Patriot

Mia cara Berenice,

in questi giorni, i missili antimissile di fabbricazione statunitense Patriot sono i pedoni su una scacchiera. Patriot americani da schierare a Kiev, Patriot tedeschi schierati in Polonia da trasferire in Ucraina… forse, o forse no.

Un sistema d’arma che ha retto bene il corso del tempo, tanto da richiamare alla memoria le vecchie guerre dell’Occidente e della NATO. Fu ai tempi della guerra del Kosovo, credo, che venne pubblicata una vignetta del notissimo caricaturista Forattini. Ritraeva un politico della Prima Repubblica, forse Andreotti in persona, in elmetto e mimetica. Interrogato da un giornalista su come l’Italia si sarebbe difesa da eventuali attacchi della Serbia, rispondeva convinto: “Con i nostri Patriot!”

La tematica della difesa dai proiettili aerei ci riporta anche al ruolo nella guerra in Ucraina di Israele, lo Stato che possiede probabilmente il più avanzato sistema di difesa al mondo, la famosa Cupola di Ferro che ha neutralizzato quasi completamente gli attacchi di Hamas dalla Striscia di Gaza. Inizialmente, Israele ha tentato, senza dubbio con la mediazione americana, di accreditarsi come mediatore, facendo leva sui rapporti costruiti con la Russia durante la guerra in Siria.

Si è poi ritirato in seconda linea, per una serie di fattori facili da intuire. La militanza nel campo occidentale. L’instaurarsi dell’Asse Mosca-Teheran. L’indebolimento della Russia anche in Siria, evidenziato dalla recente offensiva turca contro il Kurdistan.

Nel frattempo, sembra che la Russia abbia bombardato Kiev con missili nucleari su cui erano state montate testate convenzionali: una minaccia o semplicemente stanno finendo i normali missili da crociera?

A proposito di scorte, l’Italia viene citata spesso come uno dei Paesi NATO ad averne ancora di capienti. Li abbiamo, “i nostri Patriot”?

Secondo il sito istituzionale dell’Esercito Italiano, schieriamo tre sistemi di artiglieria contraerea: l’italo-francese SAMP/T, l’autarchico Skyguard-Aspide e il celeberrimo portatile Stinger. Nonostante l’usuale diligenza dei militari nell’aggiornare i siti, non mi aspetto naturalmente che il quadro sia completo, se non altro per ragioni classificatorie o per l’esistenza di Armi diverse dall’Esercito, come l’Aeronautica e la Marina. L’unica certezza è che, anche nel battezzare i sistemi d’arma, l’italiano rende molto di più dell’inglese.

Un sibilante saluto.

Stan

Sulla giurisdizione penale sui militari americani di stanza in Italia

Mia cara Berenice,

nella notte tra sabato 20 e domenica 21 agosto, una soldatessa americana di stanza nella base di Aviano, nell’Italia nordorientale, ha investito e ucciso un quindicenne del posto. Risultata positiva al test alcolemico, la militare è indagata dalle Autorità italiane per omicidio stradale e si trova agli arresti nel suo alloggio nella base.

Ora la Procura locale, la famiglia della vittima e l’opinione pubblica si chiedono se la presunta responsabile verrà processata in Italia o negli Stati Uniti. La memoria di molti, probabilmente, va al famigerato caso del Cermis, quando un aereo dei marine decollato sempre da Aviano, volando a quota troppo bassa, tranciò il cavo di una funivia uccidendo venti persone di varie nazionalità. Processato da una Corte Marziale americana in Carolina del Nord, l’equipaggio venne clamorosamente assolto, salvo subire in seguito sanzioni penali e amministrative per capi d’accusa minori.

La materia è regolata dall’Accordo sullo Stato delle Forze (Status of Force Agreement – SOFA) della NATO, stipulato a Londra nel 1951.

Tendenzialmente, in base all’articolo 3 la giurisdizione è italiana, in quanto la soldatessa non ha commesso il reato nell’esercizio delle sue funzioni o ledendo esclusivamente beni giuridici di pertinenza americana.

Ci sono, però, due importanti caveat.

Sempre in base all’articolo 3, gli Stati Uniti hanno diritto di chiedere all’Italia di rinunciare all’esercizio della sua giurisdizione per motivi di “particolare importanza”; l’Italia non è tenuta ad accogliere la richiesta, ma deve “valutarla in modo benevolo”. Nella prassi, le Autorità americane presentano tale richiesta al Ministero della Giustizia italiano. Non è chiaro se quest’ultimo sia tenuto a motivare la sua decisione e se quest’ultima sia sindacabile.

Inoltre, in base all’articolo 5, gli Stati Uniti non sono tenuti a consegnare la soldatessa all’Italia finché quest’ultima non sia stata, appunto dall’Italia, incriminata (“charged” nel testo inglese, “imputato formalmente” nel testo della legge di ratifica italiana). Trasposto nell’ordinamento italiano, il concetto anglosassone di incriminazione corrisponde probabilmente al rinvio a giudizio, che richiede la chiusura delle indagini preliminari (complicate in questo caso dall’elemento internazionale) e generalmente un’udienza preliminare: tempi lunghi, insomma.

In un momento storico in cui la Russia accusa l’Europa di essere una colonia americana, il Ministro della Giustizia che verrà nominato dopo le elezioni potrebbe anche respingere la richiesta americana di rinuncia all’esercizio della giurisdizione. Le pressioni di Washington, tuttavia, potrebbero essere forti, perché per l’omicidio stradale l’articolo 589-bis del Codice Penale prevede, se il guidatore era in stato di ebbrezza alcolica, la pena della reclusione da otto a dodici anni.

Dall’altra parte, questa bizzarra fattispecie introdotta nel 2016 potrebbe essere un asso nella manica della Procura, qualora il Ministero della Giustizia decidesse di rinunciare all’esercizio della giurisdizione. L’omicidio stradale è configurato e articolato in una casistica piuttosto insolita che potrebbe farlo ritenere non coincidente all’homicide, murder o manslaughter americano. Ebbene, in base all’articolo 2 del SOFA, se il reato è previsto dalla legge italiana, ma non da quella americana, sussiste la giurisdizione esclusiva italiana, senza apparente possibilità di rinuncia da parte del Ministero della Giustizia, prevista solo per la distinta ipotesi di giurisdizione concorrente, ma primariamente italiana (“primary right to exercise jurisdiction”).

Staremo a vedere.

Un saluto.

Stan

NATO, UE e cerchi concentrici

Mia cara Berenice,

mai si è parlato tanto di NATO come in queste settimane, ed è quindi curioso, per un giurista come me, leggere il Trattato del Nord Atlantico e non trovarvi traccia della relativa Organizzazione.

L’articolo 3 sembra anzi escludere ogni collaborazione strutturata: “Al fine di raggiungere più efficacemente gli obiettivi del presente Trattato, le Parti, separatamente e congiuntamente, in continua ed efficace autonomia e mediante l’assistenza reciproca, mantengono e sviluppano la loro capacità individuale e collettiva di resistere a un attacco armato”.

L’articolo 9, tuttavia, prevede, se non un’organizzazione, quantomeno degli organi: un Consiglio e organismi ausiliari istituiti dal medesimo, tra cui obbligatoriamente un Comitato di Difesa.

Da questo seme è nata una vera foresta di enti, organi e uffici, tra cui una Divisione Informazioni e Sicurezza, un Tribunale Amministrativo, uno Stato Maggiore, diversi Comandi e Agenzie controllate.

Giuridicamente, tuttavia, la natura destrutturata dell’accordo non cambia, tanto è vero che la Francia per un lungo periodo si è ritirata dall’Organizzazione, pur restando Parte del Trattato. Proprio per questo motivo, negli anni ’60 il Comando Supremo e la sede centrale della NATO si sono spostati da Parigi a Bruxelles.

Insomma una palla di gomma elastica che sta mostrando la sua duttilità anche in occasione della crisi ucraina. Da una parte, alcuni importanti Paesi dell’Organizzazione avrebbero offerto a Svezia e Finlandia garanzie di sicurezza interinali, in attesa dall’ammissione formale da parte del Consiglio Atlantico. Dall’altra, la Russia ha liquidato la domanda d’adesione di Stoccolma e Helsinki come irrilevante, sostenendo che i due Paesi nordici sarebbero già di fatto integrati nell’Organizzazione.

Qualcosa di simile sta accadendo sul fronte europeo, dove la Francia ha proposto di ricreare una Comunità Europea aperta a Gran Bretagna e Ucraina, dopo che la storica CE è stata sciolta dal Trattato di Lisbona.

Insomma, dal sasso gettato da Mosca si allargano una serie di cerchi concentrici nello stagno.

Un paludoso saluto.

Stan

Alfabeti

Mia cara Berenice,

c’è l’alfabeto italiano, snocciolato, insieme a nozioni spicciole di geografia, agli sportelli o agli operatori telefonici: A di Ancona, B di Bari, C di Como, D di Domodossola, E di Empoli, F di Firenze, G di Genova, H di Hotel, I di Imperia, L di Livorno, M di Milano, N di Napoli, O di Otranto, P di Palermo, Q di Quadro, R di Roma, S di Savona, T di Torino, U di Udine, V di Verona, Z di Zara.

C’è l’alfabeto inglese che ti fanno cantilenare alle elementari: A B C D E F G H I J K L M N O P Q R S T U V W X Y Z.

C’è l’alfabeto fonetico NATO che i più hanno imparato al cinema: Alfa, Bravo, Charlie, Delta, Echo, Foxtrot, Golf, Hotel, India, Juliet, Kilo, Lima, Mike, November, Oscar, Papa, Quebec, Romeo, Sierra, Tango, Uniform, Victor, Whiskey, X-Ray, Yankee, Zulu. Chissà se Mike e Juliet hanno ballato un bel tango, alla fine.

C’è l’alfabeto greco che ti inculcavano al Ginnasio, insieme alla differenza fra vocali chiuse e aperte: alfa, beta, gamma, delta, epsilon, zeta, eta, theta, iota, kappa, lambda, mi, ni, xi, omicron, pi, rho, sigma, tau, hypsilon, phi, chi, psi, omega. Roba sacra, da misteri eleusini, e solo una pandemia e la burocrazia dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, messe insieme, potevano alterarlo: via la “ni”, troppo simile a “new”; via la “xi”, troppo identica al nome del Presidente cinese.

C’è l’alfabeto Morse, riesumato da “The French Dispatch” (USA-Germania, 2021), che ho visto proprio ieri. No, tu non vederlo. Ufficialmente, perché è troppo simile all’inarrivabile “Grand Budapest Hotel” (USA-Germania, 2014). Ufficiosamente, perché mi guarderesti fisso negli occhi e mi chiederesti a bruciapelo: “Ti è piaciuta, eh, Léa Seydoux che alternava il nudo integrale all’uniforme da secondina?”

C’è l’alfabeto khmer, così complicato che in Cambogia tutti usano i messaggi vocali. No, non sto cercando di cambiare argomento.

Uno svicolante saluto.

Stan