Cinquanta avvocati a Calena

Mia cara Berenice,

ti ho da poco parlato dell’attualità di Brancati, ora devo intrattenerti su quella di Jovine. Ambientato in un Molise quasi feudale, “Le terre del Sacramento” narra l’epopea di paeselli sperduti e miseri, eppure pullulanti di avvocati, pretori, ufficiali giudiziari, magistrati, laureandi in legge.

Il libro sfata, almeno parzialmente, l’idea che abbiamo dell’Italia fino al secondo dopoguerra, di un Ancien Régime in cui gli studi erano aperti a pochissimi, ma a quei pochissimi garantivano ricchezza e prestigio. I figli del popolo dotati di ingegno, spesso, riuscivano a istruirsi, grazie a reti di protezione sociale informali o alla scorciatoia del seminario. Il risultato, tuttavia, non era l’elevazione sociale, ma un sottobosco di intellettuali e professionisti impoveriti, mentre ad appropriarsi dei latifondi di un’aristocrazia decadente e inetta sono fattori, intrallazzatori, usurai, speculatori.

Viene il dubbio che chi ha premuto per la democratizzazione dell’istruzione, negli anni ’60, ne abbia dipinto un quadro semplificatorio e irreale o, quantomeno, non abbia tenuto conto di un’economia arretrata nonostante il boom, poco idonea ad assorbire e valorizzare le risorse umane più qualificate. Un problema che, in buona parte, permane anche oggi, sotto il dominio delle piccole, medio e microimprese – onorevolissime, ma che dovrebbero essere affiancate dalle più classiche, hollywoodiane, fantozziane mega-ditte.

Con osservanza.

Stan

Periodi concitati

Mia cara Berenice,

sono nel mezzo di un periodo complicato, e non mi riferisco alla perifrastica in una subordinata di Cicerone.

I periodi complicati non devono spaventare, sono una semplice questione statistica. Una volta, credo di avertelo già raccontato, andai con due amici al casinò di Nova Gorica. Puntarono su due numeri, vinsero due volte di fila. Poco, ma nemmeno pochissimo. Talmente incredibile, quel filotto, che temevo saremmo stati fermati da due gorilla sloveni e accompagnati nel locale caldaie per essere interrogati dal Direttore, come in “Casinò” (USA, 1995).

Esattamente allo stesso modo, può succedere che si punti quindici volte sul rosso e quindici volte esca il nero.

In questo periodo, il Dipartimento è scosso dai flutti da una tumultuosa organizzazione, una pratica ulcerosa genera un’enorme dose di lavoro, trattative sindacali hanno sospeso temporaneamente l’erogazione di determinate voci accessorie del salario, un Direttore ronza intorno alla mia comoda stanza per appropriarsene. Il mio Bancomat funziona a singhiozzo; non è smagnetizzato, il problema è nei sistemi informatici della banca e sospetto c’entrino qualcosa gli attacchi di pirateria informatica russi. Ultimo ma non ultimo, sono stato convocato a quel famoso esame orale e la Commissione ha adottato alcune determinazioni che ne sovvertono vistosamente il programma.

In compenso, con uno scatto di reni ho chiuso la prima stesura e la revisione di “Steamlove”, inviando l’incipit al concorso letterario; un secondo incipit l’ho spedito a un bando per racconti brevi. Tornando a “Steamlove”, la revisione mi è stata insolitamente lieve, addirittura piacevole.

Scusa se è poco.

Stan

Un milione di parole

Mia cara Berenice,

il contatore dell’agenzia già americana, ora israeliana mio principale committente parla chiaro. Nel corso della mia carriera di traduttore, iniziata ufficialmente nel 2015 ma intensificatasi negli ultimi anni, ho tradotto oltre un milione di parole.

Un milione di parole: logorrea.

Uno di quegli interminabili convegni accademici o giuridici in cui ogni relatore riprende il medesimo tema funditus.

Una sessione parlamentare notturna in cui un deputato dell’opposizione parla senza mai fermarsi o sedersi, a scopo ostruzionistico.

Un biblico fiume di latte e miele.

Una cascata che abbraccia lo sguardo e assorda con il suo boato.

Una vecchia canzone cantata al Festival di Sanremo e trasmessa dalla RAI in bianco e nero: “Un milione di paroleeee…”

Il Corpus Juris Civilis o il Corpus Juris Canonici.

Le pezze per rendicontare un progetto europeo Interreg.

Le circunlocuzioni in antico giapponese curiale, quando devi spiegare ai tuoi sudditi che l’Impero ha perso la guerra e tu, discendente diretto della dea del sole Amaterasu, dovrai rinunciare agli onori divini.

Il rapporto alluvionale di una Sottocommissione dell’ONU che deve giustificare la sua esistenza e le sue prebende.

Forse però sono troppo cupo, in fondo è stato un vasto, morbido arazzo variegato e arlecchinesco, una fantasmagoria di donne, cavalieri, arme e amori, non priva di snodi drammaturgici memorabili: la cartella clinica in portoghese del bambino caduto in vacanza in Brasile, il catalogo di bustini e corsetti, i bugiardini dei prodotti naturopatici da non qualificare assolutamente come presidi medici.

No, ne è valsa la pena.

Ad majora.

Stan

La psicologa del lavoro

Mia cara Berenice,

questo racconto mette insieme vecchie reminiscenze di quando, da studente, lavoravo all’Istituto Nazionale delle Assicurazioni e la solita inimicizia tra me e la balneazione.

Un pruriginoso saluto.

Stan

LA PSICOLOGA DEL LAVORO

La direzione aveva deciso, a ragione o a torto, che la pandemia era finita. Il lavoro agile non era stato interamente abolito, si era piuttosto mantenuta e affinata la modalità ibrida introdotta dopo la prima campagna vaccinale. Ad esempio, i membri dei team erano stati invitati a lavorare in presenza negli stessi giorni della settimana, in modo da “massimizzare il team building”. La novità fu bene accolta. In fondo, significava la fine del sistema di turnazione, complicatissimo e che costringeva qualcuno a lavorare il lunedì o il venerdì. Certo, dal martedì al giovedì la stanza era di nuovo piena e non era mai stata propriamente comoda, per quattro persone e la giungla di piante di Valeria.

Per il momento, tuttavia, era il cameratismo a prevalere. Antonio entrò succhiando il cucchiaino del caffè.

“Buoni questi nuovi cucchiaini biodegradabili! Viene voglia di mangiarli!”

“Tu mangeresti anche le pietre. Sarebbe ora che ti mettessi a dieta”.

“A proposito, avete visto il pancino della nuova assunta? Piatto come una tavola”.

“Direi addirittura concavo”.

“Bella gnocca”.

“Io non ho capito che diavolo faccia”.

“Celeste dice che ieri ha fatto il giro degli uffici per presentarsi. Probabilmente oggi verrà anche da noi”.

“Bene. Sono curiosa di vedere questa gran bellezza”.

“Troppo buoni, troppo buoni!” Celiò una voce alle spalle di Antonio.

I presenti in stanza trasalirono, vedendo comparire la nuova arrivata che, dopotutto, dipendeva direttamente dal Direttore delle Risorse Umane.

“Ti chiediamo scusa,” sorrise diplomaticamente Marta, durante il giro di presentazioni. “Gli uffici sono fabbriche di pettegolezzi e poi… gli uomini li conosci”.

“Oh, man mano che mi vedono bene gli passerà l’entusiasmo,” si schermì modestamente Benedetta, la neoassunta.

“Non credo proprio,” commentò a bassa voce Valeria, facendo scorrere lo sguardo su quella cascata di capelli biondi e quel corpo flessuoso.

“Dunque, tu di cosa ti occuperai?” Intervenne Mauro.

“Sono psicologa del lavoro,” spiegò sibillina Benedetta, senza aggiungere altro.

Lo disse in tono così ultimativo che nessuno ebbe il coraggio di chiedere altro. Quando se ne andò, i commenti si concentrarono sul suo aspetto.

Qualche giorno dopo, le Risorse Umane diramarono una mail a firma di Benedetta in cui si annunciava che, “prima della pausa estiva”, l’azienda aveva organizzato una “giornata di team building in spiaggia”.

“In spiaggia?”

“Be’, se è in spiaggia…”

“Aveva fretta di farsi vedere in bikini…”

“Che ci farà fare? Beach volley?”

“Beach volley sarebbe carino”.

“Figurati, ci farà fare quelle cacate tipo che devi chiudere gli occhi e lasciarti cadere all’indietro?”

“E poi? Cadi sulla sabbia?”

“No, quello in coppia con te, che sta dietro di te, ti prende al volo e così ‘si crea un legame di fiducia’”.

“Ossignore…!”

“Io do fiducia a Benedetta”.

“Tu sei fuori controllo, arrapato come un quattordicenne… occhio a non farti licenziare”.

“Mezz’oretta con me in cabina e mi farà promuovere team leader”.

“Seh, boom!”

Quel venerdì, le Risorse Umane prenotarono uno stabilimento a B., un quaranta chilometri fuori città. I dipendenti ricevettero istruzioni per il concentramento nel parcheggio aziendale, dove trovarono dei pulmini a noleggio. La stagione balneare non era ancora nel vivo e non trovarono traffico eccessivo, il tempo era buono: insomma, tutto sembrava ben disposto.

A ogni stanza era stato assegnato un ombrellone, ma, prima che la gente si sistemasse troppo comodamente, Benedetta passò tra le sdraio e fece in modo di rimescolare i vari team. A quel punto, diede il via ad Amministratore Delegato, Direttore Operativo e Direttore delle Risorse Umane, che tennero tre imbarazzati e ingessati discorsi in filodiffusione.

Constatato che c’era molto da lavorare, Benedetta ricominciò la sua accanita ispezione. Verso mezzogiorno trovò Antonio disteso bocconi sul telo, il volto pingue così profondamente confitto nella sabbia da chiedersi come facesse a respirare.

Mentre Valeria, che era rimasta assegnata al suo ombrellone, rimirava la scena fumando una sigaretta dalla sedia a sdraio, Benedetta si portò di fronte alla nuca di Antonio e si chinò su di lui. Gli sta letteralmente puntando le tette in faccia, pensò Valeria.

“Antonio?” Chiamò Benedetta, con voce fin troppo dolce e carezzevole.

Antonio, che normalmente aveva il sonno di un paracarro, si svegliò di colpo e sollevò gli occhi sgranati. Gli colava la bava dalla bocca per il sonno scomposto, si rese istantaneamente conto che la cosa poteva essere fraintesa e si fece prendere dal panico, agitandosi e girando in cerchio come un grosso Terranova.

“Scu… scusa Benedetta… ho paura di… essermi assopito un attimo”.

“Non scusarti, Antonio, siamo qui per rilassarci. Ti ho svegliato perché ho notato una cosa”.

“C-cosa?”

“Sei piuttosto pallido… non prendi il sole spesso, giusto?”

“Sì… sai… ho le lentiggini… infatti ho dovuto mettere la crema cinquanta”.

“Hai fatto benissimo. Salute e sicurezza innanzitutto. Anzi, avresti dovuto segnalarmelo. Ma temo ti sia sfuggito un punto tra le scapole, qui”.

Benedetta posò il dito sottile e affusolato in un punto particolarmente sensibile della schiena di Antonio, che sussultò, anche perché effettivamente l’unghia curatissima della psicologa aveva grattato un alone rossastro di scottatura.

“Sì… sì… probabilmente… non ci sono arrivato”.

“E perché non hai chiesto a nessuno di spalmarti la crema sulla schiena”.

Antonio lasciò cadere la mascella, senza proferire verbo.

“La collaborazione e il gioco di squadra sono fondamentali, Antonio!” Concluse Benedetta, con un sorriso luminoso, prima di andarsene come era venuta.

Antonio rimase a fissare il vuoto, con la bocca aperta.

“Ti piaceva tanto?” Lo stuzzicò Valeria, espirando una boccata di fumo. “Ora te la tieni”.

Angels

Mia cara Berenice,

una pratica ereditaria richiede che io stipuli, entro fine mese, un atto notarile nelle Venezie, nelle quali peraltro io non ho in programma di risalire fino a Ferragosto almeno.

In questo caso, la procedura – invariata dai tempi prepandemici – prevede che si rilasci una procura notarile in Roma da inviare al Notaio veneto, di fronte al quale un mio rappresentante si presenterà a firmare.

Individuato uno Studio notarile a Monteverde, sono stato ricevuto in un’anticamera ingombra di fascicoli dalla classica factotum che conosceva a menadito prassi, prezzario e calendario del titolare. Ora il geometra che in Veneto sta seguendo la pratica scrive al Notaio di C., rivolgendosi “all’attenzione della signora E.”

A tutte le latitudini, evidentemente, i luoghi di lavoro sono custoditi dagli stessi angeli protettori.

La giovane segretaria dello studio associato in cui riceve il medico di base, sempre a destreggiarsi tra citofono, campanello, ricette cartacee, ricette elettroniche, eliminacode e agenda.

Le altrettanto giovani impiegate del commercialista che ti inviano le circolari e le notule, ti chiedono i documenti per la dichiarazione dei redditi, ti consegnano i faldoni.

Nelle fabbriche e nelle officine, l’impiegata che riceve i camionisti, firma le bolle, consegna i preventivi, incassa i pagamenti, emette le fatture, fissa gli appuntamenti.

Tornando indietro con la memoria, la giovanissima studentessa o lavoratrice che sempre stava accanto all’autista dell’autobus urbano o extraurbano, fornendogli puro e semplice supporto morale.

Un riverente saluto.

Stan

Teatro d’avanguardia

Mia cara Berenice,

grazie davvero per avermi fatto avere un biglietto per lo spettacolo della tua amica Batthyany-Strattmann al Teatro Verdi di Trieste, l’ho gradito enormemente. Ho trovato azzeccatissima, in particolare, la scelta di usare pallottole vere, l’impatto sul pubblico è stato evidente e anche il successivo intervento delle Autorità non ha fatto che dare ulteriore pubblicità all’iniziativa e alla causa palestinese.

Non mi preoccuperei eccessivamente dei seguiti legali, sono certo che la baronessina riceverà un trattamento benevolo, anche perché l’Italia è la patria del teatro d’avanguardia.

Non a caso, siamo stati noi a inventare il concetto di teatro permanente, con rappresentazioni che si tengono a tempo indeterminato e senza soluzione di continuità. Ad esempio, da mesi va in scena con questa modalità la tragicommedia “Il quaresimale estivo”. I personaggi sono un imprenditore – della ristorazione, dell’ospitalità o di altro ambito – e un giornalista, opinionista o influencer.

Il primo si lamenta dell’impossibilità di trovare dipendenti, incolpandone la disaffezione dei giovani per il lavoro o il reddito di cittadinanza.

Il secondo replica invocando l’equilibrio tra vita e lavoro, ed eccependo le pessime condizioni lavorative praticate in Italia, soprattutto sul fronte salariale e della parità dei sessi.

Il copione viene rimesso in scena all’infinito, con leggere varianti, allo scopo di suscitare nello spettatore un lento e progressivo senso di angoscia e straniamento esistenziale.

Sono certo che la tua amica troverà questa rappresentazione di estremo interesse, non appena verrà scarcerata.

Un saluto.

Stan

Profumo d’Oriente

Mia cara Berenice,

ricordi quando ti dissi di essere un traduttore – calcando un poco la mano per fare colpo – e tu mi sfidasti a declamare un certo discorso di Bismarck al Reichstag?

Facesti bene a stroncare il mio gallismo, anche perché quella del traduttore è una professione fantozziana.

Il cottimo più estremo, pagato un tot di centesimi a parola – ma se sei pagato a cartella o a ora, è peggio.

Proprio ieri pomeriggio riflettevo sulla testarda attitudine di clienti e agenzie a usare per le traduzioni i fogli di calcolo, progettati per tutt’altro e prevedibilmente inadatti, quando improvvisamente mi è piovuta sullo schermo la mail di una project manager, che chiameremo Kelly Hu in omaggio alla grande attrice americana.

Project manager, chi è costei? Si tratta di una traduttrice o ex traduttrice, assunta da un’agenzia per coordinare e supervisionare il lavoro di più traduttori su più progetti. Ne parlo al femminile perché, per qualche misteriosa ragione, è invariabilmente una ragazza: forse perché incarna il femminile nel suo essere, al tempo stesso, indispensabile e foriera di sventure.

Kelly sollecitava, per l’appunto, la consegna del foglio di calcolo su cui stavo lavorando, cercando di imprimere un minimo di decenza nella traduzione automatica di una serie di notizie finanziarie sui mercati asiatici.

Per un attimo, penso che si tratti solo di un gentle reminder: la consegna era fissata per le diciotto ora di Greenwich, quindi diciannove ora di Roma. Tuttavia, so per esperienza che la project manager ha sempre uno stiletto nascosto sotto i pizzi, per cui rileggo rapidamente il carteggio pregresso, dai cui codicilli emerge l’amara verità: la consegna era fissata alle diciotto ora di Hong Kong, il che spiega perché tutte le project manager di quest’agenzia abbiano un prenome inglese e un cognome cinese.

Poco male, la revisione è quasi completata e la spedisco a strettissimo giro. Kelly si profonde in ringraziamenti. Maledette Triadi.

Ti saluterei come nel kung fu, ma temo non sia possibile per iscritto.

Stan

Patrimonio culturale immateriale

Mia cara Berenice,

negli Stati Uniti all’ondata delle Grandi Dimissioni è seguita la risacca, la grande maggioranza di chi ha cambiato lavoro dichiara ora di essersene pentita, e a qualcun altro sarà pure successo di non essersi ricollocato affatto.

È la rivincita della saggezza popolare italica, dove si sottende a un mercato del lavoro statico la convinzione che i posti di lavoro, alla fin fine, si somiglino tutti.

Con la contraddittorietà tipica appunto della saggezza popolare, dove per un proverbio ce n’è sempre uno opposto, si soggiunge poi che chi lascia la vecchia per la trova, peggio trova. Quest’ultimo brocardo fa perno sulla naturalissima ansia di chi valuta di lasciare un posto di lavoro per un altro, anche leggermente meglio retribuito.

E se il capufficio fosse peggio di Mauro?

Se allungasse le mani, magari?

E se i colleghi fossero più stronzi?

E il parcheggio ancora più difficile da trovare?

E se fosse in vigore il divieto di mangiare in ufficio?

E così via…

Per chi, come me, lavora nel settore pubblico, gli inconvenienti della transizione sono decuplicati dallo stridore assordante degli ingranaggi anchilosati.

Nel transitare da un ente a un altro, ogni pubblico impiegato sa che varie attese andranno ad affastellarsi in una pila destinata a ingombrare l’orizzonte per mesi.

L’assegnazione delle Risorse Umane al Dipartimento.

L’assegnazione del Dipartimento alla Direzione Generale.

L’assegnazione della Direzione Generale all’Ufficio.

L’emissione del tesserino di riconoscimento.

L’assegnazione della postazione di lavoro.

L’assegnazione del profilo utente e password.

L’assegnazione dell’indirizzo di posta elettronica istituzionale.

La profilatura sull’Intranet e sui vari sistemi informatici e cloud.

L’apertura della partita stipendiale.

Poi c’è la nube d’incenso del patrimonio culturale immateriale di ogni Amministrazione, di ogni Ufficio.

Dove stanno la macchinette del caffè?

Come ci si procura la chiavetta?

Quali sono i codici da digitare in sede di timbratura?

Cosa bisogna fare se il tesserino magnetico non viene letto?

C’è un microonde, da qualche parte?

Dove si va a fumare?

Quando vengono pagati i buoni pasto?

Perché, alla mensa, la macedonia consumata al tavolo costa di meno da quella da asporto? Ed è possibile farsela dare da asporto, ma consumarla al tavolo?

Il Ministero aveva nei suoi ruoli bibliotecari e storici: tutto ciò andrebbe codificato e organizzato in annali.

Un convinto saluto.

Stan

Una Repubblica democratica, fondata sul lavoro

Mia cara Berenice,

la Costituzione italiana – priva di un vero preambolo, circoscritto alla formula di promulgazione da parte del Capo Provvisorio dello Stato – si apre con l’affermazione solenne: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Sullo stemma della Repubblica, adottato nel 1948, campeggia una ruota dentata, simbolo del lavoro.

Pur essendo bipartisan, l’importanza data al lavoro – in particolare subordinato – risente certamente dell’influenza esercitata, in seno all’Assemblea Costituente – dal Partito Comunista Italiano.

Il marxismo e la sinistra in generale sono sempre state strettamente associate al lavoro. L’esercito che sconfisse la Wehrmacht sul fronte orientale della Seconda Guerra Mondiale si chiamava “Armata Rossa degli Operai e dei Contadini”. Il preambolo della vigente Costituzione cinese inneggia alla “dittatura democratica del popolo, guidata dalla classe lavoratrice e basata sull’alleanza tra operai e contadini”.

Si spiega dunque una certa confusione ideologica, in un’epoca in cui la sinistra è chiamata spesso a proteggere chi non lavora e deve quindi percepire un sostegno al reddito. Non a caso, l’opinione dominante è che questo sostegno debba essere transitorio e condurre il disoccupato a un nuovo impiego, se del caso previa riqualificazione del medesimo. Lo sviluppo delle competenze rientra tra le priorità dell’Unione Europea e del Meccanismo per la Ripresa e la Resilienza.

Non manca, tuttavia, chi sostiene che l’automazione sia destinata a rendere la mancanza di lavoro strutturale. Secondo alcuni, questa realtà sarebbe già attuale e si starebbe cercando di nasconderla creando milioni di lavori inutili, i bullshit job a cui è stata dedicata una monografia di David Graeber, edita in Italia da Garzanti.

Qualcuno vede nella pandemia uno spartiacque e nell’ondata di dimissioni in corso negli Stati Uniti – che starebbe lambendo anche l’Europa – i primi segni del divorzio tra cittadino e lavoratore.

Ulteriori tappe di avvicinamento a questa nuova società sarebbero il lavoro agile – inteso come lavoro flessibile e non mero telelavoro -, la settimana corta, il diritto alla disconnessione, l’introduzione del reddito universale.

Potrebbe accadere oppure no.

Potrebbe essere un’utopia oppure una distopia.

Nel racconto “Goliath” Jack London – noto per le sue epopee nello Yukon, ma anche militante socialista – profetizzava già nel XIX secolo che, semplicemente riorganizzando la società razionali, nessuno avrebbe più avuto bisogno di lavorare, e l’unica missione di “forgiare risate sulla grande incudine della vita”.

In un’opera di fantascienza ben più nota, “La macchina del tempo”, Herbert George Wells ci descrive invece un’umanità futura inebetita dalla piena automazione, ridotta allo stato infantile e alla mercé di ferini predatori notturni.

Un saluto.

Stan

Un caso parossistico

Mia cara Berenice,

circola una leggenda, nei corridoi di Vienna.

Si dice che, quando tuo cugino Augusto fu nominato accademico di Francia per quello studio sull’obliquità del pendolo, tua madre si sentì in dovere di dare un gran ballo in suo onore, invitando l’intera Accademia.

Tutto, naturalmente, andò alla perfezione, ma, appena l’ultimissimo ospite si fu congedato, ella cadde riversa a terra, in stato rigido e catatonico. Inutile sarebbe stato il ricovero in sanatorio, se non fosse stato per la terapia ipnotica del dottor K. Ecco dunque il cerchio chiudersi con la ricomparsa del pendolo, da dove tutto era cominciato.

Se vogliamo prestare fede a questa storia – e io sono incline a farlo, anche sulla base di alcuni indizi che ho raccolto -, fu un caso parossistico di ansia da prestazione.

La stessa che, per quanto fortemente attenuata da purae semplice incoscienza, comincio a provare io al pensiero di entrare in servizio temporaneo alla Commissione, in questo anno non proprio propizio.

Posso solo sperare che le indagini sul mio passato, se ve ne saranno, non siano troppo analitiche e accurate, e che non si nascondano delatori nella foschia plumbea di Bruxelles.

Un circospetto saluto.

Stan