Agricoltura e mercato

Mia cara Berenice,

il Primo Ministro Narendra Modi, l’uomo forte dell’India, è stato costretto dalle proteste dei contadini a ritirare il pacchetto di leggi che componevano la sua ambiziosa riforma agraria, finalizzata a liberalizzare un settore fortemente regolamentato e sussidiato.

Bizzarramente, il tentativo di Modi non è nemmeno stato accennato in contesti talvolta associati al liberismo, come Unione Europea e Stati Uniti.

Nell’UE, la Politica Agricola Comune (PAC) vale quasi 60 miliardi l’anno, contro i poco più di 100 del bilancio generale delle Istituzioni.

Negli Stati Uniti, il Ministero dell’Agricoltura federale spende 450 miliardi l’anno. Una cifra non stellare in un bilancio federale misurato in triliardi, ma che comunque ne fa uno dei Ministeri più ricchi, preceduto solo da Tesoro, Salute, Difesa, Servizi Sociali, Lavoro e Istruzione, surclassando nettamente Trasporti, Edilizia, Sicurezza Interna, Esteri, Energia, Commercio e Giustizia, nonché la NASA e l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente.

Agricoltura allergica al mercato, dunque? Verrebbe da dare senza esitazione una risposta affermativa, ricordando storie come quelle della United Fruit in America Latina o quelle, più recenti, sull’accaparramento di terre (land grabbing).

Eppure, ci sono storie anche diverse.

Quella dei contadini sovietici, strenui difensori della piccola proprietà e imprenditoria, fino a costringere Lenin a varare la Nuova Politica Economica e Stalin una delle sue più bestiali campagne di repressione.

Quella dei braccianti italiani che ottennero, nel secondo dopoguerra, la distribuzione delle terre.

Quella dei contadini vietnamiti che, secondo molti, non sarebbero passati armi e bagagli al Viet Cong, se avessero strappato al Governo di Saigon una riforma agraria decente e una redistribuzione del latifondo privato ed ecclesiastico, prosperato all’ombra dell’Amministrazione coloniale francese.

Il rapporto sullo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura adottato dalla FAO nel 2020 è tutto incentrato sulla crisi idrica e, pur riaffermando l’ovvia importanza delle politiche pubbliche, non sembra invocare misure statali invasive. Un altro rapporto settoriale del 2012, lungi dalla scacciare gli investitori stranieri come mercanti dal tempio, li incoraggia a coinvolgere nelle loro filiere gli agricoltori locali.

Che dire, poi, delle antichissime fiere agricole o dell’assiduità dei contadini, anche dopo la pensione, ai mercati locali?

Un sacchetto frusciante di uova? Fresche fresche.

Stan

Apologia delle influencer

Mia cara Berenice,

l’Italia è la Patria delle influencer, dato ci gloriamo di aver dato i natali a Chiara Ferragni. Infatti, qui due cose vanno di moda: fare l’influencer e dare addosso alle influencer.

Tempo fa, un albergatore si guadagnò il suo quarto d’ora di fama sui social con una durissima requisitoria contro una di queste fanciulle, rea di aver chiesto una camera gratis per il fine settimana in cambio di visibilità sul suo canale. Naturalmente, fu una levata di scudi virtuali intorno al titolare, una vera testuggine.

Per come la vedo io, la ragazza aveva semplicemente offerto un servizio pubblicitario in cambio di un corrispettivo in natura tutto sommato modesto e fu poco professionale trattarla in quel modo. Ancor peggio divulgare ai quattro venti la dura risposta: non è forse spregiudicata tattica da influencer, questa?

In ogni caso, durante la quarantena queste fanciulle sono le uniche a dare il buon esempio, applicando alla lettera quando suggerito dagli psicologi: continuare a vestirsi di tutto punto, fare attività fisica e di altra natura, tenere alto il morale. Eccole, abbigliate e truccate di tutto punto, insegnare al loro affezionato pubblico come tenersi in forma fra le mura domestiche, come truccarsi in modo impeccabile, come cucinare e servire piatti elaborati. Sorriso e occhi sfavillanti, in posa davanti alle webcam come prima che tutto cominciasse: non è servizio pubblico, questo?

Da Novedrate, una nota Università telematica ha attivato un corso di laurea di I livello con esami in “estetica della comunicazione, sociologia dei processi economici, linguaggi dei mezzi audiovisivi, diritto dell’informazione, social media marketing”.

Insomma, per parafrasare Giulio Andreotti o meglio la sua incarnazione cinematografica, “la questione è un po’ più complessa”. C’è influencer e influencer. Ci sono le classiche Instagrammer. Ci sono le YouTuber, generalmente meno legate al mondo della moda, ma non sempre (vedi alla voce “haul”). Ci sono le Twitcher che si distinguono dalle YouTuber in quanto i loro video sono in diretta e generalmente a sfondo videoludico. C’è TikTok, specializzato in video brevi e spesso a tema musicale. Su vari social ci sono le story che – citando stavolta Fabrizio De André – vivono un giorno solo come le rose. Infine, sicuramente c’è qualche ulteriore variabile che mi sfugge, avendo io ormai – digitalmente parlando – un piede nella fossa.

Parlami delle influencer austriache. Che media usano? Prediligono il tedesco o l’inglese? Fanno haul di costumi tradizionali tirolesi? Ballano lo Schuhplattler?

#uncarosaluto

@Stan