Mia cara Berenice,
sono tornato oggi, nel primo pomeriggio, da Padova, il mio locus commissi delicti accademico.
Ho esaminato scrupolosamente la scena del crimine, seguendo le indicazioni della Scientifica: Palazzo del Bo pavesato a festa per l’ottocentesimo anniversario dalla fondazione dell’Ateneo, il Seminario e il Dipartimento di Diritto Internazionale.
Un’altra tappa è stata, dal lungofiume avvolto nelle fronde e nella notte, la Torre della Specola. Eretta nel ‘300 sui resti del castello di Ezzelino da Romano, nel ‘700 fu adibita, per decreto del Senato veneziano, a osservatorio astronomico dell’Università di Padova; con tale funzione è ancora oggi impiegata dall’Istituto Nazionale di Astrofisica.
Vi aleggia, insomma, il fantasma di Galileo che, vissuto nel ‘600, non può aver utilizzato una torre adibita a specola nel ‘700. Del resto, nei corridoi hogswartiani dell’Università egli non è un personaggio storico dotato di una sua coerenza e consistenza, ma una categoria dello spirito, un’incarnazione dell’orgoglio più o meno sano, più o meno ben riposto.
Così, potremmo definire la Specola “Torre di Galileo” così come tra docenti, ricercatori e studenti si parla comunemente della Cattedra di Galileo, gelosamente custodita nella Sala dei Quaranta ma attribuita allo Scienziato solo da una tradizione probabilmente apocrifa. Durante la cerimonia di inaugurazione di un Anno Accademico, l’Ordinario di Diritto Romano proclamò, in tono semiserio, che per laurearsi gli studenti avrebbero dovuto presentare non solo il libretto degli esami, ma anche l’attestazione di aver reso omaggio alla Cattedra. In tal modo, diede il la al Rettore per lanciarsi in un discorso di impressionante sicumera in cui Padova veniva accostata a Oxford e Harvard e si esprimevano fortissime riserve sui poli didattici decentrati, aperti dall’Autorità accademica solo obtorto collo, piegandosi alle generosissime offerte di una Fondazione bancaria.
Più di recente, è stata aperta all’interno dell’Università una Scuola Galileiana di Studi Superiori che, nelle intenzioni, dovrebbe essere la controparte patavina della Normale di Pisa – in tal senso le auguro, naturalmente, la miglior fortuna.
Insomma, a Padova si grida il nome di Galileo come faceva Freddie Mercury: come un urlo esistenziale, un’affermazione di sé, uno strapparsi le viscere e levarle al cielo, sfidando gli antichi dei degli aruspici.
Magnificoooo!
Stan