Elogio dell’India

Mia cara Berenice,

l’avere visto la miniserie indiana “L’esercito dimenticato” mi ha fatto riflettere su come avessero ben ragione gli inglesi a definire l’India la gemma più preziosa sulla corona dell’Impero Britannico o frasi simili, vere del resto in senso letterale, dato che il pezzo più pregiato dei gioielli della Corona è il diamante indiano Koh-i-Noor.

Un Paese così complesso, un vero e proprio subcontinente, che riesce a funzionare in modo democratico e per giunta federale. Una dimostrazione vivente dell’infondatezza dell’argomentazione secondo cui Paesi come la Russia o la Cina sarebbero semplicemente troppo grandi per non essere autocrazie.

Un risultato tanto più notevole, se si pensa alle innumerevoli guerre civili che hanno dilaniato l’India. Quando la Compagnia delle Indie Orientali inglese sbarcò, trovò un paese già diviso, su cui la sovranità dell’Impero Mughal era solo nominale: un sistema per certi versi feudale, in cui sultani, marajah, rajah, nababbi e nizam erano sovrani.

La celebre, sanguinosissima rivolta indiana del 1857, immortalata anche dai romanzi di Emilio Salgari, fu di fatto un conflitto civile, truppe anglo-indiane contro insorti indipendentisti. La Seconda Guerra Mondiale vide contrapporsi all’Esercito Indiano britannico l’Esercito Nazionale Indiano, allestito dagli indipendentisti nei territori occupati dal Giappone – appunto di ciò dà conto “L’esercito dimenticato”. Infine, i terribili massacri che seguirono la concessione dell’indipendenza nel 1947, con la scissione delle Province musulmane nel Pakistan, con l’appendice della secessione del Pakistan Orientale, l’attuale Bangladesh, nel 1971 e del conflitto nel Kashmir, mai concluso.

C’erano tutti i presupposti per rendere l’India uno Stato fallito, invece il Paese non solo è sopravvissuto, ma ha prosperato. Spero e credo che, nel medio-lungo termine, la democrazia federale indiana arriverà a superare il centralismo autoritario cinese, procedendo lenta ma sicura, come la tartaruga contro la lepre.

Un saggio saluto.

Stan

Un normale fine settimana nell’India Britannica

Mia cara Berenice,

piove.

Piove.

Piove.

Piove esattamente come l’ultimo fine settimana e quello prima.

Stamane ho asciugato le scarpe con il phon, non accadeva dai tempi del Belgio. Quantomeno, ero già esperto della brutale tecnica da utilizzare, infilando lo strumento nella scarpa, perché la parte più ostica è l’interno della punta.

Secondo le previsioni, la pioggia insistente continuerà ad accompagnarci almeno fino a metà mese. Sembra la stagione dei monsoni, nell’India Britannica.

Dopo un effimero sole, ora il cielo torna a scurirsi. Speriamo non salti la partita di polo, ci sarà anche il Vice-Governatore e volevo fortemente perorargli la causa della povera Lady Elizabeth.

Il marito è colonnello del Genio dell’Esercito Indiano e Calcutta continua a spedirlo in misteriose missioni tra la Frontiera e il Caucaso. Il risultato è che non solo la poveretta, fresca sposa, gode ben poco della compagnia del marito, ma è vittima di voci incontrollabili e maligne, senza avere chiari elementi per spegnerle.

Possibile che l’Impero non possa fare a meno di suo marito o, almeno, conferirgli un incarico ufficiale? Ecco i danni della paranoia antirussa. Eppure Sir Chingley stesso si è detto sicuro, alla presenza del Nizam in persona, che lo Zar non ha né i mezzi, né la logistica per calare sul Subcontinente.

Sono questa pioggia e questi venti, e gli sguardi cinerei dei sepoy, e le pire dei fuoricasta, a darci alla testa.

Vostro devotissimo,

Stan

Agricoltura e mercato

Mia cara Berenice,

il Primo Ministro Narendra Modi, l’uomo forte dell’India, è stato costretto dalle proteste dei contadini a ritirare il pacchetto di leggi che componevano la sua ambiziosa riforma agraria, finalizzata a liberalizzare un settore fortemente regolamentato e sussidiato.

Bizzarramente, il tentativo di Modi non è nemmeno stato accennato in contesti talvolta associati al liberismo, come Unione Europea e Stati Uniti.

Nell’UE, la Politica Agricola Comune (PAC) vale quasi 60 miliardi l’anno, contro i poco più di 100 del bilancio generale delle Istituzioni.

Negli Stati Uniti, il Ministero dell’Agricoltura federale spende 450 miliardi l’anno. Una cifra non stellare in un bilancio federale misurato in triliardi, ma che comunque ne fa uno dei Ministeri più ricchi, preceduto solo da Tesoro, Salute, Difesa, Servizi Sociali, Lavoro e Istruzione, surclassando nettamente Trasporti, Edilizia, Sicurezza Interna, Esteri, Energia, Commercio e Giustizia, nonché la NASA e l’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente.

Agricoltura allergica al mercato, dunque? Verrebbe da dare senza esitazione una risposta affermativa, ricordando storie come quelle della United Fruit in America Latina o quelle, più recenti, sull’accaparramento di terre (land grabbing).

Eppure, ci sono storie anche diverse.

Quella dei contadini sovietici, strenui difensori della piccola proprietà e imprenditoria, fino a costringere Lenin a varare la Nuova Politica Economica e Stalin una delle sue più bestiali campagne di repressione.

Quella dei braccianti italiani che ottennero, nel secondo dopoguerra, la distribuzione delle terre.

Quella dei contadini vietnamiti che, secondo molti, non sarebbero passati armi e bagagli al Viet Cong, se avessero strappato al Governo di Saigon una riforma agraria decente e una redistribuzione del latifondo privato ed ecclesiastico, prosperato all’ombra dell’Amministrazione coloniale francese.

Il rapporto sullo stato dell’alimentazione e dell’agricoltura adottato dalla FAO nel 2020 è tutto incentrato sulla crisi idrica e, pur riaffermando l’ovvia importanza delle politiche pubbliche, non sembra invocare misure statali invasive. Un altro rapporto settoriale del 2012, lungi dalla scacciare gli investitori stranieri come mercanti dal tempio, li incoraggia a coinvolgere nelle loro filiere gli agricoltori locali.

Che dire, poi, delle antichissime fiere agricole o dell’assiduità dei contadini, anche dopo la pensione, ai mercati locali?

Un sacchetto frusciante di uova? Fresche fresche.

Stan

Delhi è caduta?

Mia cara Berenice,

la BBC riporta che, nel 2014, una coppia del Mile End di Londra consegnò al Dott. Kim Wagner della Queen Mary University un teschio umano. Da una delle orbite fu estratto il seguente biglietto ripiegato, scritto a mano ma ancora perfettamente leggibile: “Teschio di Halvidar detto Alum Bheg, del 46° Reggimento di Fanteria del Bengala, sparato dal cannone insieme a vari altri membri del Reggimento. Promotore dell’ammutinamento del 1857, di indole scellerata. A capo di un drappello, prendeva il controllo della strada per il forte, ove stavano dirigendosi, in cerca di salvezza, tutti gli europei. Il suo drappello sorprese e uccise il Dott. Graham, sparandogli nel suo calesse al fianco della figlia. La sua successiva vittima fu il reverendo Hunter, missionario, analogamente in fuga con moglie e figlie. Alum Bheg uccise il Sig. Hunter; la moglie e le figlie furono massacrate a bordo strada dopo essere state seviziate. Alum Bheg aveva circa 32 anni, era alto 5 piedi e 7 pollici e mezzo, era un indigeno di complessione sana. Teschio portato a casa dal capitano Costello (già capitano del 7° Dragoni della Guardia), in servizio al momento dell’esecuzione”.

Nel 1857, le truppe coloniali indiane della Compagnia delle Indie Orientali indiane si ammutinarono, ma la ribellione venne duramente stroncata dalla Compagnia e dall’esercito britannico. In settembre, dopo lungo e sanguinoso assedio, cadde Delhi e il funzionario William Stephen Raikes Johnson del Dipartimento Informazioni della Compagnia fece giustiziare i tre principi eredi al trono dell’India indipendente.

Oggi, Vikas Pandey della BBC scrive nuovamente da Delhi: “La città è sotto assedio”.

Qualche sera fa ho sentito l’India annoverata tra i “Paesi poveri” privi di infrastrutture sanitarie e bisognosi di assistenza sanitaria.

È stridente il contrasto rispetto alla gestione della pandemia in Cina, di cui l’ex Raj si candidava a essere contrappeso e forse anche avversario.

La fine di un sogno, dunque? È assolutamente troppo presto per dirlo.

Anche nel 1942 l’India Britannica pareva perduta: Singapore rovinosamente caduta, la Royal Navy in fuga addirittura verso l’Africa, i giapponesi e gli indipendentisti alle porte, il Congresso Nazionale Indiano che, proprio in quel momento, tentava di dare l’ultima spallata all’Amministrazione vicereale. Invece, in qualche modo l’Esercito Indiano fermò i giapponesi e fornì alla Gran Bretagna il più grande contingente volontario mai schierato; poi venne la pace e, con essa, l’inevitabile e meritata indipendenza.

L’India è l’unico Paese con un tale grado di complessità a essere governato in modo democratico e federale: non a caso, viene definito un subcontinente. Nemmeno il Brasile è un mosaico storico, etnico, religioso, culturale così psichedelico.

Sono profondamente convinto che la democrazia, pur essendo meno efficiente nel breve e medio termine, paghi su orizzonti più lunghi.

Tutto resta da vedere, dunque: in fondo, la Cina non ha ancora conquistato l’Himalaya.

Un gandhiano saluto.

Stan

Ancora sul nuovo accordo commerciale della Cina

Mia cara Berenice,

come promesso, mi sono documentato.

Per inciso, ti informo che in tua madre la sinofobia ha avuto la meglio sull’antipatia nei miei confronti, tanto da costringerla a scrivermi a sua volta per chiedere delucidazioni.

Mi guaderò bene dal risponderle, mi farai la grazia di esporle tu i contenuti di questa mia.

Dunque, l’accordo in questione è nominato Partenariato Economico Globale Regionale: una traduzione un poco bizzarra, ma apparentemente ufficiale, di Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP).

Questa RCEP, dunque, è stata firmata dai Paesi ASEAN (ossia Brunei, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Birmania, Filippine, Singapore, Thailandia e Vietnam), nonché da Cina, Australia, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda. Manca all’appello, significativamente, l’India.

Il trattato ricalca gli accordi vigenti in ambito OMC, sotto almeno tre aspetti: li richiama spesso, contiene disposizioni simili e prevede un analogo sistema di risoluzione delle controversie basato su collegi (panel).

Giuridicamente, nulla di memorabile.

Politicamente ed economicamente, molto dipenderà dell’effettiva prassi di attuazione. La Cina non è in buoni rapporti con molti Paesi asiatici confinanti, anche a causa delle sue crescenti rivendicazioni marittime e territoriali. Tra essa e il Giappone ci sono vecchie ruggini risalenti alla Seconda Guerra Mondiale, mai del tutto rimosse. Inoltre Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda sono fortemente legati agli Stati Uniti.

Il gran rifiuto indiano fa naturalmente rumore ed è un fattore di peso. Del resto, anche fra Nuova Delhi e Pechino i rapporti non sono mai stati buoni, con scaramucce di confine anche recenti.

Insomma, si vedrà.

Un saluto.

Stan