Luna di marzo

Mia cara Berenice,

non so come vadano le cose in Austria, ma qui in Italia la variabilità del tempo di marzo è proverbiale.

Ieri faceva un caldo tale che in ufficio sono dovuto restare in maniche di camicia.

Stamattina era coperto, tirava vento e spilli di pioggia ti pungevano il viso, relegando l’ombrello a un’inutilità che non lo contraddistingueva dai tempi del Belgio. Ora, mentre ti scrivo, un sole dorato, dopo aver circonfuso le montagne, si sta allungando sul quartiere.

Io stesso ho avuto comportamenti imprevedibili, almeno per i miei parametri. Nel locale in cui pranzo quasi sempre il sabato e quando, come oggi, lavoro da remoto, i camerieri scherzano su quanto sono abitudinario. Oggi, subito dopo aver mandato giù il solito caffè al pistacchio, anziché tornarmene a casa o andare a passeggiare a Villa Pamphili, mi sono tuffato nel ventre del quartiere, tra le palazzine e i palazzi incastonati sull’erta, giù giù fino ai Quattro Venti di Pasolini, per poi risalire con il tram da Ponte Bianco.

Nel mondo anglosassone, a quanto mi consta, queste piccole alterazioni del comportamento si attribuiscono alla luna piena. “Keen Eddie” è una serie televisiva relativamente poco nota, su un poliziotto americano distaccato presso Scotland Yard. Il protagonista divide casa con una giovane inglese, una sfolgorante Sienna Miller. Il loro rapporto è turbolento, ma, in una puntata di luna piena, diventa improvvisamente e castamente affettuoso, ai limiti dello smielato.

La leggenda del lupo mannaro, del resto, è ben più antica dell’anglosfera, e prova a convincere mio padre o qualche altro contadino delle sue parti a compiere con la luna calante un’operazione per cui la saggezza popolare prescrive la luna crescente, o viceversa.

Un latteo saluto.

Stan

Una serata romantica

Mia cara Berenice,

ti ricordi quella sera, ai Fori Imperiali, in cui ti recitai “Cordova” di Federico Garcia Lorca, al chiaro di luna?

Tu stavi assisa, in posa statuaria e purissimamente classica, su un capitello smozzato, ed eri così furiosa con me che non osai farti notare l’inopportunità di sederti su un capitello. Il tuo nasino, sprezzantemente rivolto all’insù, il mento delicato sorretto dalla manina affusolata, disegnavano con mano ferma e sicura la loro silhouette, alla luce della luna.

Tu eri arrabbiata, convinta che avessi dato eccessivo sfoggio di cultura storica e senso dell’umorismo con quella guida dal caschetto biondo… nugae, naturalmente.

Così, ti presi da parte staccandoci dal gruppo e ti recitai “Cordova” di Federico Garcia Lorca, a simbolo del tuo cuore lontano e irraggiungibile e del mio struggimento.

Ahi, che strada lunga!
Ahi, la mia brava cavalla!
Ahi, che la morte mi attende
prima di giungere a Cordova!

Fingesti di inferocirti e di equivocare: “Sarei io la cavalla?” Scrollasti il musetto, appunto come una cavallina olandese a sangue caldo; ma poi facesti un sorrisetto, con la luna sulle labbra.

Perché mi viene in mente proprio ora?

No, non perché mi sia ulteriormente intrattenuto con qualche graziosa ragazza erudita di storia romana, nella cornice di una finestra di marmo.

È solo che, durante l’abituale lettura mattutina dei giornali, mi sono imbattuto nell’ennesimo articolo sulle pensioni della mia generazione e, ogni volta che qualcuno ha l’audacia di sollevare questo argomento, penso a “Cordova” di Federico Garcia Lorca e me la recito.

¡Ole!

Stan