Il rudere

Mia cara Berenice,

ieri, fuori Orte, abbiamo visto un rudere. Un edificio completamente crollato, tanto che ne era rimasta solo la facciata e scoperti, come costole, i tre antichi piani. Immoto fra l’erba alta, carezzato dalla luce del tramonto, sembrava avere qualche tragica storia di paese da raccontare. Ci siamo avvicinati con precauzione ed era circondato di orme di cinghiale, riconoscibilissime. Sembrava beffarsi delle moderne, borghesi villette che gli erano state innalzate intorno, ridacchiare: “Io vi conoscono, sepolcri imbiancati di paese!”

Quei mattoni nudi, silenziosi e irridenti mi sono rimasti piantati nel cranio; da qui il racconto allegato.

Stan

IL RUDERE

Michele non aveva né la vivacità, né l’abbigliamento dei suoi ventisette anni. Scuro in volto e nel completo giacca e cravatta, stirato così accuratamente dalla madre da rendere ogni piega una lama, osservava disgustato le sue scarpe di vernice nera inzaccherarsi nella fanghiglia della campagna. Detestava quelle ville faraoniche spuntate come funghi in mezzo al nulla, eppure doveva decantarle: perché, quando sei un laureato disoccupato, prima o poi finisci a fare un lavoro a provvigione.

Odiava il proprietario di casa, un informatore medico benissimo avviato. Una multinazionale svizzera l’aveva assunto per la nuova, prestigiosa sede che intendeva aprire nel cuore di Roma, al centro di un triangolo mistico con ai vertici Palazzo Chigi, il Ministero della Salute e l’Agenzia del Farmaco. Gli svizzeri l’avevano ricoperto di soldi e, quindi, il ragazzo d’oro del paesello spiccava il volo e si trasferiva in un attico in zona Campo de’ Fiori. Campo de’ Fiori? Ma davvero? Eh sì, davvero. Si sarebbe portato dietro la bella del paese, un’insopportabile cretina che dai banchi della chiesa arcipretale era approdata a una cattedra di religione cattolica: per ora sotto casa, in prospettiva ed espletate le relative pratiche in Vicariato, in qualche prestigioso liceo del centro. Il tutto nonostante gli abiti provocanti che continuava a ostentare anche dopo il secondo figlio… o forse proprio grazie a quelli, malignava Michele.

La possibile acquirente era, se possibile, ancora peggio. Se l’informatore medico anelava il prestigio pariolino, lei lo sfuggiva. Nonostante gli abiti da figlia dei fiori in cui era infagottata, discendeva da una famiglia della nobiltà nera. Arrotondava la sua generosa rendita mensile dipingendo nuda su OnlyFans e ora poteva permettersi un atelier di lusso a Orte: “sulle orme di Pasolini”, ripeteva. Le aveva fatto visitare vari palazzi del centro storico, ma la tradizionale processione delle Confraternite l’aveva disgustata per qualche motivo. Così, eccoli in mezzo al nulla.

Michele suonò il sofisticato citofono e percepì l’occhio elettronico appuntarglisi addosso, seguito dal ronzio del cancelletto che si apriva. Sulla porta li attendeva una bambina. Michele si chinò e le sorrise: “Ciao! Ci sono papà e mamma?”

“Di sopra!” Echeggiò dall’interno una stentorea voce maschile.

Un’avveniristica scala di legno e vetro si infilava come un coltello nell’atrio, conducendo alla vasta terrazza che era, innegabilmente, il punto saliente della casa. Michele salì i gradini, lasciando che il design morbido e moderno ammorbidisse la cliente, prima di darle il colpo di grazia con il panaroma della campagna, con il sole a calare sul borgo di Orte all’orizzonte. L’informatore medico aveva chiaramente avuto la sua stessa idea e si godeva con un sogghigno soddisfatto la cliente, nonostante l’invariabile espressione sfingea e imbronciata della ragazza.

“Perfetto per dipingere, no?” Esplose, con un tono da cui si intuiva in modo trasparente quanta considerazione avesse della pittura e delle arti in genere.

La pittrice non rispose, limitandosi a rimirare il panorama. Si accigliò trovandolo parzialmente ostruito da un edificio in rovina, franato e sventrato. Michele lo conosceva, era ben noto a chiunque fosse del paese. A Orte, un bambino non era uomo se non andava a giocare tra le ossa di quello scheletro pericolante, nonostante le rampogne dei genitori e del vigile Arduino. Alla fine, l’ignoto proprietario si era spaventato per le possibili grane legali e aveva fatto mettere in sicurezza la struttura con puntelli e qualche iniezione di cemento.

L’informatore medico non si scoraggiò minimamente.

“La storia di quell’edificio le piacerà,” proclamò. “Ci viveva un fattore… sa cos’è un fattore?”

“Un crumiro dei tempi del feudalesimo,” rispose la pittrice, con voce spenta e robotica.

“Be’… più o meno… si innamorò della figlia di certi mezzadri e se la prese in casa come concubina… ma il padrone delle terre era un bigotto, come tutti i nobili del tempo, e gli intimò di cacciarla, ma l’uomo non volle saperlo e se la tenne in casa, insieme alla moglie, ai figli legittimi e ai figli bastardi che le diede lei, capisce? Una domenica, l’arciprete all’omelia tuonò contro quello scandalo. La moglie e i figli, che erano a Messa, tornarono a casa furiosi di essere stati umiliati in quel modo, davanti a tutto il paese… tornarono a casa e ci fu una tremenda lite… nessuno sa cosa sia successo di preciso, ma la casa bruciò fino alle ossa, con tutti dentro. Da allora, è considerata maledetta… non è mai stata ristrutturata, come vede… da giovani, ci portavamo le ragazze di sera, contando sull’effetto arrapamento della paura…”

Gli occhi di Michele saettavano in tutte le direzioni, nel tentativo disperato di fargli cenno di tacere e non far sfumare una vendita che, per quanto aberrante, si portava dietro una sostanziosa provvigione. La pittrice avanzò di un passo, sporgendosi oltre il parapetto in direzione del rudere.

“Cosa sono quelli?” Chiese.

Michele si precipitò al parapetto per tagliare fuori il padrone di casa, ma si afflosciò sulla ringhiera, disperato. La ragazza aveva puntato un’intera famiglia di cinghiali, con i cuccioletti pelosi in fila dietro la madre. Convinto anch’egli che la cittadina schifasse quegli animali, associati nella cronaca alla monnezza romana, perfino l’informatore medico perse il suo smalto e si sistemò i pantaloni infilandovi le dita pingui.

“Deve capire, signorina… qui siamo in campagna…”

“Sono bellissimi,” decretò lei, secca.

Tre giorni dopo, inviò tramite Michele la sua offerta irrevocabile d’acquisto, a stretto giro seguì il preliminare con immissione immediata nel possesso. Infine, si ritrovarono davanti a un notaio di Orte per la stipula del definitivo. Fu una cerimonia tesa. L’informatore medico e sua moglie erano ancora offesi per come lei li aveva sbattuti fuori di casa senza una parola, dopo la consegna delle chiavi. L’uomo poté dare sfogo a tutta la sua rabbia, dato che l’acquirente – non occorre nemmeno dirlo – scomparve immediatamente dopo la firma.

“Dottore!” Abbaiò, rivolgerndosi al notaio. “Mi faccia il favore di registrare l’atto appena possibile e farmelo sapere!” Batté le nocche sul tavolo della sala riunioni. “Appena è registrato, io quella la denuncio”.

“Per cosa?” Si stupì il notaio.

“Ho parlato io con il proprietario del vecchio rudere, e comunque gli atti osceni in luogo pubblico sono perseguibili d’ufficio. Mi sono informato. Il capo della sicurezza di una delle aziende mie clienti era colonnello nei carabinieri”.

“Atti osceni in luogo pubblico?”

“Ma non li legge i giornali, dottore? Quella si filma nel rudere, anche in pieno giorno, mentre imbratta le pareti di vernice, si dipinge tutta nuda, dipinge il pelo ai cinghiali e ci co-pu-la! E dei pervertiti la pagano fior di soldi per mettere questa roba su Internet!”

Il notaio sgranò tanto d’occhi. Se l’avesse saputo, avrebbe trovato una scusa per non fare il rogito, perbacco! Ora tutto il paese se la sarebbe presa con lui!

La Principessa

Mia cara Berenice,

ieri, in occasione del primo maggio, ho visitato con alcuni amici una coppia di paesini al limitare del Lazio, con annesso eremo.

Sui muri del primo borgo abbiamo trovato inscritto, in più punti, il nome di una ragazza del posto apparentemente molto desiderata e ci siamo ritrovati a scherzare sul potere contrattuale della reginetta di bellezza di un così piccolo abitato.

Ciò mi ha ispirato il racconto che ti allego.

Stan

LA PRINCIPESSA

Quando il ragazzo seduto di fronte a lei, in treno, le offrì della gomma americana che prometteva di sbiancare i denti, Ambra lo incenerì con lo sguardo. Magari la mossa di cortesia era stata fatta senza particolare intenzione, ma Ambra era, in quel momento, in guerra con l’intero genere maschile: riservò un’occhiata torva perfino al capotreno, venuto a controllare biglietto e certificazione verde.

Giovanni, lo storico ragazzo di Ambra, come tanti giovani meridionali si era trasferito a Roma per lavorare. Si era sistemato in un paesino ben collegato del Lazio, per risparmiare ed evitarsi la promiscuità di un appartamento condiviso, aveva terminato con successo la prova e tutto sembrava andare per il meglio, finché Ambra non aveva cominciato a percepire, confusamente, qualcosa di strano nei suoi messaggi e videochiamate. Poi Giovanni aveva smesso di rispondere agli uni e alle altre. Infine, i primi avevano smesso di arrivare a destinazione e per le chiamate non si riusciva nemmeno a prendere la linea.

Le amiche erano pervenute alla conclusione più ovvia e le avevano consigliato di stendere su Giovanni un sudario di oblio e disprezzo. Perfino la sua futura suocera, un donnone massiccio e orgoglioso, era venuta a scusarsi con lei. Sì, Giovanni rispondeva alle sue telefonate, ma si rifiutava di dare qualunque spiegazione; l’ultima volta era arrivato al punto di attaccarle il telefono in faccia. L’aveva perfino diffidata dall’andare a trovarlo, adducendo di “avere da fare”.

“Non so che gli è preso, Ambra, mi devi credere! Ma per il venticinque aprile salirò che lo voglia o no, e allora mi sentirà!”

“Signora, non si scomodi, vado io”.

Calabria e Roma, come le aveva assicurato mille volte Giovanni prima di partire, non sono più così mal collegate. Fissa nella sua fantasia di Erinni, Ambra si accorse a malapena delle ore sui binari: in quello che le parve un battere di ciglia, si trovò catapultata nella bolgia di Termini. Viaggiava leggera e percorse rapidamente l’interminabile banchina, i gate e l’enorme atrio, irrompendo in Piazza dei Cinquecento. Pareva il posto meno adatto immaginabile per chiedere qualsivoglia informazione. Tutti andavano di fretta, tutti parlavano straniero. Il minimo movimento sembrava condurla in urto con qualcuno. Un paramedico in giubbotto catarifrangente la fece allontanare urlando da una tenda bianca con il simbolo della Croce Rossa: “Ci sono i positivi covid là dentro!”

“E perché non mettete un cartello?” Rimbeccò Ambra, inviperita.

Il ragazzo si limitò a fare spallucce.

Oltre la corsia dei taxi, un capannello di autisti dell’ATAC ciondolava intorno a una guardiola. Ambra li affrontò di petto e fece il nome del paesello in cui si era nascosto Giovanni. Dopo diverse grattate di capo, le indicarono dove prendere la corriera extraurbana della Cotral.

“Dove posso fare il biglietto?”

“Lì c’è la biglietteria turistica. Parlano tutte le lingue”.

“E io italiana sono!”

Il torpedone arrivò dopo trentacinque minuti, la lasciò salire dopo quarantacinque e si mosse dopo quasi un’ora; procedeva con lentezza esasperante, rallentato prima dal traffico di Roma, poi dalle curve e strettoie della campagna. Non importava, Ambra se ne restava confitta sul suo sedile come un chiodo, nessun malevolo incantesimo logistico l’avrebbe distolta dalla sua missione.

Diverse ore e tornanti dopo, la corriera fermò ai piedi di una cresta aguzza su cui si inerpicava il paesino, simile ai borghi toscani e umbri ormai prossimi. L’autista fece per accennare ad Ambra di scendere, ma dallo specchietto vide il sedile della ragazza ormai vuoto. Preso da un oscuro presentimento a cui non seppe dare forma, richiuse le porte e fece ripartire il mezzo.

In corrispondenza alla fermata sorgevano un gazebo comunale delle informazioni turistiche e l’ingresso di una cremagliera. Quando ancora si degnava di risponderle, Giovanni si era sistemato in un bed and breakfast, in attesa di trovare una camera ammobiliata con una padrona di casa disposta a provvedere a un minimo di vitto e di pulizie. In seguito, aveva raggiunto con il b&b un accordo forfettario molto conveniente e ci era rimasto.

L’addetta allo sportello informazioni soppesò Ambra con un lunghissimo sguardo ostile, prima di farle sapere che l’unico bed and breakfast del paese dava sulla piazza principale.

“Come ci arrivo?”

“A piedi, ma è molto lunga e ripida”.

“E quella?”

“È a pagamento”.

“Non importa”.

“Accetta solo monete da un euro”.

Ambra si frugò nel portafogli.

“Vanno bene due euro?”

“No”.

Senza aggiungere sillaba, Ambra si ributtò lo zaino in spalla e imboccò la stradina che si inerpicava a spirale verso la sommità, districandosi tra case addossate le une alle altre, ponticelli, passetti, cortiletti risicati, terrazzini e tortuosi vicoli angusti. La piazza, di forma triangolare, era scura e claustrofobica, e non fu facile individuare la porticina del bed and breakfast, incastrata tra la tabaccheria e il museo civico. Alla reception, una ragazza dai capelli verdi aveva la stessa espressione diffidente dell’operatrice di sotto.

Ebbene, nemmeno Ambra era in vena di convenevoli: “Sto cercando Giovanni”.

“Non so chi sia”.

“È il mio ragazzo”.

Nessuna risposta.

Ambra sfoderò una foto di Giovanni sul cellulare.

“Non l’ho mai visto”.

“Ci sono altri bed and breakfast, in paese?”

“Non saprei”.

“Senta, non mi pare che questa sia una metropoli”.

“Non alzi la voce”.

“Non sto alzando la voce”.

Alle spalle di Ambra si materializzarono due agenti della polizia locale.

“C’è qualche problema?” Chiese il più alto in grado dei due.

“La signorina pretende che le diamo informazioni riservate sui nostri ospiti,” spiegò, piccata, la receptionist.

“Ah, allora sta qui!” Esplose Ambra. Un agente le posò una mano guantata sulla spalla.

“Signorina, venga con noi”.

Ambra si divincolò come un’anguilla elettrica.

“Perché?”

“Solo un controllo documentale”.

Il comando della polizia locale era al piano seminterrato del Municipio. Ambra venne fatta sedere a una scrivania. Il graduato invitò l’agente semplice a sbrigare le formalità e scomparve. Con un cenno d’intesa, il subordinato invitò Ambra a favorire i documenti, rimirò a lungo la carta d’identità della ragazza, la rimosse dalla custodia in plastica, la tastò minutamente e la espose in controluce, come se cercasse di smascherare una banconota falsa. Conclusa la meticolosa ispezione, si diede a pestare su un vecchissimo computer.

Nel frattempo, un ascensore così minuscolo da ricordare una bara trasportò il graduato diversi piani e ammezzati più in alto, fino a una sala consiliare dall’aria antica, da cui un ampio balcone imbandierato, incoronato da una ringhiera di ferro battuto, dava sulla piazza e sulla chiesa arcipretale antistante. Affacciandosi si notava, al centro esatto del triangolo, un albero di castagno protetto da una grata su cui era imbullonata una placca commemorativa con lo stemma del Comune. Un antico e venerabile albero, i cui rami si diramavano sulla piazza angusta, oscurando quasi il sole e ghermendo i muri degli edifici spioventi; le possenti radici ondulavano di pesante forza la grata e i lastroni di pietra circostanti. Ambra avrebbe certamente notato quell’oscura divinità vegetale, se il suo sguardo non fosse stato così torvo e ristretto, come la punta di uno spillone.

Del resto, nemmeno il Comandante della Polizia Municipale – che tale era, essendo il Corpo costituito da tre agenti in tutto – aveva occhi per quelle cupe fronde. Il volto pallido e atteggiato a una reverenza estrema, si accostò all’ufficio del Sindaco e bussò.

“Sì?” Chiamò una voce femminile di panna acida, una voce di bambina.

Il Comandante aprì con circospezione esagerata la doppia porta imbottita, una cautela da artificiere forse spiegabile con la bizzaria violenta e onirica della stanza in cui si ritrovò, dopo essersi chiuso l’uscio alle spalle. Le pareti dell’ufficio del Sindaco erano tappezzate di poster adolescenziali, inframmezzati a frasi di filosofia spicciola vergate direttamente sui muri con pennarelli di vari colori. Le bandiere del Comune, della Repubblica Italiana e dell’Unione Europea erano state strappate dalle rispettive aste e sostituite con altrettanti vessili delle Case di Hogwarts.

Sul tavolone intarsiato della scrivania del Sindaco troneggiavano un computer portatile rosa shocking tempestato di adesivi e glitter e un paio di stivaloni di gomma lucida, lunghi fino al ginocchio, da cui penzolava il corpo gracile di una ragazza sui vent’anni, il cui abbigliamento scimmiottava l’uniforme di una scolaretta giapponese, mentre dal collo in su il trucco era molto più vistoso e una pesantissima cascata di capelli biondi ricopriva quasi per intero lo schienale della poltrona.

Le mani giunte sul ventre, la testa rovesciata all’indietro, la ragazza guardava di sottecchi il Comandante, con un sorriso sottile sulle labbra violacee.

“Dimmi che hai trovato dell’altra roba, ti prego,” lo apostrofò.

“No… no, Principessa… anzi, temo, purtroppo che… forse… dovremo usarne un po’”.

La ragazza drizzò improvvisamente il capo: “E perché?”

“Ecco, ha presente quel ragazzo di fuori?”

“Quello che ho legato all’albero? Certo che me lo ricordo. La mia spia a Roma. Che è successo?”

“Be’, pare che dalla Calabria sia arrivata la sua ragazza”.

“Uh! Portatemela qui. Voglio vederla”.

Il Comandante si ritirò e ricomparve diversi minuti dopo, accompagnato dal collega e da Ambra, che tratteneva e strattonava per il braccio.

La Principessa scoppiò in una risata cavernosa e argentina: “E tu saresti la ragazza di Giovanni? E pensi davvero di portarlo via? Ma guardati!”

“E tu chi cazzo saresti?” Ribatté Ambra.

La Principessa inarcò le sopracciglie curatissime: “Ma come? Non hai letto la targa giù in piazza? Sono abituata a essere io quella più scema e le altre le secchione…”

“Quale targa?”

“Pronto? Crudele Principessa? Signora del paese? Albero di Sangue? Pronto? Sai leggere?”

“Non so di che stai parlando”.

“Santo Iddio. È insultante venire a fare la turista in un posto senza informarsi, sai?”

“Non sono venuta a fare la turista”.

“E che sei venuta a fare? A deprimerti vedendo… me?”

“Mi fai deprimere, in effetti, ma non per quello che pensi tu”.

“Uh, sento del sarcasmo! Sei venuta per fare una scenata?”

“Sì, ma non a te. Non me ne frega un cazzo di te. A quello stronzo del mio… del mio ex ragazzo”.

“Guarda che fai male a parlarne così. Mi ha resistito un po’, sai? Anzi, più di tutti quelli che ci hanno provato”.

“Provato a fare cosa?”

La Principessa allargò le braccia: “A resistere alla mia bellezza”.

Fu Ambra, stavolta, a sollevare le sopracciglia: “Tu non stai bene”.

“Be’, chi sta bene in questi paesini del cazzo? Sono in buona compagna. Vuoi vedere? Vuoi vedere? Comandante, sparale”.

Dalla scalcinata fondina bianca, il Comandante estrasse l’automatica d’ordinanza, tolse la sicura, scarrellò e puntò l’arma alla testa di Ambra.

“Aspetta, aspetta,” lo fermò la Principessa, in tono noncurante. “Non farla fuori. Le pallottole costano e poi mi sporcherebbe la stanza. Dalle solo qualche colpetto col manganello”.

Con una luce torbida di sollievo negli occhi iniettati di sangue, il Comandante rimise la sicura, rinfoderò la pistola ed estrasse il manganello, colpendo violentemente Ambra al ginocchio. La ragazza urlò e crollò a terra.

“Portatela giù in piazza,” ordinò la Principessa.

Dopo che i due agenti ebbero trascinato fuori Ambra, estrasse dalle pieghe del gonnellino un cellulare impreziosito nello stesso stile del portatile e fece partire una chiamata; non dovette attendere più di uno squillo.

“Giovanni?” Comandò. “In piazza. Subito”.

Scattò in piedi, attraversò la sala consiliare e si affacciò al balcone. I due agenti avevano gettato Ambra ai piedi dell’Albero. Dalla parte opposta sopraggiungeva Giovanni. I tre uomini riproducevano il triangolo della piazza. Ambra, improvvisamente spezzata, guardò lacrimevole Giovanni, ma egli la ignorò completamente, lo sguardo trasognato fisso al balcone.

“Portatela fin giù a calci,” decretò la Principessa, appoggiata vezzosamente alla ringhiera. “Non deve mai più osare mettere piede qui. È vero che qualunque ragazza è brutta al mio cospetto,” si riavviò platealmente una ciocca di capelli, “ma tu sei veramente troppo un cesso, tesoro”.

Quasi temesse di essere prevenuto dai due poliziotti, Giuseppe ghermì Ambra come un’aquila e la spinse, con violenza inaudita, in direzione di uno dei vicoli laterali, mandandola lunga distesa sulla pietra. Quando tentò di rialzarsi, la abbatté con un ceffone in pieno viso e la trascinò per i capelli. Al balcone, la Principessa ridacchiava, i gomiti posati sul ferro battuto: “Grazie per essere venuta, tesoro! Non succede mai niente, qui”.

Il venerdì del villaggio

Mia cara Berenice,

quando porto a Monteverde Nuovo qualche collega di oltre Tevere, un commento frequente è: “Non sembra nemmeno di stare a Roma”.

Ed è vero, Monteverde sembra un paesello: case relativamente piccole, relativa disponibilità di verde.

Infatti, non mancano i rumori del paesello. I bambini che giocano a calcio nel cortile della scuola elementare fino alle tre di notte, la sirena dell’allarme delle suore che ulula per ore, mentre la polizia circola rabbiosamente intorno al palazzo, quasi fosse una sede extraterritoriale inviolabile.

Forse tu, nata e cresciuta a Vienna, pensavi che i paeselli fossero silenziosi. Sappi invece che le macchine agricole fanno un baccano d’inferno, per non parlare delle campane.

Casa di nonna era a un tiro di sasso dal fortilizio parrocchiale chiesa-canonica-oratorio-appartamento del sacrestano. La suddetta ridotta era ormai totalmente sguarnita, ma la tecnologia suppliva. Alla base del campanile era stato installato un dispositivo a tempo. Per gli scampanii straordinari – quasi sempre per annunciare le morti – suppliva un comodo telecomando, lasciato in custodia a un consigliere pastorale.

Mio zio, ex chierichetto, trovava che la moderna liturgia delle ore non valeva un’unghia delle campane suonate a mano, aggrappandosi con tutto il peso del corpo alla corda nodosa. Mia nonna, anticlericale a giorni alterni, lo trovava comunque un suono paradisiaco. Io alzavo gli occhi al cielo, e non perché mi ispirasse devozione. Mia cugina, bimba ancora, associava campane e chiesa così strettamente da ribattezzare un vice-parrocco Din Don Dino.

Un rotondo saluto.

Stan