No bis nobis

Mia cara Berenice,

ieri sono stato a un concerto di beneficenza a Centocelle. In una chiesa parrocchiale, davanti all’altare, era stato collocato un pianoforte di inizio ‘900: più antico, celiò il giovane pianista, di alcuni dei brani che vi sarebbero stati suonati. Un microfono posizionato sulla cassa trasmetteva la musica ai finanziatori collegati da remoto: un concerto di beneficenza ibrido.

Eseguito l’ultimo pezzo, il pianista si è alzato, si è inchinato e ha lasciato, per così dire, il palco. Il parroco ha preso la scena e gli ha fatto tributare un ulteriore applauso.

“Nessuno chiede il bis?” Ha mormorato qualcuno tra il pubblico.

Nessun bis. Te Deum laudamus. Non che il ragazzo avesse suonato male – non sarei nemmeno in grado di stabilirlo -, ma il bis automatico e obbligatorio è diventato una piaga, come la mancia obbligatoria negli USA per l’ignaro turista europeo.

Molti anni fa, in Veneto. Altra chiesa, altro concerto. Nessuna beneficenza, un saggio di violino. Tre o quattro ragazze in abito da sera. Suonano. Alla fine, il direttore della scuola (o almeno credo, di certo non era il parroco) si affacciò al leggio.

“Direi di chiedere un bis,” suggerì.

Fu l’epilogo triste di una serata già non esaltante.

Mi avevi accennato, tempo fa, a una codificazione del protocollo che un apposito comitato starebbe svolgendo, lì a Vienna. Sarebbe possibile introdurre il divieto di bis forzoso?

Un riconoscente saluto.

Stan

Va, pensiero

Mia cara Berenice,

stamane, il traffico a ovest del Tevere era letteralmente pietrificato, non so per quale motivo, ammesso che ne serva uno.

Abbiamo fluttuato sull’oceano di auto così a lungo che, all’improvviso, una donna si è messa a cantare canzoni della sua terra natia, mi è parso in portoghese.

Mi è tornato in mente il Prof. B., il mio insegnante di francese delle medie. Quando qualcuno si esibiva in uno strafalcione particolarmente sconfortante, sospirava “Chantons” e intonava qualche canzone francese.

Un caro amico, per commentare il lungo corteggiamento senza speranza di un collega avvocato, usava invece “Un monsieur attendait” di Georges Ulmer.

Nella scena iniziale del film “Tutta la vita davanti” (Italia, 2008) la protagonista, mentre si reca in autobus al lavoro precario in un call center, in un sogno a occhi aperti vede passeggeri e passanti esibirsi in un surreale musical.

Nel ciclo letterario e cinematografico di Don Camillo, il protagonista usa le campane, i megafoni della chiesa e il disco della canzone del Piave per disturbare i comizi comunisti; naturalmente, viene abbondantemente ricambiato con l’esecuzione dell’Internazionale e altri brani proletari.

Nel celebre film “C’era una volta il West” (Italia, 1968) di Sergio Leone, Charles Bronson interpreta Armonica, un pistolero così soprannominato per la singolare tecnica che usa per innervosire gli avversari: “Se lo vedi te lo ricordi, quando dovrebbe parlare, suona… e quando dovrebbe suonare, parla!”

Un fischiettante saluto.

Stan

Ninnananna

Mia cara Berenice,

ieri sera sono stato con M. a un concerto jazz e blues dalle sue parti, in una traversa di via della Conciliazione. Prendendo posto, abbiamo notato una ragazza con un passeggino.

“Probabilmente la moglie o la compagna di qualche membro della band… ma come farà il bambino a sopportare il rumore?”

Sì, non ci siamo fatti gli affari nostri, lo ammetto, ma l’interrogativo sorgeva spontaneo. Il locale era piccolo e raccolto; viene usato anche come teatro, perciò l’acustica doveva essere potente. Sul palco, avvolta di luce dorata, incombeva la tacita minaccia di una batteria.

Poco dopo, mentre la presentatrice introduceva il concerto, la ragazza ha estratto il bambino dalla culla e gli ha infilato un paio di grosse cuffie di stoffa su misura e, mentre il padre si esibiva sul palco, il figlio gli ha fatto da contraltare con un impeccabile tacet.

L’episodio mi ha riportato a tanti anni fa, in un fumoso jazz club di C., con D. Altra ragazza ai tavolini, altro passeggino. Se entrarono in azione delle cuffie non lo ricordo, ma la madre si infilò un chiodo, saltò sul palco e si impossessò del microfono, i neri capelli corti, bellissima.

Ninna nanna, ninna o, questo bimbo a chi lo do.

Stan

P.S.: Non mi sono addormentato durante il concerto.

Fine orecchio musicale

Mia cara Berenice,

qui a Bruxelles è tempo di feste virtuali.

Prima quella della mia Unità, poi quella dei funzionari nazionali distaccati presso la Commissione.

Questi ultimi hanno organizzato un quiz che contemplava una sezione musicale, così facendo emergere la mia totale, assoluta, congenita mancanza di orecchio.

Ricordi quando, per fare colpo, ti portai a quel concerto di pianoforte nei Fori Imperiali e mi addormentai, costringendoti a dare di gomito?

Bene, ti basti sapere che le canzoni da indovinare erano tutte anglosassoni, eppure io, in un caso, diedi come soluzione “Fatti mandare dalla mamma” di Gianni Morandi.

Pare che anche Caterina la Grande soffrisse del mio stesso orecchio pigro.

Mi chiedo se fosse un handicap più grave ai suoi tempi o in quelli della mia adolescenza, quando i miei compagni di liceo si accapigliavano per stabilire se il primato sulla Cristianità spettasse agli Oasis o ai Blur.

C’era a T., sul lungofiume, un famoso negozio di CD e vinili. Devo ammettere che quei luoghi erano e restano imbevuti di un’aura a cui perfino io ero, e sono, sensibile. A T., per l’appunto, mi aggiravo fra le rastrelliere di CD, rimirando copertine a caso in attesa che D. finisse la sua esplorazione, quando mi imbattei di colpo nella bellissima sorella di un mio amico che mi sussurrò all’orecchio: “Non dire ai miei che mi hai visto qui”.

Se non è magia questa…

Un saluto andante.

Stan