Cinquanta avvocati a Calena

Mia cara Berenice,

ti ho da poco parlato dell’attualità di Brancati, ora devo intrattenerti su quella di Jovine. Ambientato in un Molise quasi feudale, “Le terre del Sacramento” narra l’epopea di paeselli sperduti e miseri, eppure pullulanti di avvocati, pretori, ufficiali giudiziari, magistrati, laureandi in legge.

Il libro sfata, almeno parzialmente, l’idea che abbiamo dell’Italia fino al secondo dopoguerra, di un Ancien Régime in cui gli studi erano aperti a pochissimi, ma a quei pochissimi garantivano ricchezza e prestigio. I figli del popolo dotati di ingegno, spesso, riuscivano a istruirsi, grazie a reti di protezione sociale informali o alla scorciatoia del seminario. Il risultato, tuttavia, non era l’elevazione sociale, ma un sottobosco di intellettuali e professionisti impoveriti, mentre ad appropriarsi dei latifondi di un’aristocrazia decadente e inetta sono fattori, intrallazzatori, usurai, speculatori.

Viene il dubbio che chi ha premuto per la democratizzazione dell’istruzione, negli anni ’60, ne abbia dipinto un quadro semplificatorio e irreale o, quantomeno, non abbia tenuto conto di un’economia arretrata nonostante il boom, poco idonea ad assorbire e valorizzare le risorse umane più qualificate. Un problema che, in buona parte, permane anche oggi, sotto il dominio delle piccole, medio e microimprese – onorevolissime, ma che dovrebbero essere affiancate dalle più classiche, hollywoodiane, fantozziane mega-ditte.

Con osservanza.

Stan

La ritirata di Russia

Mia cara Berenice,

in una mia precedente, ti avevo già parlato del Corpo degli Alpini, la cui Associazione Nazionale è ramificata e onnipresente soprattutto al Nord, prestando assidui e indispensabili servizi di volontariato e protezione civile.

Ogni anno, il Corpo o l’Associazione organizzano un’Adunata Nazionale in una località italiana diversa. Quella di quest’anno a Rimini, coincidente con il 150° Anniversario del Corpo, risulta patrocinata dall’Esercito, dall’Associazione, dalla Regione Emilia Romagna, dalla Provincia di Rimini, dall’omonimo Comune e dalla Repubblica di San Marino, ed è stata funestata da una pioggia di denunce di molestie sessuali.

Prevedibilmente si è innescato, sulla stampa e nell’agone politico, il solito dibattito ossessivo e malsano – la questione esiste ed è di pubblico interesse, ma appunto per questo il relativo dibattito è sano in tanto in quanto contribuisca a risolverla. Essso ha avuto almeno il merito di riportare la mia attenzione su una Legge recentissimamente approvata a cui non avevo prestato la dovuta attenzione, pur stigmatizzandola distrattamente per il contenuto provvedimentale, da decreto ministeriale o protocollo d’intesa.

Parlo della Legge n. 44 del 5 maggio 2022, recante “Istituzione della Giornata nazionale della memoria e del sacrificio degli Alpini”.

Tale giornata si festeggerà il 26 gennaio “al fine di conservare la memoria dell’eroismo dimostrato dal Corpo d’armata alpino nella battaglia di Nikolajewka durante la seconda guerra mondiale, nonché di promuovere i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale”.

Nella citata battaglia, combattuta il 26 gennaio 1943 in Russia, il Corpo d’Armata Alpino e in particolare la Divisione Tridentina sfondarono l’accerchiamento dell’Armata Rossa, consentendo ai superstiti di rientrare in patria e impedendo almeno il completo annientamento del Corpo. Per ulteriori dettagli, ti allego la scheda ufficiale dell’episodio compilata dal Ministero della Difesa.

Bene, non sono certo schiavo del politicamente corretto, ma forse il Parlamento ha avuto un’idea infelice. Dal punto di vista strettamente militare, le truppe italiane in Russia combatterono eroicamente in rapporto agli scarsi e scadenti mezzi a loro disposizione e alle forze del nemico – ma non è un orgoglio nazionale mandare allo sbaraglio nella steppa dei soldati che, tecnicamente, restavano forze d’invasione.

Sarebbe interessante sapere se esista un nesso tra la calendarizzazione e l’approvazione di questa Legge e la crisi in Ucraina.

Un perplesso saluto.

Stan

Formulae

Mia cara Berenice,

non so come vadano le cose nella patria del Compromesso Costituzionale, ma, qui in Italia, si parla in modo praticamente ininterrotto dell’assoluta necessità di riforme. Ce lo dicono l’Unione Europea e l’OCSE, ce lo diciamo da soli continuamente.

Invece le riforme si susseguono, e vorticosamente.

Chiunque lavori nella Pubblica Amministrazione sa che il Codice gli Appalti cambia ogni sei mesi.

Nel solo anno in corso:

  • si è modificata la Costituzione per ampliare l’elettorato del Senato;
  • si è avviato il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza – che meriterebbe un triste discorso a parte;
  • si è istituita l’Agenzia per la Cybersicurezza Nazionale;
  • si è esercitata la facoltà, prevista dalla Convenzione di Montego Bay, di istituite una Zona Economica Esclusiva oltre le acque territoriali;
  • si è concesso un assegno temporaneo per i figli minori;
  • si è ratificato l’ennesimo Protocollo alla CEDU;
  • si è ratificata la Convenzione OIL contro le molestie e le violenze sul lavoro.

Questo tralasciando tutte le misure regionali o non legislative. Ad esempio, dopo anni di blocco delle assunzioni nel pubblico impiego, si stanno bandendo d’urgenza concorsi alluvionali che, per ragioni di speditezza, non prevedono nemmeno la prova orale.

Bada, ti sto parlando, nella generalità dei casi, di provvedimenti sinceri e non gattopardeschi, per nulla finalizzati al “facite ammuina” e al “cambiare tutto per non cambiare nulla”.

In molti casi, la radice del problema sta in una fiducia cieca nel potere della lex, le famosa “gride” del Manzoni, fatte stampare dai Governatori spagnoli “a sterminio dei bravi”. Radice profondissima, che ci riporta ai primi processi per formulas della Roma arcaica, dove il dibattito consisteva nella recita di vere e proprie formule magiche davanti al magistrato-sacerdote: bastava sbagliare, letteralmente, una sillaba per perdere la lite.

In Italia, probabilmente, manca una cultura serie della valutazione ex ante, in itinere ed ex post delle politiche pubbliche (policy), concetto ben più ampio di quello della legge che abbraccia l’iter decisionale, l’adozione della misura e, soprattutto, la sua attuazione.

Eppure anche a livello europeo, dove questa consapevolezza esiste ed è anzi ben codificata, riemerge, sospinta da diverse motivazioni, la fede nell’atto formale o anche solo scritto e ufficiale, benché privo di efficacia giuridica vincolante o perfino di base giuridica (orientamenti, linee guida, libri bianchi e verdi, etc.). La causa è facile da individuare, le Istituzioni europee sono, in gran parte, prive di poteri effettivi e devono pur mostrarsi occupate, in forte ed evidente analogia con le organizzazioni internazionali, grandi produttrici di risoluzioni, rapporti e raccomandazioni.

A loro volta, le Istituzioni internazionali ed europee irradiano una galassia di accademici e lobbisti che, spinta dalla medesima preoccupazione di mostrarsi occupata, attribuisce un’importanza e un’attenzione esagerate a iniziative, campagne e atti di cosiddetto “diritto morbido” (soft law), perpetuando inconsapevolmente la millenaria tradizione di Tizio che, al cospetto del Pontefice Massimo o del Pretore Urbano, toccando con una verga il bene o lo schiavo rivendicato, snocciolava il carmen.

Berenix mea est.

Stan

Sulla concessione della cittadinanza agli stranieri

Mia cara Berenice,

in questi giorni, la Francia ha deciso di accelerare l’iter di concessione della cittadinanza agli stranieri che hanno combattuto sul fronte della pandemia in qualità di lavoratori essenziali. L’edizione italiana dell’Huffington Post titola: “E noi, che facciamo?”

Ai sensi della Legge sulla Cittadinanza del 1992, i casi in cui lo straniero o l’apolide possono conseguire la cittadinanza italiana sono vari, ma uno dei più frequenti è fra quelli previsti all’articolo 9: straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica, tre anni se vi è nato.

Lo straniero deve conoscere la lingua italiana a un livello almeno B1, pagare un contributo di 250 euro e prestare, entro sei mesi dalla notifica del decreto di concessione, giuramento di essere fedele alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi dello Stato.

Il decreto di concessione, qui sta il busillis. Esso richiede la firma del Presidente della Repubblica, sentito il Consiglio di Stato, su proposta del Ministro dell’interno. Non è difficile immaginare quali possano essere i tempi: infatti, la legge stessa prevede per la conclusione del procedimento un termine di trentasei mesi. Tre anni.

In pratica, il diritto procedurale nega o almeno differisce in modo sproporzionato quando riconosciuto dal diritto sostanziale, che invece dovrebbe attuare. Un gioco dei bussolotti in cui la mano sinistra toglie quello che la mano destra ha dato.

Dispiace che il dibattito sulla concessione della cittadinanza non verta su questi aspetti tecnici, anziché sul vago concetto di jus soli. Quest’ultimo, infatti, può essere puro e temperato; se temperato, può esserlo in misura maggiore o minore. Il termine di dieci anni, previsto dalla legge per chi non è nato in Italia, può essere considerato troppo breve o troppo lungo, a seconda delle insindacabili preferenze. Il termine aggiuntivo di tre anni, viceversa, è una pura e semplice presa in giro che mina la credibilità dello Stato agli occhi del nuovo cittadino, rischiando di vanificare il giuramento di fedeltà parimenti richiesto dalla legge.

Sit verbum vestrum: est, est; non, non.

Un evangelico saluto.

Stan