Apologia della candidatura di Silvio Berlusconi alla Presidenza della Repubblica Italiana

Mia cara,

non ti offendere, ma tu e le tue amiche siete monocordi. Passate un quarto del vostro tempo a scandalizzarvi per le violazioni dei diritti umani, un quarto a inorridire per quanto avviene in Italia, un quarto a giocare alla pallacorda e il residuo quarto ai vernissage.

Oggi, alla roulette della vostra indignazione è uscita la candidatura dell’ex Cavaliere, ex Presidente del Consiglio, ex parlamentare ed ex europarlamentare Silvio Berlusconi.

Bene, è una candidatura che i partiti di destra sostengono tiepidamente (halfheartedly, direbbero gli anglosassoni) e che ha scarse possibilità di vittoria, come dimostra il fatto stesso del suo annuncio Urbi et Orbi: chi entra nel conclave delle elezioni presidenziali da Papa, si sa, ne esce da Cardinale.

Io, sappilo, tifo per lui.

Lo ho sempre avuto in simpatia, anche quando non lo votavo per malinteso senso civico.

Dopo anni di austerità, severità, protestantesimo, autoflagellazione, egli mi sembra una boccata di aria fresca. Se schiererà ballerine di can can in uniforme da guardia d’onore, tanto meglio. Se poi le predette corazziere marceranno, invitte e imperiose, fino a Vienna, sarà la più grande e monumentale operazione militare dai tempi della battaglia di Austerlitz o dell’operazione Bagration.

Un saluto gioiosamente cantato.

Stan

Fortezza Roma

Mia cara Berenice,

sono seduto su levigati gradini di pietra, sul Quirinale, in attesa di amici con cui visitare una mostra alle Scuderie.

Passa una donna dall’accento straniero, ma dall’italiano impeccabile, forse è spagnola, indica la verzura che fa capolino dalle mura alle mie spalle.

“Che bel giardino! Mi scusi, come si fa a visitare quel bel giardino?”

“Non credo si possa, signora”.

“Di chi è?”

“Credo appartenga alla Presidenza della Repubblica”.

Il Quirinale, inaccessibile. Scosceso, gli fanno corona caserme e garitte; alla mia destra, una Stazione dei Carabinieri. Il Palazzo del Quirinale, tozzo, parallelepipedo, arroccato, la bandiera e lo stendardo che sventolano sulla torre, è una fortezza. A un cancello sono affacciati un corazziere della guardia presidenziale e un agente della polizia municipale in guanti bianchi, a un altro due avieri con il fucile mitragliatore a bandoliera.

Non so quale membro della ex Casa Reale disse di essere stato istruito dal Re a trattare il palazzo come se ne fosse un semplice inquilino: non perché appartenesse al popolo, ma perché apparteneva alla Santa Sede.

I Papi e le fortezze, le torri delle casate nobiliari fatte abbattere, come la Serenissima faceva spianare i castelli della Terraferma. Castel Sant’Angelo, il Passetto, il Vaticano. Le guardie svizzere che montano la guardia ai cancelli, i gendarmi che fanno la ronda sulla scalinata di San Pietro, la polizia italiana con le sue automobiline a ovulo e le batterie di metal detector e transenne. Fuori le Mura, i Castelli Romani di vedetta.

Roma è una città in cui il potere tiene tutto sotto controllo, ogni fortezza un panopticon. Ci sono voluti un altro Stato, un altro Governo e un altro esercito per detronizzare il Papa; l’ordine del giorno di un Gran Consiglio per detronizzare il Duce.

Non è una città di tumulti e sollevazioni. Le pagine di sangue e barricate si sono scritte per lo più altrove, a Genova, Milano, Torino, Napoli, Reggio Calabria, Palermo. Il regista Luigi Magni la raffigura mentre risponde, per bocca delle sue statue e dello scorrere del Tevere, con uno stornello irridente all’appello rivoluzionario lanciato dai bastioni di Castel Sant’Angelo.

Un saluto tra il clangore dei chiavistelli.

Stan