Mia cara Berenice,
ieri sera davano un grande classico, “I mostri” di Dino Risi (Italia-Francia, 1963), con Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman. Si tratta di un film a episodi e io aspettavo con impazienza l’ultimo e più tragico e toccante, “La nobile arte”, in cui un impresario di boxe fallito, pur di tornare nel circuito, ributta sul ring un suo vecchio campione ormai a riposo, facendolo massacrare da una giovane stella in ascesa.
Ricorda moltissimo “Una bistecca”, il racconto di Jack London in cui un vecchio pugile si batte con astuzia e dignità contro una giovane promessa, salvo soccombere inevitabilmente al vigore della sua giovinezza: è il tema dell’ineluttabilità della legge di natura, così presente in tutta l’opera di London.
Dalla lettura di Guareschi, invece, apprendiamo che la Chiesa preconciliare considerava la boxe uno sport immorale per la prevalenza della forza fisica sulla destrezza. Naturalmente, don Camillo invece la ama molto e, per assistere agli incontri senza attirarsi le ire dei superiori, si traveste da laico barbuto. Del resto, l’arciprete simile a “una torre” i cazzotti li tira tutti i giorni, fuori dal ring: contro i comunisti, ma non solo.
Ai francesi, evidentemente, la Rivoluzione non aveva tolto tutti i residui di cattolicesimo, se è vero che, per insultare gli odiati rivali inglesi, li chiamavano “boxeur”, un riferimento alla loro presunta volgarità che faceva il paio con il “bottegai” di Napoleone.
Eppure, come sempre, a prevalere è stata la narrativa anglosassone della boxe come, appunto, nobile arte. Nonostante l’orecchio strappato a morsi da Mike Tyson, nonostante i tanti pugili morti sul ring o in conseguenza delle lesioni ricevute: l’ultimo nelle Filippine, pochi giorni fa. Ha vinto l’attitudine del pugile a ergersi, nell’immaginario, a eroe del Paese, dell’etnia, della religione o della classe sociale di appartenenza. Come gli sportivi o gli atleti, ma con quel pizzico di violenza ancestrale sufficiente ad agitare qualcosa, giù nelle budella.
Ring!
Stan