se non andava a giocare tra le ossa di quello scheletro pericolante, nonostante le rampogne dei genitori e del vigile Arduino. Alla fine, l’ignoto proprietario si era spaventato per le possibili grane legali e aveva fatto mettere in sicurezza la struttura con puntelli e qualche iniezione di cemento.

L’informatore medico non si scoraggiò minimamente.

“La storia di quell’edificio le piacerà,” proclamò. “Ci viveva un fattore… sa cos’è un fattore?”

“Un crumiro dei tempi del feudalesimo,” rispose la pittrice, con voce spenta e robotica.

“Be’… più o meno… si innamorò della figlia di certi mezzadri e se la prese in casa come concubina… ma il padrone delle terre era un bigotto, come tutti i nobili del tempo, e gli intimò di cacciarla, ma l’uomo non volle saperlo e se la tenne in casa, insieme alla moglie, ai figli legittimi e ai figli bastardi che le diede lei, capisce? Una domenica, l’arciprete all’omelia tuonò contro quello scandalo. La moglie e i figli, che erano a Messa, tornarono a casa furiosi di essere stati umiliati in quel modo, davanti a tutto il paese… tornarono a casa e ci fu una tremenda lite… nessuno sa cosa sia successo di preciso, ma la casa bruciò fino alle ossa, con tutti dentro. Da allora, è considerata maledetta… non è mai stata ristrutturata, come vede… da giovani, ci portavamo le ragazze di sera, contando sull’effetto arrapamento della paura…”

Gli occhi di Michele saettavano in tutte le direzioni, nel tentativo disperato di fargli cenno di tacere e non far sfumare una vendita che, per quanto aberrante, si portava dietro una sostanziosa provvigione. La pittrice avanzò di un passo, sporgendosi oltre il parapetto in direzione del rudere.

“Cosa sono quelli?” Chiese.

Michele si precipitò al parapetto per tagliare fuori il padrone di casa, ma si afflosciò sulla ringhiera, disperato. La ragazza aveva puntato un’intera famiglia di cinghiali, con i cuccioletti pelosi in fila dietro la madre. Convinto anch’egli che la cittadina schifasse quegli animali, associati nella cronaca alla monnezza romana, perfino l’informatore medico perse il suo smalto e si sistemò i pantaloni infilandovi le dita pingui.

“Deve capire, signorina… qui siamo in campagna…”

“Sono bellissimi,” decretò lei, secca.

Tre giorni dopo, inviò tramite Michele la sua offerta irrevocabile d’acquisto, a stretto giro seguì il preliminare con immissione immediata nel possesso. Infine, si ritrovarono davanti a un notaio di Orte per la stipula del definitivo. Fu una cerimonia tesa. L’informatore medico e sua moglie erano ancora offesi per come lei li aveva sbattuti fuori di casa senza una parola, dopo la consegna delle chiavi. L’uomo poté dare sfogo a tutta la sua rabbia, dato che l’acquirente – non occorre nemmeno dirlo – scomparve immediatamente dopo la firma.

“Dottore!” Abbaiò, rivolgerndosi al notaio. “Mi faccia il favore di registrare l’atto appena possibile e farmelo sapere!” Batté le nocche sul tavolo della sala riunioni. “Appena è registrato, io quella la denuncio”.

“Per cosa?” Si stupì il notaio.

“Ho parlato io con il proprietario del vecchio rudere, e comunque gli atti osceni in luogo pubblico sono perseguibili d’ufficio. Mi sono informato. Il capo della sicurezza di una delle aziende mie clienti era colonnello nei carabinieri”.

“Atti osceni in luogo pubblico?”

“Ma non li legge i giornali, dottore? Quella si filma nel rudere, anche in pieno giorno, mentre imbratta le pareti di vernice, si dipinge tutta nuda, dipinge il pelo ai cinghiali e ci co-pu-la! E dei pervertiti la pagano fior di soldi per mettere questa roba su Internet!”

Il notaio sgranò tanto d’occhi. Se l’avesse saputo, avrebbe trovato una scusa per non fare il rogito, perbacco! Ora tutto il paese se la sarebbe presa con lui!

Le sirene

Mia cara Berenice,

con un paio di cari amici, mi sono abbandonato a un fine settimana di dissipazione pasoliniana tra Roma e Sabaudia. Nei desolati paraggi di quest’ultima, sorgeva un bar con l’insegna “Le sirene”, così incongrua rispetto all’atmosfera spoetizzata di provincia da restarmi conficcata in capo e ispirare il racconto allegato.

Stan

LE SIRENE

In gergo si chiamano “controlli di secondo livello”. L’algoritmo della Ragioneria Generale dello Stato estrae dall’urna un nome: il nome di qualcuno che, nell’ultimo decennio, ha ricevuto fondi dall’Unione Europea. Solitamente, si tratta di una persona giuridica, spesso un ente pubblico. Un Comune, in questo caso. Un piccolo Comune, ai confini del mondo, come una goccia d’acqua nel mare, perso in una pianura piatta e infinita. Pareva impossibile che, a un tiro di sasso da lì, oltre quelle dune color caffelatte, muggisse il mare; non solo non lo si vedeva, ma non si percepiva il salso o l’eco remoto di uno sciabordio. Per questo ti lasciavano tanto perplesso le grandi ancore montate ovunque a mo’ di decorazione o monumento, il Liceo Nautico, il Museo del Mare, il Dopolavoro della Gente di Mare, la caserma della Guardia Costiera, l’Ufficio Licenze di Navigazione.

La collega della Ragioneria Territoriale che avrebbe dovuto affiancarlo aveva marcato visita. Con la gente di quel paese, gli aveva detto al telefono, sibillina, era meglio non avere a che fare.

“Pescatori… gente ostinata…”

“Pescatori?”

“Pescatori, certo! Non lo sapeva?” E perché avrebbe dovuto saperlo?

Sotto un cielo color cartone, il paese pareva deserto, forse davvero tutti gli abitanti in età da lavoro erano per mare. In Municipio lo aspettavano il Sindaco e il Comandante della Polizia Municipale, due ragazzi pallidi dall’aria malvissuta, e l’Assessora al Bilancio, un donnone simile a una macchia d’inchiostro, con movenze da piovra. Senza nemmeno sforzarsi di simulare un minimo di cordialità, l’Assessora accennò sprezzantemente, con il triplo mento, a un fascicolo sul tavolo della Sala Consiliare. Lui lo prese in mano: era sottilissimo. La sua attenzione venne calamitata dallo stemma del Comune sulla copertina: una barca, un’ancora e…

“Cos’è questa?” Chiese. “Una freccia?”

Il Comandante diede un’occhiata consiscendente, sporgendosi al di sopra della sua spalla.

“Un arpione”.

“Un arpione?”

“Un arpione,” rimarcò rabbiosamente il Sindaco.

“Uno strumento di pesca,” sospirò l’Assessora, con il tono di chi si rivolge a uno studente poco sveglio.

“So cos’è un arpione,” si intestardì lui, “ma non si usa per pescare pesci di grandi dimensioni?”

“E allora?”

Non seppe che rispondere: che ne sapeva lui, in effetti, dei tagli di pesce? Aprì il fascicolo e un paio di documenti svolazzarono sul tavolo. Li rimise insieme, mentre i tre ospiti si guardavano ostentatamente dal dargli una mano. C’erano solo un contratto e una fattura quietanzata.

“Scusate,” chiese, “e la documentazione di gara?”

“Per un importo del genere?” Si seccò l’Assessora.

“Be’, almeno la determina a contrarre… e poi, scusi, sul contratto e sulla fattura non sono nemmeno riportati il CUP e il codice progetto…!”

Il Sindaco fece spallucce: “Ce li mettiamo ora”.

“Il CUP lo dobbiamo prendere ora, però,” lo avvertì l’Assessora.

“Non avete preso il CUP?!”

“Non abbiamo tempo da perdere, qui”.

Richiuse il fascicolo: “Sentite, temo che non siamo sulla strada giusta. Vi farò avere il mio referto, ma, sinceramente, dubito che qui si riesca a sanare tutto”.

“Che significa?” Scattò il Comandante, aggressivo.

“Che vi verrà tagliato parte del finanziamento”.

“Ma se l’abbiamo già speso!” Rise il Comandante.

Non ci poteva credere: gli aveva riso in faccia.

“Be’,” gli comunicò, con un certo compiacimento, “allora dovrete restituirlo”.

Il Comandante posò la mano sinistra sul fianco e la mano destra sulla fondina della pistola, respirando pesantemente. L’Assessora strabuzzava spasmodicamente gli occhi a palla. Un vistoso tic percorreva, come una scossa elettrica, il volto ossuto del Sindaco. Volevano picchiarlo, per caso? Ma dove diavolo era capitato? Lo avrebbero sentito, al Ministero. Sarebbe andato dal sindacato e dal Direttore Generale in persona.

Improvvisamente, la cartilagine rigida del Sindaco si afflosciò: “Bene, ha detto quello che doveva dire. Deve fare un verbale o qualcosa del genere?”

“No. Come dicevo, sarà tutto nel referto che vi arriverà via PEC”.

Il Comandante indicò col braccio teso il corridoio da cui erano venuti.

“Bene. Allora credo se ne possa anche andare”.

Deglutì un arrivederci. Il pensiero di dare le spalle a quei tre era terrorizzante, ma restare un minuto di più in quella stanza era un’alternativa perfino peggiore. Attraversò a passo di corsa le poche stanze malconce del Municipio. Nell’aprire da solo l’anchilosata serratura metallica della porticina che dava sulla piazza, le sue mani tremavano incontrollabilmente. Dopo essersi richiuso l’uscio alle spalle, riuscì a respirare.

Maledetti bifolchi. Avrebbe tagliato l’intero finanziamento e controllato scrupolosamente ogni altra erogazione che avessero percepito. Poi avrebbe raccomandato un’ulteriore ispezione più approndita, magari da parte della Guardia di Finanza. Davanti alle mitragliette dei militari, sarebbero stati meno arroganti. Bifolchi maledetti. Si sentiva svuotato, gli tremavano anche le gambe. Si trascinò come una marionetta attraverso la piazza, ringraziando Iddio di essersi fatto autorizzare all’uso del mezzo proprio, cosa che gli consentiva di andarsene da quel paese di merda su due piedi.

La guida della sua vecchia auto anonima non mancava mai di rilassarlo e si ritrovò a razionalizzare. Era finito in un paesino di campagna e si era trovato davanti dei burini, tutto lì. Dopotutto, avrebbe avuto l’opportunità di vendicarsi immediatamente. Quanti potevano dire lo stesso, dopo aver incrociato sulla loro strada il bullo di turno? In novecentonovantanove casi su mille, eri costretto a ingoiare e abbozzare. No, in fondo lui era fortunato. Appena superati i confini comunali, accostò a una piazzola, scambiò qualche messaggio con la sua compagna e fu ulteriormente rinfrancato. Aveva una gran fame, anzi. Magari, se andava più sottocosta, si imbatteva in un ristorante decente che fosse aperto anche d’inverno. Guidò a tentoni verso le dune e iniziò a intravedere qualche bagliore di mare. A una svolta, un cartello che preannunciava l’ingresso nel Comune da cui era appena uscito lo colpì come un pugno alla mascella. Come era possibile? Si era perso, forse, in quel Mare Tranquillitatis? Eppure non era così strano, riflettè. Aveva guidato ormai per qualche chilometro, e i confini dei Comuni erano quanto di più assurdo e feudale si potesse immaginare. Un secondo cartello gli promise, più benevolmente, una grigliata mista di pescato del giorno a prezzi davvero modici. Si precipitò nella laterale, ma si ritrovò in un parcheggio vuoto.

Che cos’era, un trucco per attirarlo in un parcheggio vuoto e menarlo? Era sul punto di impostare un’ampia e dolce manovra di inversione di U per mantenere distesi i nervi, quando notò una sorta di gazebo nell’angolo più lontano. Si avvicinò a passo d’uomo. Era possibile che fosse quello il ristorante? Be’, si corresse, dopotutto il cartello non parlava di ristorante. Probabilmente si trattava di un gazebo che serviva i bagnanti della spiaggia dall’altra parte della strada, nel periodo estivo. Quasi certamente, chiuso in quella stagione… oppure no? I tavolini esterni erano deserti e così i due o tre all’interno, ma si vedeva inequivocabilmente una ragazza trafficare dietro il bancone. Sulle ampie vetrate trasparenti erano state tirate delle reti da pesca a mo’ di decorazione. I colori pastello dell’arredamento rendevano l’insieme raccolto e gradevole… e la ragazza, attraverso la rete, non pareva affatto male. Un’altra si intravedeva affacendata nella minuscola cucina. Un’insegna di legno dipinta di vernice azzurra annunciava che il nome del locale era “Le sirene”.

Si sforzò di contenere il suo entusiasmo. Quasi certamente, il locale non era veramente aperto. Probabilmente, stavano davanto una pulita o facendo l’inventario o chissà che altro… ma valeva la pena tentare. Parcheggiò l’auto, scese e bussò al vetro. La ragazza al bancone gli rivolse un sorriso luminoso e gli fece segno di entrare. Aveva i capelli di uno strano biondo carico e opaco… color ottone. Lui si accostò timidamente.

“È aperto?”

“Certo!”

“Immaginavo fosse un posto aperto solo d’estate. Sono fortunato”.

Dalla cucina, un’altra ragazza bionda reclinò la testa all’indietro per sorridergli. Somigliava molto a quella in sala; sorelle, probabilmente.

“C’è più movimento d’estate,” ammise la ragazza al bancone, “ma, in fondo, costa poco tenere aperto tutto l’anno. Il pesce lo prende papà,” gli strizzò l’occhio. “Di bollette spendiamo poco. È piccolo, come vede”.

Lui si tolse la giacca: “Posso sedermi, allora?”

“Prego!”

“Non abbiamo un menù, d’inverno,” intervenne la cuoca, mentre si accomodava. “Possiamo fare noi? C’è qualcosa che non mangia?”

“Se possiamo evitare il pesce crudo…”

“Certo… anche se è un peccato…” Anche lei gli strizzò l’occhio.

Stava piacevolmente conversando con la sorella in sala, quando l’altra emerse dalla cucina con un monumentale vassoio di crudo. Aprì la bocca, interdetto, ma lei lo prevenne, mentre la sorella ridacchiava.

“Guardi che lo faccio per lei. È tutta una questione psicologica, mi creda”.

“Mia sorella ha ragione,” confermò la cameriera, “si deve solo rilassare”.

Gli scivolò alle spalle e iniziò a massaggiargli dolcemente le spalle, intonando una strana melodia mugolante a cui si unì la sorella, prima in piedi, poi languidamente appoggiata alla vetrata, infilando le dita nelle maglie della rete, infine appoggiandosi al bordo del tavolo e infilandogli tra le labbra, lentamente e ritmicamente, un boccone dopo l’altro.

Tornò a casa, a Roma, due giorni dopo, domenica sera. La sua compagna, che attendeva sue notizie da quarantotto ore e solo a fatica era stata persuasa dai carabinieri a non far scattare ancora le ricerche, gli fece una terribile scenata. Lunedì, egli si presentò imperturbabile in Ministero alle sette e trenta spaccate, sedette alla sua scrivania e stese immediatamente il referto di controllo, attestando l’impeccabile gestione del finanziamento da parte del Comune. La sua convivenza non si riprese mai da quel misterioso incidente. La sua aria perennemente trasognata esasperava la compagna, rosa ormai dal tarlo del dubbio. Si lasciarono otto mesi dopo. Quando amici e parenti gli chiedevano spiegazioni sulla rottura, lui mostrava pochissimo interesse per l’argomento, deviando quasi sempre la conservazione su un argomento che sembrava invece ossessionarlo: come avesse superato la sua ripugnanza per il crudo di pesce.

“Non bisogna mai essere troppo sicuri di niente,” amava ripetere.

Il collega ritrovato

Mia cara Berenice,

come risulterà fin troppo ovvio, è stato il lavoro a ispirarmi il racconto che ti allego.

Un saluto.

Stan

IL COLLEGA RITROVATO

I tedeschi si erano ritirati, i fascisti erano spariti nel nulla, i carabinieri erano dei loro, gli inglesi erano alle porte: era tempo, insomma di scendere in paese, anche in fretta.

“Che hai?” Fece l’Ivana a Carlo, vedendolo buttarsi in spalla il fucile con una cert’aria.

“Che ho?” Rispose Carlo, ficcandosi una nazionale mezza consumata in bocca. “Niente ho”.

“Mi sembri nervoso”.

“Eh…”

“Ti hanno scritto da casa?”

“No, no”.

“Allora? La Chiavica l’abbiamo beccata…” L’Ivana si riferiva al Chiavellati, brigadiere della Guardia Nazionale Repubblicana. Era sotto stretta sorveglianza da tempo e non aveva avuto scampo. All’alba, lo erano andati a prendere nella caserma abbandonata dall’ultimo milite. Il Chiavellati era stato dilaniato da una delle sue stesse bombe a mano, forse volutamente.

“Eh,” sbuffò Carlo, “tu lo sai che io lavoravo in Comune, prima”.

“Me lo ricordo. Ora posso anche dirtelo, abbiamo fatto un controllo su di te, perché eri sospetto”.

“Avete fatto bene, ma adesso ho paura che qualche testa calda vada lì e se la prenda con qualcuno che non c’entra niente”.

“Lì dove?”

“In Comune”.

“Non credo… l’unico veramente fascista era il Podestà e quello se n’è scappato in Svizzera con ampio anticipo. Il commissario prefettizio non è mai arrivato. Ora ne metteremo uno noi”. L’Ivana si interruppe, intercettando lo sguardo fisso e spento di Carlo. “Ma tu non me la conti giusta. Tu stai pensando a qualcuno in particolare… qualche stenografa, in particolare? Qualche ausiliaria?”

“Ausiliaria, ma che dici… che stenografa… no, il mio compagno di stanza”.

“Oh… chi era?”

“Un funzionario vecchia maniera, di quelli che ogni mattina si presentano in ufficio in colletto duro e cravatta, nonostante le quattro lire di stipendio che ci davano. Gli mancava poco alla pensione, aveva passato i sessanta, non poteva certo venire in montagna!”

“Certo”.

“Mi ha insegnato tutto”.

“Vedrai che non gli faranno niente. Perché dovrebbero fargli qualcosa?”

Carlo, però, masticava amaro mentre marciava giù dal costone, aveva un passo così lesto e affannoso che sembrava volesse conquistare Berlino da solo e l’Ivana stentava a tenergli dietro, sotto il peso dello Stern e dello zaino pieno di volantini ciclostilati. Ben presto furono al limitare del paese e, trattandosi davvero di un paesello, in pochi minuti raggiunsero l’unica piazza. Le campane della Chiesa Arcipretale suonavano a festa, mentre dal balcone del Municipio le avanguardie sventolavano il tricolore. Intorno al fontanone si faceva festa come per una sagra patronale, con bicchieri di vino e fisarmoniche.

Ignorando completamente i compagni che tentavano di coinvolgerlo nella baraonda, Carlo prese di petto il portone spalancato del Municipio, ma, arrivato davanti allo scalone polveroso, si fermò come sopraffatto dai ricordi. Non era cambiato nulla. Lo stesso strato di polvere e accozzaglia indefinibile sui mobili vetusti, le stesse teche malandate con i reperti della Grande Guerra e, tra le teche e la scrivania dell’usciere, l’angusto corridoio che portava…

Ruggero se ne stava lì, con i gomiti inguainati dai coprimaniche sulla scrivania, nel suo giacchettone sformato sulle spalle. Dopotutto, quello era orario di servizio. Tutto il chiasso proveniente dalla piazza e dal piano di sopra, del resto attutito dagli spessi muraglioni del palazzo, non lo riguardava.

Carlo rise di cuore: “Cavaliere!”

Ruggero alzò il testone da tricheco.

“Era ora che ti facessi rivedere,” brontolò, accennando alle pile di pratiche che imgombravano la scrivania, “credi che il lavoro diminuisca perché c’è la guerra? Il lavoro aumenta!”

“Cavaliere! Non sa quanto ero in pensiero per lei!” Ruggero non era mai passato, nemmeno negli anni di massimo splendore del regime, al voi fascista.

“In pensiero? Per me? Sei tu che te ne andavi in giro a sparare!”

“Temevo avesse problemi con i fascisti o con i tedeschi”.

“Sono venuti i tedeschi, delle SS. Volevano l’elenco dei cittadini ebrei”.

Carlo inarcò le sopracciglia sotto il berrettone, perplesso: “Perché? Ci sono ebrei in paese?”

“Non che io sappia. Comunque ho detto loro di rivolgersi alla Prefettura, perché la schedatura l’avevano fatto loro e qui non erano ancora state eseguite le prescritte annotazioni”.

“E non se la sono presa?”

“Certo, come fanno tutti, ma c’era poco da fare. Ho detto loro di rivolgersi alla Prefettura”.

Carlo rise di cuore, per la seconda volta.

Una grande squadra

Mia cara Berenice,

in questi giorni, una giovane ragazza, influencer e modella dilettante, è finita sui giornali per essersi laureata in Medicina in tempo record e con il massimo dei voti.

L’exploit mediatico, forse non casuale, ha avuto esiti misti. Da una parte, un’indubbia notorietà nazionale. Dall’altra, lo scoperchiarsi di un vaso di Pandora. Non parlo di semplici hater. È risultato che la ragazza verrebbe da una famiglia più che benestante – non è un crimine, ma ci sarebbero stati investimenti massicci sulla sua carriera e la sua immagine. Alla Facoltà di Medicina, ci sarebbero state perfino proteste formali degli studenti, dubbiosi sulla regolarità della fast track aperta per la collega da Segreterie Amministrative e Didattiche solitamente rigidissime.

L’atmosfera della vicenda era così cinematografica, da rivolta contro l’ape regina del liceo, che mi è ronzata in testa per tutta la giornata, fino a rapprendersi nelle cera e miele del racconto allegato alla presente.

Posto che, nel frattempo, la polemica è completamente sfuggita di mano e si è ingagantita, la frase di rito è di prammatica: ogni riferimento a fatti o persone realmente esistenti è puramente casuale.

Un saluto.

Stan

UNA GRANDE SQUADRA

Dietro a un grande successo, c’è sempre una grande squadra.

Non diventi la più giovane laureata in legge della Nazione e campionessa universitaria di cheerleading, il tutto mentre fai la modella in Europa, senza una granda squadra. Ci sono i tuoi genitori, i tuoi docenti, la tua allenatrice, le tue compagne di studio e di squadra. Li aveva ringraziati tutti, al discorso della cerimonia di laurea.

Poi ci sono quelli che non puoi ringraziare. Come Janson, alias ArsGratiaArtis. Janson aveva rubato delle sue foto intime e le aveva chiesto dei soldi per non pubblicarle. Normalmente non sarebbe stato così stupido da incontrarla di persona, ma lei aveva saputo essere molto persuasiva… e così il magro, smunto, pallido cacciatore era diventato preda, come le leggi di natura esigevano. Era così insignificante fisicamente che lei, un’atleta semi-professionista, aveva potuto letteralmente sbatterlo al muro: “Ora fai quello che ti dico o vai in galera. Anche se ne sarei lusingata, non ci si improvvisa hacker solo per rubare le mie foto, giusto? Chissà quanti altri sporchi segreti hai in quei PC del cazzo. Sono sicuro che la Sicurezza Nazionale ci darebbe un’occhiata volentieri. Chissà se ti processano e finisci in un carcere federale a farti inculare, Janson. Secondo me sparirai nel nulla. Ti incateneranno in un sotterraneo della CIA a craccare siti iraniani. Facciamo una prova?”

Dietro a un grande successo, c’è sempre una grande squadra. Un hacket al tuo incondizionato servizio è utile, per ungere le ruote. Puoi avere in anticipo i test che saranno somministrati a fine semestre. Puoi scoprire gli sporchi segreti di quell’asiatica che ti insidia il trono o di quel professore che, per qualche motivo, sembra essere l’unico a cui non piaci.

Dietro a un grande successo, c’è sempre una grande squadra. I giovani e zelanti addetti stampa del padre senatore avevano dato piena luce a ogni tappa della sua luminosa carriera. Peccato che si fossero rivelati dei coglioni. Quando il Paese è in crisi economica e in recessione, quando la rabbia sociale muggisce come un’onda, non è il caso di presentare una giovane di buona famiglia come Wonder Woman. Basta un attimo, perché su Internet si scateni uno tsunami d’odio.

Dietro a un grande successo, c’è sempre una grande squadra. I giovani e zelanti addetti stampa del padre erano stati licenziati e sostituiti da qualcuno di più competente, ma giustizia non era ancora fatta. Aveva ordinato a Janson di farla pagare agli hater… no, no, gli aveva dato un’opportunità, l’opportunità di creare il più grande virus della storia. Questo faceva lei, ispirare la gente. Lei aveva una visione. Un ragno delle mille zampe che individuasse sulla rete ogni commento d’odio a lei associato, lo ricollegasse all’autore e fondesse il computer di quest’ultimo. Janson aveva detto inizialmente che era impossibile, ma lei aveva saputo essere molto persuasiva. In effetti, alla fine non funzionò proprio a dovere, tanto che Janson finì col farsi arrestare. La Procura Federale gli offrì uno sconto di pena, se avesse testimoniato contro di lei, ma lei e gli avvocati di suo padre seppero essere molto persuasivi.

Poi ci sono quelli che non puoi ringraziare. Stanley, alias Cuz, le procurava le sostanze non esattamente legali necessarie perché le sue feste in piscina riuscissero a dovere. Era ovvio dovesse conoscere qualcuno anche nel penitenziario federale di Victorville. Aveva chiesto a Stanley di… no, no, di fare un favore a Janson. Janson non avrebbe mai retto in carcere, dopotutto. Questo faceva lei, aiutare la gente.

Fuoco e petrolio

Mia cara Berenice,

saranno i roghi accesi della Russia al confine con la Finlandia, sarà il gran clamore per l’uscita del prequel de “Il Trono di Spade”, ma quando ieri sera, a uno spettacolo sulla Tiberina in onore del Maestro Morricone, ho visto la ballerina brandire due torce infuocate sotto il naso di pianista e violinista, mi si è conficcato in capo un tarlo dalla cui crisalide è uscito il racconto che ti allego.

Stan

P.S.: Sì, lo so che la crisalide, a rigore, apparterrebbe al bruco e non al tarlo.

FUOCO E PETROLIO

Dopo la presentazione improvvisata del diplomatico, che sudava copiosamente e continuava a lucidarsi la pelata, le tre interpreti si allinearono sul palco.

In abito lungo, trucco e acconciatura impeccabile la pianista e la violinista. L’impresario dovette ammettere che erano state brave ad apparecchiarsi in quel modo, senza maestranze ad aiutarle.

Terza e ultima, arrivò la ballerina, in abbigliamento sportivo e treccine. Almeno si è depilata le ascelle, si consolò l’impresario.

“Be’, fanno… un bel contrasto,” azzardò il Direttore Generale.

“È voluto,” rispose con faccia tosta l’impresario.

Contrasto, rimuginò. Chi pretendevano che potesse mettere insieme, a Ferragosto, con meno di ventiquattro ore di preavviso? La guerra in Ucraina… l’accordo con il Paese nordafricano da chiudere in fretta e furia… l’Ambasciatore e il Ministro da intrattenere per una serata di gala, nel cortile d’onore di una caserma dismessa del Demanio.

Le due fighe di legno, rampolle della nobiltà nera romana, le aveva raccattate in una casa dell’Opus Dei in centro storico. Erano loro il violino e il pianoforte, entrambi pezzi di pregio; lui aveva dovuto solo procurare un camion di fruttaroli bengalesi per il trasporto. La punk aveva risposto al telefono dalle viscere di un’ex filanda a Montespaccato.

Nei camerini ricavati dal corpo di guardia, le aveva trovate litigare ferocemente. Non ne sapeva il motivo, ma non era difficile ipotizzarne tre o quattro di perfettamente plausibili.

Le due numerarie attaccarono, mentre la ballerina attizzava altrettante torce. Una volta accese di una bella fiamma gagliarda, gettò la prima tra le corde del pianoforte e infilò la seconda nella cassa del violino. Mentre le due musiciste cercavano disperatamente di salvare i loro strumenti, si allontanò a lunghe falcate regali ed elastiche, saltando giù dal palco e scomparendo nei camerini.

Non si fa l’impresario per quarant’anni senza diventare rotto a simili inconvenienti e il nostro si alzò in piedi, battendo freneticamente le mani. L’Ambasciatore e il Direttore Generale esitarono. Il Ministro, ipnotizzato dalle lingue di fuoco che si alzavano dal pianoforte, ripensava con orgasmo alla guerra civile e al golpe a cui doveva il posto. Scattò in piedi sbattendo i tacchi e si unì all’applauso.

Roma contro Atlantide

Mia cara Berenice,

mentre la mia ombrelliera con il relativo contenuto sembra ormai un’opera di arte moderna, avulsa da ogni funzione pratica, i ghiacciai si accartocciano come imballi usati da inserire a forza nel cestino della carta e i giornalisti ci aggiornano sulle condizioni del Po camminando direttamente sul letto, non poteva mancare qualche negazionista della siccità e del cambiamento climatico.

Alcuni esibiscono foto e testimonianze di bacini idrici ricolmi, altri notano che il Pianeta è ricoperto di Oceani e che perfino il corpo umano è composto in prevalenza d’acqua.

I più militanti hanno lanciato addirittura il movimento dei rubinetti aperti.

Ora, sarà la necessità di sdrammatizzare, sarà l’overdose mediatica di processo Depp v. Heard, ma non riesco a togliermi dalla testa il racconto breve di seguito.

Sii paziente.

Stan

ROMA CONTRO ATLANTIDE

Anche se lo Stato Maggiore pensava già alle medaglie commemorative e ai nastrini di campagna, nei loro conciliaboli più ristretti o quantomeno a loro stessi i militari ammettevano che era stata una passeggiata o poco più.

Passato l’effetto sorpresa, l’ondata di panico e di isteria, abbattere con le armi moderne dei tizi squamosi che brandivano dei tridenti e, per giunta, risalivano il Tevere in fitta formazione a falange, quasi a offrirsi al tiro al piccione, non era stata la più strenua delle battaglie.

Già anzi qualche civile sentimentale compiangeva gli atlantidei, spinti alla loro folle, ingenua e antiquata invasione dal surriscaldamento del mare. Alcuni Ministri cavalcavano l’onda (si condoni l’espressione) e premevano perché si negoziasse con la Regina Clito, indubbiamente bellissima, eppure visceralmente detestata dall’opinione pubblica. Lo Stato Maggiore, dal canto suo, tentava di stilare protocolli per l’utilizzo di armi non letali, se non altro per prendere qualche prigioniero.

A tal uopo, per il momento, si usavano sistemi meno raffinati. Dopo che l’artiglieria aveva fatto letteralmente a pezzi un’unità atlantidea, la fanteria calava prudentemente sul letto del fiume e rastrellava i cumuli di cadaveri e membra alla ricerca di qualche guerriero ancora vivo. Individuatone uno, si badava a disarmarlo e si facevano intervenire gli NBC con le loro tute da palombari, per il successivo passaggio di consegne al Corpo Sanitario.

Quello dei portantini NBC era un compito ingrato, tra l’indossare gli scafandri con quel caldo, maneggiare l’atlantideo molle e squamoso e sorbirne il puzzo tremendo accentuato dalle ferite.

“Cazzo di schifo…” Si lamentava appunto un caporale dietro la visiera di plastica, trascinando un nobile guerriero particolarmente possente e istoriato di preziosa armatura.

“Ora ci crederai, almeno alla crisi idrica,” lo schernì il più anziano collega maresciallo.

“Ma manco per il cazzo”.

“No?!”

“So’ arrivati i pesci in centro a Roma. Dove la vedi ‘sta crisi idrica?”

“C’hai ragione!” Assentì il maresciallo, dopo una breve riflessione. “Non fa ‘na grinza. Bravo!”

Il caporale borbottò un ringraziamento, ansimando.

La Principessa

Mia cara Berenice,

ieri, in occasione del primo maggio, ho visitato con alcuni amici una coppia di paesini al limitare del Lazio, con annesso eremo.

Sui muri del primo borgo abbiamo trovato inscritto, in più punti, il nome di una ragazza del posto apparentemente molto desiderata e ci siamo ritrovati a scherzare sul potere contrattuale della reginetta di bellezza di un così piccolo abitato.

Ciò mi ha ispirato il racconto che ti allego.

Stan

LA PRINCIPESSA

Quando il ragazzo seduto di fronte a lei, in treno, le offrì della gomma americana che prometteva di sbiancare i denti, Ambra lo incenerì con lo sguardo. Magari la mossa di cortesia era stata fatta senza particolare intenzione, ma Ambra era, in quel momento, in guerra con l’intero genere maschile: riservò un’occhiata torva perfino al capotreno, venuto a controllare biglietto e certificazione verde.

Giovanni, lo storico ragazzo di Ambra, come tanti giovani meridionali si era trasferito a Roma per lavorare. Si era sistemato in un paesino ben collegato del Lazio, per risparmiare ed evitarsi la promiscuità di un appartamento condiviso, aveva terminato con successo la prova e tutto sembrava andare per il meglio, finché Ambra non aveva cominciato a percepire, confusamente, qualcosa di strano nei suoi messaggi e videochiamate. Poi Giovanni aveva smesso di rispondere agli uni e alle altre. Infine, i primi avevano smesso di arrivare a destinazione e per le chiamate non si riusciva nemmeno a prendere la linea.

Le amiche erano pervenute alla conclusione più ovvia e le avevano consigliato di stendere su Giovanni un sudario di oblio e disprezzo. Perfino la sua futura suocera, un donnone massiccio e orgoglioso, era venuta a scusarsi con lei. Sì, Giovanni rispondeva alle sue telefonate, ma si rifiutava di dare qualunque spiegazione; l’ultima volta era arrivato al punto di attaccarle il telefono in faccia. L’aveva perfino diffidata dall’andare a trovarlo, adducendo di “avere da fare”.

“Non so che gli è preso, Ambra, mi devi credere! Ma per il venticinque aprile salirò che lo voglia o no, e allora mi sentirà!”

“Signora, non si scomodi, vado io”.

Calabria e Roma, come le aveva assicurato mille volte Giovanni prima di partire, non sono più così mal collegate. Fissa nella sua fantasia di Erinni, Ambra si accorse a malapena delle ore sui binari: in quello che le parve un battere di ciglia, si trovò catapultata nella bolgia di Termini. Viaggiava leggera e percorse rapidamente l’interminabile banchina, i gate e l’enorme atrio, irrompendo in Piazza dei Cinquecento. Pareva il posto meno adatto immaginabile per chiedere qualsivoglia informazione. Tutti andavano di fretta, tutti parlavano straniero. Il minimo movimento sembrava condurla in urto con qualcuno. Un paramedico in giubbotto catarifrangente la fece allontanare urlando da una tenda bianca con il simbolo della Croce Rossa: “Ci sono i positivi covid là dentro!”

“E perché non mettete un cartello?” Rimbeccò Ambra, inviperita.

Il ragazzo si limitò a fare spallucce.

Oltre la corsia dei taxi, un capannello di autisti dell’ATAC ciondolava intorno a una guardiola. Ambra li affrontò di petto e fece il nome del paesello in cui si era nascosto Giovanni. Dopo diverse grattate di capo, le indicarono dove prendere la corriera extraurbana della Cotral.

“Dove posso fare il biglietto?”

“Lì c’è la biglietteria turistica. Parlano tutte le lingue”.

“E io italiana sono!”

Il torpedone arrivò dopo trentacinque minuti, la lasciò salire dopo quarantacinque e si mosse dopo quasi un’ora; procedeva con lentezza esasperante, rallentato prima dal traffico di Roma, poi dalle curve e strettoie della campagna. Non importava, Ambra se ne restava confitta sul suo sedile come un chiodo, nessun malevolo incantesimo logistico l’avrebbe distolta dalla sua missione.

Diverse ore e tornanti dopo, la corriera fermò ai piedi di una cresta aguzza su cui si inerpicava il paesino, simile ai borghi toscani e umbri ormai prossimi. L’autista fece per accennare ad Ambra di scendere, ma dallo specchietto vide il sedile della ragazza ormai vuoto. Preso da un oscuro presentimento a cui non seppe dare forma, richiuse le porte e fece ripartire il mezzo.

In corrispondenza alla fermata sorgevano un gazebo comunale delle informazioni turistiche e l’ingresso di una cremagliera. Quando ancora si degnava di risponderle, Giovanni si era sistemato in un bed and breakfast, in attesa di trovare una camera ammobiliata con una padrona di casa disposta a provvedere a un minimo di vitto e di pulizie. In seguito, aveva raggiunto con il b&b un accordo forfettario molto conveniente e ci era rimasto.

L’addetta allo sportello informazioni soppesò Ambra con un lunghissimo sguardo ostile, prima di farle sapere che l’unico bed and breakfast del paese dava sulla piazza principale.

“Come ci arrivo?”

“A piedi, ma è molto lunga e ripida”.

“E quella?”

“È a pagamento”.

“Non importa”.

“Accetta solo monete da un euro”.

Ambra si frugò nel portafogli.

“Vanno bene due euro?”

“No”.

Senza aggiungere sillaba, Ambra si ributtò lo zaino in spalla e imboccò la stradina che si inerpicava a spirale verso la sommità, districandosi tra case addossate le une alle altre, ponticelli, passetti, cortiletti risicati, terrazzini e tortuosi vicoli angusti. La piazza, di forma triangolare, era scura e claustrofobica, e non fu facile individuare la porticina del bed and breakfast, incastrata tra la tabaccheria e il museo civico. Alla reception, una ragazza dai capelli verdi aveva la stessa espressione diffidente dell’operatrice di sotto.

Ebbene, nemmeno Ambra era in vena di convenevoli: “Sto cercando Giovanni”.

“Non so chi sia”.

“È il mio ragazzo”.

Nessuna risposta.

Ambra sfoderò una foto di Giovanni sul cellulare.

“Non l’ho mai visto”.

“Ci sono altri bed and breakfast, in paese?”

“Non saprei”.

“Senta, non mi pare che questa sia una metropoli”.

“Non alzi la voce”.

“Non sto alzando la voce”.

Alle spalle di Ambra si materializzarono due agenti della polizia locale.

“C’è qualche problema?” Chiese il più alto in grado dei due.

“La signorina pretende che le diamo informazioni riservate sui nostri ospiti,” spiegò, piccata, la receptionist.

“Ah, allora sta qui!” Esplose Ambra. Un agente le posò una mano guantata sulla spalla.

“Signorina, venga con noi”.

Ambra si divincolò come un’anguilla elettrica.

“Perché?”

“Solo un controllo documentale”.

Il comando della polizia locale era al piano seminterrato del Municipio. Ambra venne fatta sedere a una scrivania. Il graduato invitò l’agente semplice a sbrigare le formalità e scomparve. Con un cenno d’intesa, il subordinato invitò Ambra a favorire i documenti, rimirò a lungo la carta d’identità della ragazza, la rimosse dalla custodia in plastica, la tastò minutamente e la espose in controluce, come se cercasse di smascherare una banconota falsa. Conclusa la meticolosa ispezione, si diede a pestare su un vecchissimo computer.

Nel frattempo, un ascensore così minuscolo da ricordare una bara trasportò il graduato diversi piani e ammezzati più in alto, fino a una sala consiliare dall’aria antica, da cui un ampio balcone imbandierato, incoronato da una ringhiera di ferro battuto, dava sulla piazza e sulla chiesa arcipretale antistante. Affacciandosi si notava, al centro esatto del triangolo, un albero di castagno protetto da una grata su cui era imbullonata una placca commemorativa con lo stemma del Comune. Un antico e venerabile albero, i cui rami si diramavano sulla piazza angusta, oscurando quasi il sole e ghermendo i muri degli edifici spioventi; le possenti radici ondulavano di pesante forza la grata e i lastroni di pietra circostanti. Ambra avrebbe certamente notato quell’oscura divinità vegetale, se il suo sguardo non fosse stato così torvo e ristretto, come la punta di uno spillone.

Del resto, nemmeno il Comandante della Polizia Municipale – che tale era, essendo il Corpo costituito da tre agenti in tutto – aveva occhi per quelle cupe fronde. Il volto pallido e atteggiato a una reverenza estrema, si accostò all’ufficio del Sindaco e bussò.

“Sì?” Chiamò una voce femminile di panna acida, una voce di bambina.

Il Comandante aprì con circospezione esagerata la doppia porta imbottita, una cautela da artificiere forse spiegabile con la bizzaria violenta e onirica della stanza in cui si ritrovò, dopo essersi chiuso l’uscio alle spalle. Le pareti dell’ufficio del Sindaco erano tappezzate di poster adolescenziali, inframmezzati a frasi di filosofia spicciola vergate direttamente sui muri con pennarelli di vari colori. Le bandiere del Comune, della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea erano state strappate dalle rispettive aste e sostituite con altrettanti vessili delle Case di Hogwarts.

Sul tavolone intarsiato della scrivania del Sindaco troneggiavano un computer portatile rosa shocking tempestato di adesivi e glitter e un paio di stivaloni di gomma lucida, lunghi fino al ginocchio, da cui penzolava il corpo gracile di una ragazza sui vent’anni, il cui abbigliamento scimmiottava l’uniforme di una scolaretta giapponese, mentre dal collo in su il trucco era molto più vistoso e una pesantissima cascata di capelli biondi ricopriva quasi per intero lo schienale della poltrona.

Le mani giunte sul ventre, la testa rovesciata all’indietro, la ragazza guardava di sottecchi il Comandante, con un sorriso sottile sulle labbra violacee.

“Dimmi che hai trovato dell’altra roba, ti prego,” lo apostrofò.

“No… no, Principessa… anzi, temo, purtroppo che… forse… dovremo usarne un po’”.

La ragazza drizzò improvvisamente il capo: “E perché?”

“Ecco, ha presente quel ragazzo di fuori?”

“Quello che ho legato all’albero? Certo che me lo ricordo. La mia spia a Roma. Che è successo?”

“Be’, pare che dalla Calabria sia arrivata la sua ragazza”.

“Uh! Portatemela qui. Voglio vederla”.

Il Comandante si ritirò e ricomparve diversi minuti dopo, accompagnato dal collega e da Ambra, che tratteneva e strattonava per il braccio.

La Principessa scoppiò in una risata cavernosa e argentina: “E tu saresti la ragazza di Giovanni? E pensi davvero di portarlo via? Ma guardati!”

“E tu chi cazzo saresti?” Ribatté Ambra.

La Principessa inarcò le sopracciglie curatissime: “Ma come? Non hai letto la targa giù in piazza? Sono abituata a essere io quella più scema e le altre le secchione…”

“Quale targa?”

“Pronto? Crudele Principessa? Signora del paese? Albero di Sangue? Pronto? Sai leggere?”

“Non so di che stai parlando”.

“Santo Iddio. È insultante venire a fare la turista in un posto senza informarsi, sai?”

“Non sono venuta a fare la turista”.

“E che sei venuta a fare? A deprimerti vedendo… me?”

“Mi fai deprimere, in effetti, ma non per quello che pensi tu”.

“Uh, sento del sarcasmo! Sei venuta per fare una scenata?”

“Sì, ma non a te. Non me ne frega un cazzo di te. A quello stronzo del mio… del mio ex ragazzo”.

“Guarda che fai male a parlarne così. Mi ha resistito un po’, sai? Anzi, più di tutti quelli che ci hanno provato”.

“Provato a fare cosa?”

La Principessa allargò le braccia: “A resistere alla mia bellezza”.

Fu Ambra, stavolta, a sollevare le sopracciglia: “Tu non stai bene”.

“Be’, chi sta bene in questi paesini del cazzo? Sono in buona compagna. Vuoi vedere? Vuoi vedere? Comandante, sparale”.

Dalla scalcinata fondina bianca, il Comandante estrasse l’automatica d’ordinanza, tolse la sicura, scarrellò e puntò l’arma alla testa di Ambra.

“Aspetta, aspetta,” lo fermò la Principessa, in tono noncurante. “Non farla fuori. Le pallottole costano e poi mi sporcherebbe la stanza. Dalle solo qualche colpetto col manganello”.

Con una luce torbida di sollievo negli occhi iniettati di sangue, il Comandante rimise la sicura, rinfoderò la pistola ed estrasse il manganello, colpendo violentemente Ambra al ginocchio. La ragazza urlò e crollò a terra.

“Portatela giù in piazza,” ordinò la Principessa.

Dopo che i due agenti ebbero trascinato fuori Ambra, estrasse dalle pieghe del gonnellino un cellulare impreziosito nello stesso stile del portatile e fece partire una chiamata; non dovette attendere più di uno squillo.

“Giovanni?” Comandò. “In piazza. Subito”.

Scattò in piedi, attraversò la sala consiliare e si affacciò al balcone. I due agenti avevano gettato Ambra ai piedi dell’Albero. Dalla parte opposta sopraggiungeva Giovanni. I tre uomini riproducevano il triangolo della piazza. Ambra, improvvisamente spezzata, guardò lacrimevole Giovanni, ma egli la ignorò completamente, lo sguardo trasognato fisso al balcone.

“Portatela fin giù a calci,” decretò la Principessa, appoggiata vezzosamente alla ringhiera. “Non deve mai più osare mettere piede qui. È vero che qualunque ragazza è brutta al mio cospetto,” si riavviò platealmente una ciocca di capelli, “ma tu sei veramente troppo un cesso, tesoro”.

Quasi temesse di essere prevenuto dai due poliziotti, Giuseppe ghermì Ambra come un’aquila e la spinse, con violenza inaudita, in direzione di uno dei vicoli laterali, mandandola lunga distesa sulla pietra. Quando tentò di rialzarsi, la abbatté con un ceffone in pieno viso e la trascinò per i capelli. Al balcone, la Principessa ridacchiava, i gomiti posati sul ferro battuto: “Grazie per essere venuta, tesoro! Non succede mai niente, qui”.

La prima laurea

Mia cara Berenice,

sarebbe troppo lungo spiegarti i tortuosi percorsi mentali che mi hanno ispirato questo racconto.

Un saluto.

Stan

LA PRIMA LAUREA

Dopo anni passati in una delle città più violente d’Italia, dopo anni di istruttorie in materia di terrorismo, io non avevo mai sentito un colpo di pistola: ci può credere, signorina? Il fatto è che abitavo in un quartiere benedetto, in una villetta con giardino ereditata dai miei genitori, sul Colle Atro, proprio sotto il Castello Podestarile. Lì la sera, avvolto nel silenzio della campagna, potevi illuderti che tutto il resto non esisteva… ma era solo un’illusione, appunto.

Il Capo dell’Ufficio Scorte mi aveva avvertito, che quell’abitazione isolata, dietro la sua apparenza bucolica, era una jattura, un’esca per i fanatici, eppure non vi avrei rinunciato per nulla al mondo. Se ci tornai dopo? No, ovviamente, Ada non volle… per i bambini, sa.

Spuntarono dal nulla, dal buio del giardino, dal frinire dei grilli… era estate. Comparve Frau, nel vano della porta finestra… sì, sono sicuro che era Frau, passamontagna o no… un dito sulle labbra ricoperte di lana e la pistola in mano. Pregai che Ada non urlasse: ci riuscì, probabilmente per i bambini, addormentati al piano di sopra. Alzammo le mani all’unisono.

Dietro a Frau apparve la Alunni, anche lei col passamontagna e un rotolo di nastro isolante in mano. Legò Ada alla poltrona, bendò e imbavagliò me. Mi fecero alzare e sentii che mi spingevano attraverso il giardino, mi sollevavano e mi gettavano al di là del muro. I cocci di bottiglia mi squarciarono i vestiti e mi ferirono il ventre, qui. Per il dolore e per il volo mi veniva da vomitare, pensai che, se vomitavo con il bavaglio addosso, sarei morto soffocato.

Dall’altra parte del muro, mi afferrarono al volo e vi ammanettarono dietro la schiena. Mi trascinarono lungo il pendio e attraverso il bosco. Non era facile, in quelle condizioni. Caddi e sbattei contro i tronchi più e più volte. Quando arrivammo al furgone, ero in pessime condizioni e mezzo svenuto, alla prigione del popolo per prima cosa la Alunni mi medicò e io sorrisi.

Lei mi chiese: “Ti fa ridere?”

Io risposi: “Rido perché siete comunisti, ma le iniezioni le fanno fare a te, come in una famiglia di borghesucci qualunque”.

No, no, nessun coraggio. Li conoscevo, li conoscevo come le mie tasche. Rigidi, ligi alle regole. Incapaci di torcermi un capello per una battuta. Infatti, già la mattina dopo cominciò il processo proletario, davanti alla loro troika staliniana.

Frau, la Alunni e un tipo basso e tarchiato, che non saprei identificare perché verbalizzava e basta, non apriva mai bocca… probabilmente era il sardo, non ricordo come si chiamasse. Oh, è sarda anche lei? Mi scusi, sa, non volevo indulgere a stereotipi… lei non è certo bassa o tarchiata, del resto, lei è alta e affusolata.

Comunque, chiesi loro quali erano i capi d’imputazione. Mi risposero che il popolo, in quanto dittatore, non è vincolato ad alcuna legge.

“Va bene,” risposi, “allora di che parliamo?”

“Parlaci del tuo servizio per lo Stato Imperialista delle Multinazionali!” Risposero.

E io: “Va bene”.

Per celia, cominciai dal mio assistentato alla Cattedra di Filosofia. Deve sapere che io ho due lauree, Giurisprudenza e Filosofia. Mentre studiavo Giurisprudenza, ero assistente di Filosofia. Pensavo mi avrebbero interrotto bruscamente e ingiunto di passare direttamente al mio ingresso nei ruoli della Magistratura, invece, al contrario: la Alunni pareva un cane davanti cui fosse stato sventolato un osso.

Mi interrogò minutamente sul programma di filosofia che seguivamo, sulle tesi che assegnavamo gli studenti, tentava di convincermi che spiegando… che so… Platone o Heidegger o perfino Croce, in realtà stavamo indottrinando i giovani all’imborghesimento e alla sudditanza allo Stato Imperialista Eccetera Eccetera. Ero convintissimo che fosse laureata in Filosofia, ma poi mi dissero che aveva studiato non so cosa alla Scuola Nazionale di Cinema.

Comunque, andammo avanti con questa menata finché non arrivarono i militari… sì, militari, i reparti speciali della polizia e dei carabinieri non c’erano ancora. Frau, ovviamente, si fece prendere vivo… probabilmente li abbracciò anche… non ne poteva più della cosiddetta istruttoria della Alunni, si vedeva benissimo, per quanto portasse il passamontagna. Il sardo? No, lui scriveva e basta. Frau ora lavora in RAI, a proposito, siamo rimasti in contatto… se avesse bisogno di qualche entratura… lei è ancora pubblicista, no?

L’unica a farsi ammazzare, alla fine, fu la Alunni. Stava in cucina – che ironia, di nuovo – e tentò di lanciare un coltello ai soldati. Si può essere più cretini? La inchiodarono lì dove stava e, prima di morire, ebbe il tempo di urlare perché l’acqua bollente le si rovesciò addosso. I soldati volevano portarmi via subito, ma io ero attirato da quel cadavere come una falena dalla lampada. La concretezza di quel cadavere, di quel corpo… mi sembrava, un… un paradosso incarnato, un monumento folle, una statua classica mutilata.

Clienti difficili

Mia cara Berenice,

ieri, con alcuni amici delle mie terre d’origine, ho visitato il Balloon Museum, ricavato a Prati da un deposito dell’ATAC dismesso.

Il museo contiene palloni e palloncini etruschi e romani, con qualche pezzo ellenistico.

A metà circa del percorso espositivo, ai visitatori viene data la possibilità di immergersi nella piscina di palline di plastica usata dalle Vergini Vestali.

L’esperienza è estremamente rilassante, ma ovviamente non può durare all’infinito. Si entra a scaglioni e, terminato il tempo assegnato, una ragazza percorre a passo marziale il bordo della vasca, strappando in modo imperioso i visitatori dalla loro trance e invitandoli a lasciare la sala.

Il piglio deciso di questa giovane professionista mi ha appunto ispirato il racconto che ti allego.

Stan

CLIENTI DIFFICILI

La frenesia ansiosa con cui il pingue Sir Thomas si spogliò, si mise in ginocchio e inchiodò lo sguardo al pavimento fece intuire alla giovane Sienna che c’era qualcosa sotto.

“Che hai combinato?” Lo apostrofò, picchettando la punta del frustino sulla mano guantata.

L’ex Alto Commissario di Sua Maestà Britannica in Botswana non rispose. Sienna fece fischiare il frustino, puntandoglielo alla gola.

“Parla, prima che mi incazzi”.

“Ehm…” Ansimò Sir Thomas. “Avrei una richiesta…”

“Come se fosse una novità”.

“Non ti piacerà…”

“Non mi piace nemmeno vederti, ma devo pagarmi il dottorato. Vai avanti”.

“Ecco, vorrei uno scenario un po’ diverso…”

“Che scenario? Spiegati. Il tassametro corre”.

“Ecco… sai, si invecchia e comincio a trovare tutto questo latex e questa pelle, queste segrete medievali… un po’ pacchiani…”

“È la tua trippa e la tua pelata che sono pacchiane! Però hai ragione, è una cosa pietosa… ma ai tuoi amici pervertiti piace… però per te posso mettere su qualcos’altro, nei limiti del ragionevole… certo, la personalizzazione non è gratis”.

“I soldi non sono un problema, lo sai”.

“Se i soldi non sono un problema, nulla è un problema. Che avevi in mente, pelatone trippone?”

“Be’, ieri sono stato a un vernissage con mia moglie…”

“Povera donna…”

“Povero me! Hai idea di che significhi guardare centinaia e centinaia di foto in bianco e nero di esercizi calligrafici? Però…”

“Però…?”

“C’era questa guardia di sicurezza, questa ragazza… in uniforme con la radiolina… a un certo punto mi ero addormentato in piedi di fronte alla duecentesima foto e mi fa: Sir, anche se è un’apertura notturna, non abbiamo tutta la notte”.

“Povera stella, ha fatto benissimo. Vuoi qualcosa del genere, allora?”

“Se fosse possibile…”

“L’uniforme e la radiolina te le metto in nota spese, te lo dico subito. Non potrò usarle con nessun altro cliente”.

“Va benissimo… e pensavo che, magari, potevamo farlo in qualche museo…”

“In pubblico, vuoi dire?”

“Sì”.

“Ti costerà di più. Indennità di rischio: potrebbe riconoscermi qualcuno”.

“Va bene, va bene!”

“Bene. Ti faccio sapere quando mi sono organizzata”.

“Grazie!”

“Ma guardalo il nostro pacioccone! Contento come un bambino!”

“Da piccolo, la mia tata mi portò al British Museum. Per errore, mi sedetti su un trono azteco o qualcosa del genere…”

“Su un trono azteco? Veramente?”

“Qualcosa del genere”.

“Sei proprio un imbecille genetico. Dovevano affidarti a una dominatrice fin da piccolo”.