I lussi del paesello

Mia cara Berenice,

ieri sera ho rivisto, meno distrattamente, “Un paese quasi perfetto” (Italia, 2016), remake de “La grande seduzione” (Canada, 2003) e forse tecnicamente anche di “Un village presque parfait” (Francia, 2015).

Nel film, non privo di aderenza alla situazione reale di molti piccoli Comuni italiani, un paesello delle Dolomiti Lucane cerca di rinascere, tra le altre cose convincendo un medico ad accettarvi una condotta.

Un paese di qualche centinaio di abitanti con il medico condotto? Be’, ci sono il sindaco e perfino una banca.

Utopia? Maquillage cinematografico?

Non proprio. Come ricorderai, io stesso sono cresciuto in un paese di quelle dimensioni e ne ricordo ancora i tempi di gloria, ahimè passati.

La mattina mi svegliavo e nonna mi accompagnava, zainetto in spalla, per un tratto di strada, fino al crocevia dove passava a raccogliermi il pulmino giallo del Comune; c’era perfino una hostess a bordo.

Il pulmino mi portava, insieme agli altri, fino alla scuola elementare. In classe eravamo in sei, ma c’erano la maestra, la bidella e la campanella. Venne perfino un medico in camice bianco a sprimacciarci i testicoli.

Proseguendo lungo la stessa strada, l’asse principale del paese, si arrivava fino alla chiesa parrocchiale, con la casa canonica, un parroco, un vice-parroco, la perpetua, l’oratorio e ben due appartamenti di servizio, uno dei quali per il sacrestano.

C’erano lo stradino comunale, il postino e due osterie piuttosto rinomate, una per la carne alla griglia, l’altra per la selvaggina. In entrambe, ovviamente, gli anziani giocavano a carte bevendo e smoccolando.

In corrispondenza di casa dell’altra nonna, poco sotto la chiesa, c’era perfino una stazione meteorologica. Ogni giorno, nonna doveva annotare su un questionario che tempo aveva fatto la mattina, il pomeriggio e la sera; se aveva piovuto, doveva registrare quanti millimetri d’acqua erano caduti da un apposito bidone metallico montato in giardino. Una volta al mese o l’anno, inviava il tutto in una grossa busta color ocra, esente da affrancatura, a non so quale ufficio ministeriale.

Di tutto questo, ora, non è rimasto quasi nulla… se non il ricordo, e non è così poco.

Un nostalgico saluto.

Stan

I ristoranti messicani

Mia cara Berenice,

ieri sera, sul secondo canale della TV di Stato, davano “C’era una volta a… Hollywood” (USA-GB, 2019), con Brad Pitt, Leonardo DiCaprio, Margot Robbie e Dakota Fanning. Insieme a “Bastardi senza gloria” (USA-Germania, 2009), i due “Kill Bill” e “Django Unchained” (USA, 2012), un gradito regalo di Tarantino, che avevo sbrigativamente archiviato dopo “Jackie Brown” (USA, 1997), probabilmente in reazione al fanatismo cieco che il regista di “Pulp Fiction” suscitava all’epoca.

Il climax della storia di “C’era una volta a… Hollywood”, che non svelerò, mi ha colpito per un particolare apparentemente secondario: il modo in cui tutto, in California, sembra ruotare intorno ai ristoranti messicani.

In effetti, quando visitai la Costa Occidentale, ricordo che il Tex-Mex o una sua declinazione limitrofa era onnipresente, perfino nei fast food. In tutta franchezza, lo trovai orribile, ma sono passati davvero parecchi anni ed è possibile che le cose siano cambiate. Magari si è affermata una cucina messicana più pura, dato che un abitante della California su tre è ispanico; già all’epoca, in effetti, i cartelli erano tutti bilingui.

E qui a Roma?

Secondo il sito di gastronomia Puntarella Rossa, i migliori ristoranti texani in una città tenacemente abbarbicata alla sua cucina tradizionale sono Puerto Mexico sulla Portuense, El Pueblo ad Aurelio e La Punta Expendio de Agave a Trastevere. Sul menù di quest’ultimo compaiono taco, tostada, ceviche, churros e paleta.

I churros, piuttosto comuni del resto anche in Italia, li mangiai in Venezuela; non sono proprio uno spuntino leggerissimo, soprattutto ricoperti di cioccolato fuso.

A Venezia, con mia sorpresa, ci sono ben due ristoranti messicani, l’Iguanna in zona Ghetto e il La Cantinita al Lido, apparentemente aperto tutto l’anno; nulla a Marghera-Mestre.

Panorama prevedibilmente più variegato a Padova, con un’offerta concentrata soprattutto nel centro storico.

Buenas.

Stan

Tre palazzi

Mia cara Berenice,

la sede dell’Ufficio del Primo Ministro a cui sono stato assegnato occupa cinque piani sopra la Galleria Alberto Sordi, di fronte a Palazzo Chigi, lungo Corso del Popolo, a due passi dalla Fontana di Trevi e dalla sede dell’Autorità Nazionale Anticorruzione. Ci ero già stato, più volte, come membro supplente del Comitato Antifrode, in rappresentanza del Ministero.

Solo oggi, però, sedendomi per la prima volta dietro a una scrivania, è scattato. È scattato il collegamento con Palazzo Balbi, la sede centrale del Governatorato, a Venezia. Due palazzi magnifici, imponenti, prestigiosi… e assolutamente inadatti a ospitare degli uffici. All’interno, entrambi un dedalo infernale di corridoi, passetti, pianerottoli, salette, in una spericolata e stordente corsa prospettica. L’iracondo Capo di Gabinetto del Governatore aveva addirittura l’ufficio a un piano diverso dalla sua segretaria, la distintissima signora M.

Stasera, sulla vecchia ma ancora vivace chat dell’Accademia dell’Aja di Diritto Internazionale, ho visto le foto di un altro palazzo, quello in cui la Corte di Giustizia delle Nazioni Unite stava ordinando alla Russia, ai sensi della Convenzione contro il Genocidio, di interrompere le operazioni militari in Ucraina.

Il Palazzo della Pace dell’Aja. Circondato da curatissimi giardini, servito da una costosissima mensa interna, ospita l’Accademia, la Biblioteca e, appunto, la Corte. Nelle foto si vedeva perfino l’affabile Professor Yves Daudet, Rettore dell’Accademia, prestare giuramento come giudice ad hoc designato dall’Ucraina.

“Est-il sympatique ou non?” Mi chiese di lui la Professoressa P. F., al mio ritorno a Venezia, per saggiare se il mio francese fosse migliorato.

Lo era, lo era davvero. Oggi più di allora.

Un nostalgico saluto.

Stan

A quest’ora?

Mia cara Berenice,

diversamente da quanto tu sostieni, in Italia scioperi e manifestazioni seguono regole e cerimoniali ben precisi.

Delle manifestazioni, in base al Testo Unico di Pubblica Sicurezza del 1931, bisogna dare il preavviso alla Questura, che prenderà i provvedimenti conseguenti e, in determinati casi, potrà vietare l’iniziativa. Degli assembramenti non autorizzati “è ordinato il discioglimento con tre distinte formali intimazioni, preceduta ognuna da uno squillo di tromba”.

Gli scioperi indetti nei settori strategici sono sottoposti alla giurisdizione della Commissione di Garanzia, che promuove l’adozione di Codici di Autoregolamentazione e, in mancanza, emana Regolamenti Provvisori. Quello applicabile al settore elicotteristico, ad esempio, disciplina le procedure di raffreddamento, i periodi di franchigia, gli avvenimenti eccezionali, il preavviso, la proclamazione, l’intervallo tra scioperi, le prestazioni garantite, perfino la mappatura – qualunque cosa significhi.

Il Ministero per la Pubblica Amministrazione, inoltre, mette a disposizione un Cruscotto degli scioperi nel settore pubblico, una sorta di tabellone ferroviario virtuale aggiornato in tempo reale.

Come sempre, peraltro, le regole veramente importanti sono quelle non scritte: ad esempio, che scioperi e manifestazioni si svolgono di venerdì. “Si riposò il settimo giorno da tutta l’opera che aveva fatto”; e lo shabbat ebraico comincia appunto con il tramonto di venerdì.

Per l’appunto, venerdì sono uscito di casa per recarmi al Ministero e, vedendo passare in rapida successione un tram e un autobus fuori servizio, ho compreso immediatamente quanto stava accadendo. Avutane conferma dall’apposita app, sono rientrato a casa e ho comunicato all’Ufficio Affari Generali che avrei lavorato da remoto, unica modalità utile per non perdere un’importante riunione in programma per le 9.30.

Grandissima è invece stata la mia sorpresa ieri, domenica. Stavo tornado dal centro storico sul Tram 8, quando quest’ultimo si è fermato poco prima del Ministero. L’autista è uscito dalla cabina e ha annunciato, piuttosto melodrammaticamente: “Signori, finisce qui! C’è una manifestazione!”

I passeggeri sono scesi borbottando. Il cielo scuro della sera ancora invernale, nonostante le temperature miti, era striato di fumogeno cremisi e un fitto cordone di agenti della Celere ci dava le spalle imbottite. Sui gradini del Ministero, una folla compatta di studenti, arringata da un ufficiale politico armato di megafono, protestava contro la morte sul lavoro di uno stagista curricolare e il capitalismo in generale. Sui tozzi blocchi di pietra chiara che delimitano le aiuole del Ministero erano stati disegnati con la vernice nera falci, martelli e simboli anarchici.

Ho proseguito a piedi lungo il Viale di Trastevere. A una fermata dell’autobus, ho notato un’anziana signora e una famiglia di indiani discutere animatamente. Mi sono accostato per avvertirli.

“Signori, credo che i mezzi avranno difficoltà a passare: c’è una manifestazione”.

La loro risposta è stata unanime, corale, scevra di inflessioni tanto vernacolari, quanto esotiche: “A quest’ora?!”

Non ci volevano credere, dovetti assicurare loro che venivo direttamente dal luogo dei fatti, che io stesso ero stato fatto scendere dal tram.

Un imprevisto saluto.

Stan

Sulla controversia italo-elvetica relativa al Lago Maggiore

Mia cara Berenice,

i contatti che possiedo alla Farnesina mi hanno inoltrato il fascicolo della tua amica svizzera, giacente presso il Consolato di Lugano.

Vi si legge che “nelle ora antimeridiane del giorno 21 agosto 2021, la signorina Sylvie de Boccard, patrizia della Libera Città Imperiale di Friburgo…” A questo punto c’è un’annotazione a margine del funzionario consolare, che dubita della spettanza del titolo nobiliare sul quale, pare di capire, la tua amica ha molto insistito. A ogni modo, “la signorina Sylvie de Boccard, patrizia etc. etc., si trovava nelle acque italiane del Lago Maggiore, a bordo di un natante battente bandiera elvetica, quando il predetto natante veniva avvicinato, con aggressiva e reiterata manovra circolare, da un motoscafo dal quale alcuni giovini urlavano all’indirizzo della de Boccard indesiderati e ingiuriosi apprezzamenti estetici e sessuali”. Le parole “e sessuali” sono interlineate.

Non mi preoccuperei troppo, il Consolato inoltrerà certamente il fascicolo alla Procura della Repubblica competente, che immagino essere quella di Varese, non appena arriverà le relativa diffida dallo Studio di Ginevra: forse perfino prima, anche alla luce del caso Beccaglia.

La lunga giacenza maturata è probabilmente dovuta a una combinazione di tre fattori.

Il primo è la pandemia che, per quanto si caldeggino le virtù delle tecnologie informatiche, rallenta il lavoro, eccome.

Il secondo è l’endemica inefficienza della rete diplomatica e consolare della Repubblica.

Il terzo potrebbe essere legato ai rapporti non idilliaci coltivati da Italia e Svizzera a cavallo del Lago Maggiore.

Lo specchio d’acqua, come sai, è in parte italiano, in parte elvetico, il confine di Stato lo taglia latitudinalmente all’altezza di San Bartolomeo.

La navigazione sul lago è regolamentata da una Convenzione stipulata mediante scambio di note nel 1997, la cui pratica applicazione ha suscitato qualche attrito tra le Alti Parti Contraenti.

Ad esempio, da tempo crea problemi l’articolo 9, che riserva all’Italia l’esercizio del servizio pubblico di navigazione di linea. Anche recentissimamente, l’Ente Regionale svizzero per lo Sviluppo del Locarnese e della Valle Maggia ha lamentato il servizio scadente offerto dalla Gestione Governativa Navigazione Laghi italiana: gli standard elvetici, si sa, sono molto alti e non si è ancora concretizzata, anche per problematiche di diritto del lavoro, la costituzione del nuovo Consorzio dei Laghi italo-svizzero.

Insomma, non è improbabile che la tua amica in prendisole sia stata considerata un’agente provocatrice… vista la piazzata sul titolo nobiliare, poi…

Un saluto.

Stan

Taxi!

Mia cara Berenice,

ricordi quella volta, sulla Costa Amalfitana? Pagammo una somma esorbitante il taxi che ci portò dall’albergo alla stazione… intendo una somma esorbitante per le mie tasche, ovviamente…

Non c’è nulla da fare, il taxi è un concetto anglosassone, nei Paesi latini non funziona a nessun patto.

Quando feci la mia canonica trasferta adolescenziale a Londra, rimasi stupito vedendo le strade della capitale dell’Impero così spoglie di auto private, fatta eccezione per qualche Rolls-Royce nella City: non si vedevano che autobus rossi e taxi neri, maestosi nelle loro carrozzerie retrò.

Anche nei film americani, è tutto così facile… si alza il braccio e immediatamente un’auto gialla accosta: devi solo sperare di non trovarci il giovane Robert De Niro al volante.

In Italia, i taxi si evitano come la peste, perché hanno fama di essere costosissimi e non sempre perfettamente ligi alle regole.

In questi giorni stanno protestando, come da copione, contro il Disegno di Legge di Concorrenza del Governo.

Anche a Bruxelles, l’Autorità giudiziaria ha bloccato sine die le attività di Uber.

Siamo dunque, noi latini, irriducibili avversari del mercato? I discendenti delle Repubbliche marinare avrebbero ceduto il libro mastro ai levantini, a cui viene proverbialmente attribuita spietata astuzia negli affari?

A volte, la spiegazione è più semplice e prosaica.

Spesso si ha l’impressione che in Italia, nell’importare concetti stranieri come le riforme liberali, lo si faccia con un certo fanatismo esterofilo e ideologico, anziché calarli nel contesto locale con il supporto di un solido approccio scientifico.

Prendiamo, ad esempio, la liberalizzazione del trasporto pubblico di passeggeri su automobile.

Anche il mondo anglosassone, generalmente, lo regolamentava tramite licenze contingentate rilasciate dai Comuni, secondo un sistema affatto simile a quello italiano. In alcuni ordinamenti, le licenze taxi sono cedibili, in altri no. In ogni caso, hanno un valore commerciale.

Si è dibattuto, pertanto, se la liberalizzazione dell’attività prima coperta da licenza dovesse essere accompagnata dalla corresponsione di indennità ai taxisti; in Australia si è proceduto appunto in questo modo. Non ovunque e, secondo molti esperti, non è la soluzione corretta.

Tuttavia, è bizzarro che una simile eventualità non venga nemmeno discussa in un Paese come l’Italia, dove le proteste dei taxi sono ormai diventate un rituale ricorrente e dove si è soliti risolvere tutto a suon di elargizioni dell’Erario, oltretutto rimpinguato da una effimera – temo – stagione delle vacche grasse.

Un romanesco saluto.

Stan

Gli svizzeri

Mia cara Berenice,

a quanto pare, nella ridente Svizzera un pubblico esercizio si rifiutava di applicare le norme sanitarie emanate a seguito della pandemia. Per l’effetto, le Autorità confederali o cantonali hanno arrestato i titolari e collocato dei blocchi di cemento in corrispondenza dell’ingresso.

Come moltissimi veneti, mia nonna era stata emigrata in Svizzera e raccontava, con grande compiacimento, storie leggendarie sulla severità delle Istituzioni elvetiche: immigrati prelevati della polizia nel cuore della notte, condanne a morte clandestine eseguite nelle carceri pur non essendo previste dal Codice Penale, mariti violenti trascinati via in manette e messi al lavoro nelle lavanderie delle prigioni, con distrazione dello stipendio in favore della moglie. Pareva addirittura che un tale fosse stato espulso per aver superato in bicicletta un segnale di stop senza mettere il piede a terra. Per nonna, tutto ciò significava ordine, affidabilità delle istituzioni, buon governo e conformità al diritto naturale e al disegno divino.

Il Signor M. raccontava, con minore compiacimento, delle mense separate per i lavoratori italiani e “todeschi”, cioè svizzeri: un piatto unico per i primi, pasto completo per i secondi.

Più di recente, un mio vecchio amico, viaggiando mi pare tra Veneto e Lombardia, sbagliò treno e finì in Svizzera. Appena ebbe messo piede sul binario, il suo disorientamento venne captato da due agenti di polizia che lo rimisero, senza troppi complimenti, sul treno di ritorno.

Contro i nemici esterni, la Svizzera è ben difesa mediante un modello di esercito diffuso, in cui i cittadini custodiscono in casa le armi di ordinanza e vengono sottoposti a tornate di addestramento periodiche. Altrettanto ramificata sarebbe la rete di bunker e basi sotterranee scavati nelle profondità delle montagne, aggiornati durante la Guerra Fredda per resistere agli attacchi atomici.

Nonostante la sua neutralità, del resto, il Paese ha una fortissima tradizione militare. Gli svizzeri erano, in passato, mercenari rinomatissimi. Difesero Re Luigi XVI fino all’ultimo uomo nel 1792, difendono ancora oggi il Papa.

Figuriamoci se hanno paura di qualche negazionista.

Un saluto.

Stan

Spiagge

Mia cara Berenice,

ti ricordi quando andammo a quel matrimonio e ci propinarono il sosia di Renato Zero?

Spiagge

Immense e assolate

Spiagge già vissute

Amate e poi perdute!

Eri così livida che temevo sterminassi tutti i presenti pietrificandoli, come un basilisco. Quanto a me, rimirando la tua espressione omicida, una volta tanto mi divertii a un matrimonio.

Se può consolarti, il pensiero delle dorate sabbie italiane non sollazza nemmeno Bruxelles.

Le spiagge, in Italia, fanno parte del demanio marittimo. Gli stabilimenti balneari che le gestiscono a beneficio dei turisti sono, tecnicamente, concessionari. Fin qui, nulla di male. Il problema è che si continua a prorogare all’infinito queste concessioni, anziché rimetterle a bando.

Perfino l’attuale Presidente del Consiglio Mario Draghi, proveniente dalla Banca Centrale Europea, ha appena presentato un Disegno di Legge della Concorrenza in cui si glissa elegantemente su questo aspetto.

Cosa blinda così potentemente le concessioni balneari? Il lobbying delle loro organizzazioni rappresentative? L’inveterato consociativismo e corporativismo italico? Mera impotenza governativa e ministeriale?

Probabilmente un po’ di tutto questo, ma non solo. I tassisti, ad esempio, sono più organizzati e temibili dei proprietari di stabilimenti, ma – per quanto forse abbiano ottenuto ragione sulla carta – Roma è piena di Noleggi Con Conducente e l’app di Uber funziona tranquillamente. La debolezza dello Stato non ha impedito di colpire categorie considerate intoccabili, come dipendenti statali e chierici. Gli avvocati, numerosissimi anche in Parlamento, con un Ordine per Provincia, sono in crollo vertiginoso e verticale, come i gravi lasciati cadere da Galileo dalla Torre di Pisa.

Perché, dunque, questo strenuo attaccamento agli stabilimenti balneari vecchia scuola? Il sospetto è che essi incarnino in modo particolarmente spiccato un ulteriore fattore che sta alla base, alla radice di tutti quelli sopra descritti, l’inestinguibile nostalgia per l’Italia del miracolo economico, degli anni ’50 e ’60, delle prime auto e dei primi assaggi di turismo di massa, appunto sulle spiagge.

Esagerato? Patetico? Non tanto, se si mettono le cose in prospettiva. L’Italia è nata nel 1861, in tempi relativamente recenti rispetto ad altri Stati europei. Per tutta la sua esistenza ha fatto, per citare il Manzoni, “un chilo agro e stentato”, un’esistenza grama.

Prima la guerra al brigantaggio, considerata da molti storici una vera e propria guerra civile.

Poi l’avventura coloniale che portò la battaglia di Adua, la prima grande sconfitta subita da una Potenza europea in Africa, e poco altro, se è vero che l’Italia stessa ritenne di avere un impero oltremare solo nel 1936, con l’effimera conquista dell’Etiopia.

Poi la Grande Guerra, la “vittoria mutilata” di D’Annunzio riportata a carissimo prezzo.

Poi il Ventennio fascista.

Poi la Seconda Guerra Mondiale, l’8 settembre e una nuova guerra civile.

Poi gli Anni di Piombo, la Seconda Repubblica e gli anni plumbei dell’austerità.

In tutto questo, una sola insula felix, un solo loecus amoenus: il miracolo economico degli anni ’50-’60.

Normale che qualcosa, nelle profondità della psiche italica, urli: non plus ultra! Hic sunt leones!

Ave atque vale.

Stan

L’ospite straniero, l’ospite italiano

Mia cara Berenice,

campeggia oggi sui giornali la foto dei Capi di Stato e di Governo del G20, allineati davanti alla Fontana di Trevi, rilassati e ilari come a una gita scolastica. Almeno per un poco, avevano dimenticato la pandemia, la crisi climatica, le tensioni sullo Stretto di Formosa.

È letteralmente da secoli che l’Italia avvolge nell’abbraccio delle sue spire da sirena gli ospiti stranieri.

La Serenissima Repubblica di Venezia fece intrattenere Re Enrico III di Francia dalla celebre cortigiana Veronica Franco.

Secoli dopo, il generale americano Maxwell Taylor, arrivato segretamente a Roma per discutere con il Governo italiano la difesa della capitale, alla vigilia dell’8 settembre 1943, rimase basito nel vedersi offrire “una tavola splendidamente preparata e ci servirono una cena pantagruelica fatta venire dal Grand Hotel. Pensi, c’erano perfino le crêpes Suzette!”

Come suggerisce quest’ultimo episodio, non sempre la tecnica, per quanto rodata, funziona; anzi, può essere perfino controproducente.

I Grand Tour, che conducevano nelle città italiane gentiluomini da tutta Europa, ci attiravano meraviglia e simpatia, ma anche commiserazione e tirate paternalistiche, infarcite di luoghi comuni, sulla decadenza morale dei discendenti dell’Antica Roma.

La percepita combinazione di ricchezza e decadenza, inoltre, tendeva a suscitare negli ospiti cattivi pensieri. Le città-Stato del Centro-Nord, tanto splendide quanto minuscole e litigiose, finirono col diventare colonie spagnole, francesi e austriache. Ancora alla fine del XVIII secolo il Direttorio francese, trovandosi le casse dell’Erario vuote, inviò Napoleone a dilagare nell’ubertosa Pianura Padana. Napoleone marciò e marciò, fino ad arrivare ai confini della Repubblica di Venezia, contro la quale poté brandire, come pretesto retorico, secoli di litanie preconfezionate sui costumi dissoluti della Serenissima – in quel caso retaggio anche di antichi scontri tra Dogi e Papi.

A volte, infine, gli italiani ingannarono se stessi, con lo splendore delle Corti rinascimentali e con le coreografie del fascismo, che li indussero a sopravvalutare la loro posizione e ignorare i refoli di vento gelido preannunzianti la tempesta incombente.

Difficile, qui, non ricordare la retorica dannunziana che celebrava, nelle spire di fumo di un barocco aulico, una guerra vinta contro un avversario in via di decomposizione e comunque a carissimo prezzo, e l’occupazione di una città straniera effettuata senza alcuna reale resistenza.

Della trilogia di Scurati e del film “Il cattivo poeta” (Italia, 2021) ti ho già parlato diffusamente, ma la figura di D’Annunzio viene ritratta, in termini tanto realistici quanto poco lusinghieri, anche in “Qui rido io” (Italia, 2021), pellicola sulla causa per plagio che il Vate intentò contro il commediografo napoletano Eduardo Scarpetta, reo di aver parodiato il suo dramma “La figlia di Iorio”.

Un roboante saluto.

Stan

Dov’è la Francia?

Mia cara Berenice,

dov’è la Francia?

No, non nell’universo dello scibile umano.

Nemmeno nello scacchiere geopolitico, ma nel ben più ampio scacchiere di Roma.

La Francia è, naturalmente, a Piazza Farnese, su cui si affaccia la sua imponente, prestigiosissima Ambasciata. Tra Villa Borghese e Trinità dei Monti, dove sorge l’Accademia di Francia.

La Francia è anche, in questi giorni, all’EUR, dove è in corso il G20, con gran spiegamento di agenti e cecchini; forse anche a Villa Pamphili, dove oggi c’era una presenza sospetta della polizia.

La Francia è a Trastevere, in quella viuzza dietro Piazza San Cosimato, dove la gente si accalca di fronte a quella famosa pasticceria che serve prodotti dolci e salati, come le quiche lorraine.

La Francia è nel rione Monti, dove un minuscolo bistrot offre, a prezzi stracciati, vere crepe bretoni.

La Francia ha una rispettabile quinta colonna fra i turisti, che si allarga agli immigrati, se consideriamo la Francofonia.

Insomma, direi che è abbastanza ben piazzata per convergere su Trinità dei Monti, intorno alla quale sorge il quartiere inglese che fa corona alla celebre tea room di Babington’s.

Espugnata quella roccaforte, il secondo obiettivo sarebbe l’Ambasciata britannica che, oltre a fare ombra al Ministero delle Finanze, è comunque troppo brutta per restare in piedi. Fa eccezione lo stemma di Casa Windsor che decora il maestoso cancello di ferro, da conservare come trofeo di guerra e issare sull’Arco di Trionfo a Parigi.

È plausibile, a quel punto, che il Governo di Sua Maestà Britannica e la Metro di Londra smetterebbero di commemorare l’Entente Cordiale… ma, del resto, quella stessa Metro ha dedicato un’altra stazione alla battaglia di Waterloo.

Un orgoglioso saluto gollista.

Stan