Arte contemporanea a Roma

Mia cara Berenice,

a Roma piove ancora, i marciapiede sono incrostati di foglie fradice, il Tevere ha il colore e la consistenza del fango e lambisce gli argini interni, tanto che le scalette sui muraglioni sono state sbarrate con il nastro giallo della polizia municipale. Benedetto nastro giallo della polizia municipale, consolatore degli afflitti, refugium peccatorum. Ovunque a Roma abbraccia e avvolge misericordioso buche, voragini, aree inagibili, bagni pubblici fuori servizio, tronchi d’albero spezzati. Avrebbero dovuto infiocchettarci la Madonna sulla cima dell’obelisco di Piazza di Spagna, anziché appendervi, come al solito per l’Immacolata, un cuscino di fiori.

Lungo i muraglioni striscia e sbuffa, in affanno sotto la pioggia, il serpentone grigio del traffico, procede faticosamente dal centro, attraverso Trastevere, lungo la Gianicolense, preso spietatamente a sassate dai semafori rossi, si inerpica in spire lungo il Gianicolo. Emette stridii e singulti stizzosi. I sospiri sono troppo flebili per essere uditi, si perderanno, nella Los Angeles del 2019, come lacrime nella pioggia.

Attraverso le fessure dei balconi si intravedono le luci accese di una casa. Le finestre sono semiaperte, forse perché chi ci abita vuole godersi il rumore della pioggia e del resto il freddo invernale, a Roma, praticamente non è ancora pervenuto. L’uomo è disteso su un divano, sui tre quarti, e solleva verso il cielo un pugno chiuso. Non è un’opera del Realismo Socialismo, non si tratta di un funzionario della Commissione di Pianificazione che, chino su un mare di dati e progetti, saluta il vittorioso raggiungimento degli obiettivi quinquennali.

È un uomo dei giorni nostri e ha appena superato un livello a Candy Crush.

Un radioso saluto.

Stan

Un’altra idea geniale

Mia cara Berenice,

stamattina, a Roma, pioveva. Fortunatamente sto lavorando da casa, perché, secondo la stampa, la città intorno a me è impazzita. Strade allagate, incidenti, traffico in tilt, guasti alla metropolitana. Il maltempo non pareva particolarmente intenso, ma evidentemente era più diffuso del solito sull’ampia superficie cittadina oppure è stata pura e semplice sfortuna.

Ieri splendeva il sole e non posso nemmeno pensare cosa sarebbe successo altrimenti. La mattina, ho raggiunto come al solito Piazza Venezia con la navetta sostitutiva del tram – che, incidentalmente, da poco ha spostato senza preavviso il capolinea dall’Ara Coeli agli Astalli. Ho raggiunto a piedi l’ufficio. Nel primo pomeriggio, ho infilato nello zaino computer di servizio, incartamenti e masserizie varie e sono andato a piedi fino all’Agenzia per i Fondi Europei, tra Porta Pia e Porta Pinciana.

Da lì, dopo un paio di riunioni, un’auto di servizio mi ha riportato a Trastevere al Ministero dell’Università. Infine, smontato finalmente dal servizio, ho fatto la spesa e raggiunto a piedi la stazione per riprendere la navetta verso casa.

Se tutto questo fosse accaduto oggi, mi sarei trascinato sul divano nelle condizioni di un naufrago, se mai ci sarei arrivato.

Ricordi quando, all’apice della pandemia, ebbi l’idea della serie televisiva “Detective COVID”, con Alessandra Mastronardi a scandagliare i focolai epidemici per risalire al paziente zero? Ora sto immaginando “I fantasmi di Roma”, naturalmente sempre interpretata dalla stessa attrice. Il cambiamento climatico scatena su Roma un temporale particolarmente violento, quasi tropicale – sarebbe anche un omaggio a “Siccità” di Paolo Virzì (Italia, 2022). Centinaia di romani e turisti scompaiono nel nulla: forse sono annegati nei sottopassi, forse ancora bloccati in qualche quartiere periferico. Per rispondere all’emergenza, la Questura di Roma crea una speciale squadra investigativa con i migliori agenti dell’Ufficio Persone Scomparse. A quel punto, le indagini sulle sparizioni diventano un pretesto per mettere a nudo – a volte con ironia leggera, a volta con l’amarezza più nera e cruda – i volti nascosti e le contraddizioni dell’Italia. C’è il funzionario della Regione Basilicata in trasferta a Roma che approfitta dell’emergenza per darsi alla macchia e non tornare in ufficio per qualche settimana, facendosi alla fine computare un’indennità di disagio più pesante. C’è il giovanissimo immigrato del Sahel annegato in un tombino dopo essere sfuggito al mare. C’è l’anziana turista inglese che finisce per rifarsi una vita a Montespaccato, e così via.

Che dici? A me sembra un potenziale capolavoro.

Un orgoglioso saluto.

Stan

Ritorno all’acqua

Mia cara Berenice,

la prima lettera che ti scrissi, se non ricordo male, trattava dell’acqua, e ti fu molto gradita.

Ieri sera ho bevuto un aperitivo in un locale molto à la page di Re di Roma: acqua colorata. Il basso gazebo che proteggeva i tavoli del dehors, chiuso su tre lati, non lasciava passare un rivolo d’aria. “È una sauna qui sotto,” si lamentò F., affrettandosi a chiedere il conto: acqua.

Qualche tempo dopo, in tram, ho sentito una goccia tiepida e melmosa cadermi in grembo. Non me ne sono stupito troppo. Probabilmente l’autista aveva fatto un primo, sfortunato tentativo di accendere l’aria condizionata. Questo spiegava anche lo stantuffo assordante che mi fustigava le orecchie da quando eravamo partiti. Acqua. In senso letterale e nella ricerca di efficienza del Comune, fresco di nuovo Sindaco, investito dal Governo di poteri straordinari. Ora che ci penso, nei giardini al centro della rotonda di Re di Roma, un chiusino ostruito faceva debordare l’acqua di un nasone, un bambino ci zuppava gioiosamente le scarpe. Un’altra fontanella nelle stesse condizioni, davanti casa mia, lambisce le carrozzerie delle auto. Un’altra ancora, a Piazza Trilussa, getta il suo manto sui gradini di pietra smussata, fino al largo dove si esibiscono artisti di strada e musicisti. Acqua.

Tornando al tram o in tram, notai in quel momento che i finestrini erano rigati. In quel tardo pomeriggio soffocante, non immaginai potesse piovere, pensai fossero sempre le viscere del verme metallico che spurgavano. Di lì a poco, tuttavia, distinsi i binari, la carreggiata e i marciapiedi zuppi. Acqua.

Stan

Ombrelli

Mia cara Berenice,

è stata una stagione autunno-inverno assai piovosa. Oggi, in particolare, c’è davvero un tempo da lupi, quasi paragonabile a una bella giornata belga.

La mia strategia per resistere a questa ululante offensiva si basa su tre pilastri: un paio di ombrelli in casa, uno in ufficio, uno portatile in borsa.

Per essere un generale, però, la capacità di disporre le truppe non basta, serve quella di accettare delle perdite.

Gli ombrelli portatili sono la carne da cannone per eccellenza, i teneri novellini, le reclute. Generalmente economici, alle prime gocce di pioggia vengono zelantemente offerti da una folla di ambulanti vomitati come funghi dalla terra umida. Dall’altra parte, il primo soffio di vento li sventra, il primo raggio di sole li condanna a essere dimenticati sotto il tavolo di un bar, su un sedile della metro, all’ingresso di un ristorante.

Gli ombrelli tradizionali sono i veterani induriti, la Vecchia Guardia, i Berretti Verdi. Hanno sempre almeno una stecca dislocata, ma non ti abbandonano, almeno finché un acquazzone particolarmente impetuoso e improvviso li fa sparire per mano ignota dal portaombrelli. Quella fine banale ti lascia senza fiato, come quando un vecchio sergente maggiore pluridecorato, sopravvissuto a tante battaglie, viene pugnalato in un bordello da una guerrigliera nemmeno maggiorenne.

Infine, ci sono i modelli avveniristici, ergonomici, aerodinamici, a cui vengono generalmente attribuite origini olandesi. Sono le armi futuristiche presentate allo Stato Maggiore da qualche zerbinotto del complesso militar-industriale: promettenti, scintillanti, indice di ricchezza e avanzamento tecnologico. Una volta impiegate al fronte, però, non possono fare miracoli più dell’ultimo dei novellini.

C’est la guerre.

Stan

Il vecchio babbione

Mia cara Berenice,

il vecchio babbione ti dirà che questo è il novembre più piovoso a memoria d’uomo, soprattutto per i parametri romani.

A tal proposito, egli aggiungerà che Roma regge poco e male la pioggia, che si formano enormi pozze sui marciapiedi, che l’accumulo di foglie bagnate sui binari ostacola la circolazione dei tram, che l’arrivo in Campidoglio del nuovo Sindaco non ha cambiato nulla.

Se gli fai notare che il nuovo Sindaco è, appunto, neoeletto, sbufferà come un cavallo.

Se constati che la pioggia, quantomeno, fa bene all’agricoltura, ti risponderà che lui stesso è nato e cresciuto in campagna, e sua nonna era una coltivatrice diretta, ma usava comunque dire: “Il sole non annoia mai”.

Il vecchio babbione dissemina ombrelli a casa e in ufficio, ne tiene uno pieghevole in borsa, si comporta come se la pioggia fosse radioattiva.

Scruta sulla Rete le previsioni del tempo a quindici o perfino a trenta giorni, pur sapendo benissimo quando la loro attendibilità sia discutibile.

Si lamenta degli stendini in casa, pur avendo tutto lo spazio per collocarli, e trova l’odore di umidità così insopportabile da aerare l’intera abitazione anche alle nove di sera.

Il vecchio babbione è una calamità e una vergogna.

Il vecchio babbione sono io.

Dove te ne vai in giro con quelle minigonne? Ai tempi dell’Imperatore, le aristocratiche sapevano almeno vestire: nient’altro, ma vestire sì.

Stan

Storie della Resistenza

Mia cara Berenice,

la storia che sto per raccontarti si svolge da qualche parte nella Pianura Padana, nel 1945.

Nella piazza del paese cala un silenzio irreale dopo che l’ultima camionetta tedesca, caricata fra lo sbraitare dei sottufficiali, a furia di pedate e spintoni per scrostarla dal fango, è finalmente partita. L’aria è scura e gonfia, elettrica, il temporale imminente.

Sul sagrato della cattedrale sta in piedi il rettore, le braccia conserte, i lembi della tonaca lambiti dall’aria fredda che preannuncia il diluvio. Il volto ancora giovane è raggrinzito dalla preoccupazione sotto gli occhialetti tondi… ha la coscienza pulita, il monsignore, ma non osa ancora suonare le campane a distesa… potrebbe esserci ancora qualche tedesco, o qualche fascista disperato in giro… e poi i partigiani, in maggioranza comunisti, riconosceranno i suoi giusti meriti? Nel convento dei cappuccini, a un tiro di sasso da lì, ha fatto ricoverare lui stesso una famiglia di ebrei. Al sagrestano ha affidato un biglietto per il padre superiore e la raccomandazione di portarlo a destinazione, pedalando all’impazzata: non lasciar andare i giudei o, se proprio devono andarsene, farsi lasciare ricevuta del servizio prestato.

Dall’altro lato della piazza, in Municipio, non si hanno tutte queste remore. Dalla scala interna di servizio sbucano, nell’atrio pavesato di nero, due stradini mezzo ubriachi che sventolano la bandiera con la stella rossa sulla banda bianca. Si inerpicano sullo scalone e fanno irruzione nell’ufficio del podestà che quel giorno, prudentemente, non si è presentato al lavoro. Pisciano sullo scrittoio e sulla carta intestata della Repubblica Sociale, abbattono a calci i fasci, lanciano dal finestrone il ritratto del Duce, si affacciano al balcone agitando la bandiera e baccagliando.

Ma la piazza è vuota, già cadono i primi goccioloni di pioggia. Il rettore fa dietrofront, a lunghe falcate dentro il sottanone, ed esercita il suo diritto d’asilo nella cattedrale. Dove sarà finito il sacrestano? Possibile che venga trattenuto dalla…

La pioggia cade tutta d’un colpo, come il rovesciarsi di un secchio. Un boato che muggisce fra le navate. Il Rettore si segna, si inginocchia davanti alla Madonna della cappelletta, affonda il volto fra le mani: “Ave Maria, gratia plena, Dominus tecum…”

Recita il rosario anche Rosina, l’ostessa, sull’inginocchiatoio del tinello, con le gambe che le tremano così forte da far tremare il legno consunto e sbilenco.

Al piano di sotto, nell’osteria deserta, sono arrivati quelli della Brigata Garibaldi che, fino a quel momento, se n’erano stati nascosti nel casolare delle Quattro Strade. Sono venuti a prendere il podestà e il federale, ma sanno benissimo che non troveranno né l’uno né l’altro e, quindi, zuppi di pioggia dopo la lunga marcia cominciata all’alba, si sono acquartierati provvisoriamente in osteria, e ora vociano chiedendo rumorosamente cibo e vino.

Aldo, l’oste, guarda la moglie che prega sotto la Madonnina, pallido come un morto. Ha fatto ottimi affari servendo fascisti e tedeschi, finché c’era la Repubblica… ma che scelta aveva? Nell’angolo le due figlie, giovani e graziose e già avvezze a servire gli avventori. Magari, con loro, si rabboniscono… magari, davanti a loro, non osano… e se invece, dopo un anno passato a scappare di casolare in casolare, vedendo due ragazze…? No, no. Lo strepito, al piano di sotto, sale di volume, bisogna scendere.

Aldo percorre i gradini, uno alla volta, posando i piedi come se la pietra scottasse, come verso il patibolo. I partigiani sono sporchi, zuppi e armati fino ai denti. Il pavimento in terra battuta dell’osteria è così lordo di fango da far sembrare lo stanzone una stalla.

Il comandante, quello che chiamano Argo, ha trovato per l’occasione un’uniforme con le spalline. Gli ordina da bere per tutti, e tutto sul conto del Comitato: verrà rilasciata regolare ricevuta.

“Non se ne parla nemmeno,” si schermisce l’oste, con la faccia più gioconda che riesce a mettere insieme. “Offre la casa agli eroi, ai patrioti!”

I partigiani applaudono, Aldo si affretta a servirli, il vino e lo scroscio ipnotico della pioggia sembrano calmarli.

A uno, semisdraiato su una panca, sfugge una serie di grotteschi e sgraziati starnuti, i compagni lo deridono.

“Pioggia di merda,” borbotta lui, pulendosi il naso con lo strofinio dell’indice.

All’oste, che si è precipitato a servirgli un altro bicchiere, sfugge un “Buona per i campi”. Più per abitudine e leggerezza, che per altro. La maledetta abitudine e la maledetta leggerezza. Lui non ha campi, innanzitutto, e comunque piove da un mese. Una delle primavere più inclementi che si ricordino. A Strezza, il paesello più vicino, si recita ogni sera il rosario perché il fiume non straripi.

Il partigiano sdraiato rumina brevemente le quattro parole dell’oste, poi improvvisamente scatta in piedi, gli si para davanti e gli punta il mitra allo stomaco. Nella postura e nello sguardo ha la tranquillità terribile dell’ubriachezza lucida.

“Ehi!” Lo apostrofa il comandante Argo. “Che fai?”

“Metto questo fascista al muro,” risponde il partigiano redivivo.

Aldo non replica, si limita ad alzare la mani.

“E te ne sei accordo adesso, che è un fascista?” Sogghigna il comandante. “Guarda, ti ha appena servito un altro bicchiere. Siediti e bevilo, e ringrazia”.

Il partigiano, però, non si rassegna: “Piove da un mese e questo dice che l’acqua va bene per i campi”.

“E li conosci i contadini: sono avidi,” ridacchia il comandante, che viene dalla città e veramente considera i contadini un ostacolo alla rivoluzione proletaria. Non vi si sono forse opposti strenuamente, in Russia? Il tempo dei conti verrà, ma non è questo. Perciò mette una mano sulla spalla del partigiano e lo fa risedere. Nessuno muore quel giorno, né in seguito. Quando finalmente spiove, i partigiani sono troppo ubriachi per dare la caccia ai fascisti rimasti. Questi ultimi, del resto, se la sono già data a gambe, tranne un caposquadra particolarmente fesso che, appunto in quanto fesso, se la caverà con una dose di legnate. Gli altri torneranno tranquillamente in paese, col favore dell’amnistia, qualche tempo dopo.

Qual è la morale di questa storia? Nessuna. Piove a dirotto da due giorni e sono stufo.

Uno spazientito saluto.

Stan