Giustizia e pressioni esterne

Mia cara Berenice,

mia cara Berenice, dopo un lungo e comprensibile silenzio, l’attrice americana Amber Heard è tornata sulle reti sociali per annunciare di aver “preso la difficilissima decisione di chiudere con un accordo stragiudiziale la causa per diffamazione intentata dal mio ex marito in Virginia”. Nel lungo e denso post, la Heard paragona sfavorevolmente il sistema giudiziario americano a quello britannico, a suo dire meno permeabile alle pressioni del suo ex marito e della sua comunità di ammiratori.

Non intendo entrare nel merito di una vicenda processuale complicatissima e che non ho minimamente seguito.

Mi interessa qui evidenziare come il sistema giudiziario britannico e quello americano, nati dallo stesso ceppo, abbiano preso strade fortemente divergenti.

Il primo ha fortemente circoscritto l’utilizzo delle giurie popolari e conservato un solenne e paludato cerimoniale che – personalmente ne sono convinto – rende molto più difficile all’isteria della folla varcare la soglia del tribunale.

Negli Stati Uniti, il diritto al processo per giuria è garantito dalla Costituzione, la procedura più informale, la spettacolarizzazione del processo più diffusa. Da una parte, i media cingono d’assedio il processo, pur resistendo generalmente il divieto di condurre riprese video; dall’altra, il processo per giuria stesso è diventato un topos narrativo e cinematografico. Viene così a crearsi un’osmosi affascinante in astratto, ma talvolta devastante nel caso concreto.

E in Italia? L’amministrazione della giustizia è prevalentemente affidata a giudici togati. I giudici popolari, presenti nelle Corti d’Assise, non sono paragonabili ai giurati anglosassoni, anche perché deliberano insieme ai giudici togati, estensori della motivazione della sentenza, la cui posizione ha certamente grande peso. Significa questo che i tribunali sono esenti da pressioni esterne o di altra natura? Vi è chi sostiene non sia così, soprattutto per quanto riguarda l’anello debole delle indagini preliminari nel procedimento penale, dove i requisiti di forma sono necessariamente allentati e la tentazione della ribalta mediatica può diventare forte.

Questo però ci conduce a un’altra tematica, molto più ampia e complessa.

Negli ordinamenti anglosassoni, le indagini sui reati sono considerate un affare puramente di polizia che nulla a che ha fare con il processo penale e molto poco con la giurisdizione. Il giudice interviene solo in modo occasionale, di solito per autorizzare perquisizioni e intercettazioni. Questo, indubbiamente, rende più facili e frequenti gli abusi da parte della polizia, non solo negli Stati Uniti ma anche nel Regno Unito – ne sanno qualcosa molti irlandesi o i sindacalisti intercettati ai tempi del Governo Thatcher. Dall’altra parte, però, i verbali d’indagine non esistono per il giudice che esige l’integrale formazione della prova in aula, in dibattimento. Non a caso la polizia britannica, quando vuole fare scattare facilmente le manette (di nuovo, il pensiero corre all’Irlanda), è costretta a far introdurre disposizioni legislative che la autorizzino all’arresto amministrativo senza alcun capo d’accusa, il cosiddetto “internamento” (internment).

In Italia, nonostante l’emanazione di un Codice di Procedura Penale teoricamente modellato sul modello anglosassone alla fine degli anni ’80, persiste l’idea che le risultanze delle indagini abbiamo già ufficialità e dignità processuale. Dopotutto, le indagini preliminari fanno parte integrale del procedimento penale, sono supervisionate da ben due magistrati (Pubblico Ministero e Giudice delle Indagini Preliminari), spesso già in contraddittorio con i difensori o addirittura in regime di incidente probatorio (cioè anticipando eccezionalmente il dibattimento). Del resto, in questo l’Europa continentale è influenzata da una tradizione radicata e profonda risalente alla figura francese del Giudice Istruttore e, prima ancora, al diritto romano-canonico.

Concludendo, in Italia probabilmente le pressioni esterne influenzano il processo meno che negli Stati Uniti; ma influenzano le indagini, e queste ultime influenzano il processo.

Che al mercato comprò…

Stan

Sull’Irlanda del Nord

Mia cara Berenice,

secondo le stime dell’Istituto di Ricerche Socioeconomiche di Dublino, la produttività dell’Irlanda del Nord è inferiore del quaranta per cento a quella dell’Irlanda. Un divario enorme, anche tenendo conto del fatto che l’Irlanda è nota per le sue politiche pro impresa molto spinte, comprensive di fortissimi sgravi fiscali per le multinazionali.

Del resto, le sei Contee rimaste sotto sovranità britannica vengono da decenni di guerra civile a bassa intensità, a cui gli Accordi del Venerdì Santo del 1998 hanno messo fine solo al prezzo di un sistema istituzionale machiavellico e lottizzato, in cui unionisti e repubblicani si spartiscono Ministeri e seggi dell’Assemblea, il parlamento nordirlandese di Belfast. Nonostante ciò, le tensioni continuano a covare sotto la cenere. Solo due giorni fa, l’Unità Investigativa Antiterrorismo del Corpo di Polizia dell’Irlanda del Nord ha arrestato il settimo uomo della squadra sospettata di aver fatto detonare una bomba al passaggio di una pattuglia.

A tutto ciò è andata ad assommarsi la Brexit che ha fatto improvvisamente risorgere il confine doganale tra Irlanda e Irlanda del Nord. Durante i tormentati negoziati di divorzio, Londra e Bruxelles hanno concordato che i beni importati dalla Gran Bretagna in Irlanda del Nord vengano sottoposti a ispezione doganale nei porti dell’Irlanda del Nord stessa, venendo per l’effetto esentati da ispezioni al confine.

I partiti unionisti nordirlandesi, tuttavia, hanno puntato i piedi davanti alla prospettiva di quello che ritengono un confine doganale di fatto tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord. Londra vorrebbe adottare unilateralmente, contro il parere di Bruxelles, una soluzione di compromesso, esentando dai controlli nei porti i beni destinati all’importazione nella sola Irlanda del Nord (c.d. “Corsia Verde”). Con l’occasione, il Governo britannico vorrebbe approfittarne per esentare le imprese nordirlandesi dalle norme europee sugli aiuti di Stato e per mettere fine alla giurisdizione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea sull’interpretazione e applicazione del Protocollo sull’Irlanda del Nord.

Di per sé non particolarmente significativa, questa controversia evidenzia come basti un granello di sabbia per inceppare i farraginosi ingranaggi della macchina che tiene in vita le sei Contee britanniche.

A medio termine, forse, l’unica soluzione è quella prevista dagli Accordi del Venerdì Santo, secondo cui Dublino e Londra “riconoscono la legittimità di qualunque scelta liberamente esercitata dalla maggioranza del popolo dell’Irlanda del Nord in merito allo status della medesima, in termini favorevoli all’Unione con la Gran Bretagna o di un’Irlanda unita e sovrana”. Dopotutto, l’ultimo censimento del 2021 ha certificato che, nelle sei Contee, ci sono ormai più cattolici che protestanti…

Cockles and mussels, alive, alive, oh!

Stan

Pecunia non olet

Mia cara Berenice,

i mercati finanziari hanno punito in modo draconiano, decapitato nel cortile della Torre di Londra la manovra finanziaria tentata dal nuovo Primo Ministro di Re Carlo III.

Il Governo di Sua Maestà Britannica voleva dare a Downing Street un party a tema anni ’80, concedendo massicci sgravi fiscali alle fasce più elevate della popolazione; tanto massicci da essere giudicati dagli analisti insostenibili per il Tesoro. Il risultato è stato il crollo della sterlina, l’intervento riluttante della Banca d’Inghilterra e quello irrituale del Fondo Monetario Internazionale.

Ecco che il mercato non è sempre di destra o sempre liberista. Questo si innesta, devo dire, sulle considerazioni che mi stava già ispirando il fiume di notizie di stampa finanziarie sottopostomi per la revisione post traduzione automatica da un’agenzia di un Hong Kong.

Abbattuta con il machete la fitta barriera terminologica, quei testi hanno cominciato a colpirmi per limpidezza, oggettività, pacatezza, competenza. Quando ci sono di mezzo i soldi, evidentemente, si ha meno agio di dire, scrivere o fare sciocchezze.

Certo, non bisogna farsi suggestionare. Non bisogna dimenticare la Grande Depressione, Keynes, il New Deal, lo stato sociale, i diritti economici e sociali, le crisi cicliche del capitalismo, i fallimenti del mercato, il crac della Lehman Brothers, la tragica austerità in Italia e in Grecia.

Eppure, cosa riuscirono a fare le città-stato medievali e rinascimentali con i loro banchieri, le Repubbliche marinare con le loro flotte e i loro consoli, gli Ordini cavallereschi con le loro lettere di credito… e, in quei tempi mitici, non furono forse gli scambi commerciali, che tanto facevano inorridire la Santa Sede, a evitare la degenerazione dello scontro tra Cristianesimo e Islam in conflitto di civiltà? Tornando ai giorni nostri, è un caso se in Argentina, crogiolo del populismo e terra natia del nostro beneamato Pontefice, i giovani stanno abbracciando l’ideologia libertaria?

Un saluto in spagnolo, o forse in tedesco.

Stan

Sull’alleanza anglo-portoghese

Mia cara Berenice,

“L’anno della morte di Ricardo Reis” di Saramago continua a offrirmi spunti interessanti. Dopo avermi ispirato le recenti considerazioni sul ruolo della tradizione, ora mi ha colpito ritraendo i cittadini di Lisbona con il lutto al braccio per la morte di Re Giorgio V di Gran Bretagna, in segno di rispetto per l’antichissima alleanza anglo-portoghese.

Quest’ultima risale al Trattato di Tagilde del 10 luglio 1372. Da allora, è stata confermata da una serie di strumenti internazionali, ma soprattutto nei fatti. Portogallo e Gran Bretagna, nei secoli, non sono mai stati in guerra, benché i potenziali conflitti di interesse non mancassero: dalla questione religiosa che spinse la Spagna a muovere guerra all’Inghilterra elisabettiana, agli estesi imperi coloniali.

Portoghesi e inglesi hanno invece combattuto e vinto fianco a fianco la Guerra di Spagna o Peninsulare contro la Francia napoleonica. Anche nella Grande Guerra, il Portogallo diede il suo contributo in Europa e in Africa. Durante la Seconda Guerra Mondiale, l’alleanza venne invocata esplicitamente da Lisbona e Londra per giustificare prima la neutralità del Portogallo fascista, poi la concessione di basi alla Gran Bretagna.

Il Portogallo proprio quest’anno sta commemorando in modo solenne il seicentocinquantesimo anniversario dell’alleanza; a tal uopo, è stata varata un’apposita iniziativa denominata “Portugal-UK 650”, con un calendario fittissimo di eventi, ma anche progetti di ricerca. La presidenza dell’iniziativa è stata affidata a Maria João Rodrigues de Araujo, ricercatrice portoghese presso l’Università di Oxford, membro dell’Ordine di Malta e dell’Ordine del Santo Sepolcro di Gerusalemme.

Un commosso saluto.

Stan

Brevi cenni sulla nuova alleanza militare anglosassone nel Pacifico e sul ruolo dell’Europa

Mia cara Berenice,

perdonami se non condivido la tua indignazione, ma non riesco a trattenere le risate nel figurarmi il vecchio maresciallo von Beck-Rzikowsky che deride la Francia, con tutte quelle medaglie tintinnanti.

Del resto, mia cara, non è successo nulla.

No, non mi riferisco all’abitudine, tipicamente francese, di farsi assestare schiaffoni a tutte le latitudini.

Parlo dell’irrilevanza dell’Europa.

Secondo te, sarebbe dimostrata dalla nuova alleanza militare stipulata da Stato Uniti, Gran Bretagna e Australia in funzione anticinese, dal contratto per la fornitura di sommergibili europei stracciato da Canberra, dal fatto che le relative proteste sono pervenute da Parigi e non da Bruxelles.

Io ti dico che l’irrilevanza dell’Europa è stata ufficializzata e bollinata, oltre mezzo secolo fa, dalla crisi di Suez, di cui fu protagonista proprio quella Gran Bretagna che oggi si illude di salpare lontano da Calais.

Da allora, non è cambiato nulla, semplicemente all’Unione Sovietica si è sostituita la Cina.

Si può avere l’impressione che la situazione sia peggiorata perché durante la Guerra Fredda l’Europa era, almeno, terreno di scontro, mentre oggi le flotte si fronteggiano nel Pacifico e nello Stretto di Formosa; ma è, appunto, in gran parte un’impressione.

Ci sarà una risposta, un colpo di reni? In tutta franchezza, ne dubito. Naturalmente, spero di sbagliarmi. In un mondo civile, i destini del mondo si decidono tra Londra, Parigi, Berlino, Vienna e San Pietroburgo, possibilmente indossando degli enormi parrucconi.

Un incipriato saluto.

Stan

Casino Royale

Mia cara Berenice,

gli inglesi, si sa, sono forti scommettitori, e chissà in quanti avevano puntato sulla loro Nazionale, in previsione della finale di domenica.

Quante volte, al cinema, abbiamo visto Bond, James Bond fare il suo ingresso in un abito impeccabilmente tagliato in qualche sala da gioco, popolata da cupi giocatori professionisti e sirene in abito lungo.

L’ultima scommessa è la seguente. Riuscirà la campagna di vaccinazione, unita ad alcune residue misure restrittive e all’immunità naturale, a mantenere decessi e ricoveri a un livello sufficientemente basso?

Ecco un evento davvero interessante, ben più della finale di domenica, se non altro in quanto anteprima di ciò che inevitabilmente accadrà nell’Europa continentale.

Un po’ come durante le Guerre Napoleoniche, quando i sacchi di sterline e i reggimenti gettati da Londra oltremanica decidevano delle fortune e – più spesso – delle sfortune dell’Impero Francese.

Quindi, come mormoravano le truppe canadesi incontrando quelle americane ne “La brigata del diavolo” (USA, 1968):

“God save the Queen!”

“God save us all…!”

Stan

Interfaith

Mia cara Berenice,

il vostro cappellano ha torto a sollevare tante polemiche: in occasione dell’insediamento del nuovo Presidente americano, la Messa c’è stata.

Cattolica? Sì e no, un servizio interconfessionale.

La Santa Sede era rappresentata da due suore, una dell’Associazione Sanitaria Cattolica, la seconda delle ONG della Valle del Rio Grande.

Il padrone di casa era il rettore della Cattedrale Nazionale di Washington, una chiesa episcopale.

C’erano poi l’Arcivescovo Primate dell’Arcidiocesi d’America della Chiesa Ortodossa Greca, due rabbini capi, due navajo, vari protestanti, un imam e un dirigente musulmano, la Direttrice Spirituale della Task Force Nazionale LGBTQ, il Ministro delle Comunicazioni Globale della Società Internazionale per la Consapevolezza di Krishna, un sikh, una mormone, una scrittrice e autrice di podcast.

Dillo al cappellano.

Come dici? È svenuto?

Quando si riprende, sottoponigli da parte mia questo quesito.

Il Re d’Inghilterra, Capo dell’eretica e scismatica Chiesa Anglicana, porta per questo il titolo di Difensore della Fede (“Defender of the Faith”). L’attuale Principe di Galles ha espresso ufficialmente l’auspicio di poter adottare, se e quando salirà al trono, il titolo di “Defender of Faith”, che io tradurrei come “Difensore delle Fedi”.

Ora, il mio quesito per il buon reverendo è: qual è l’alternativa peggiore? Mantenere il Moloch anglicano, sul cui altare sono state sacrificate la Regina Mary e l’Invincibile Armata, o consegnare anche l’Inghilterra all’ecumenismo?

Un dubbioso saluto.

Stan

L’ultima colonia

Mia cara Berenice,

ultimamente si parla molto di Hong Kong. Prima la “protesta degli ombrelli” – so British! – contro le ingerenze cinesi, poi una seconda ondata di contagi che avrebbe colpito l’ex colonia.

Storia affascinante, quella di Hong Kong, per un patito di storia coloniale e affari cinesi come me. L’ultima colonia, fu appunto soprannominata; l’ultima, in effetti, di un certo peso.

Londra si guardò, fino all’ultimo, dal concedere autonomia o democrazia. Forse era rimasta scottata dall’esperienza della Rhodesia del Sud, forse prevedeva di dover restituire il territorio alla Cina, cosa che la democrazia avrebbe reso ancora più difficile.

Prima di ammainare la Union Jack, ottennero dalla Cina l’impegno a rispettare le prerogative del territorio – a cui l’Impero Britannico aveva lasciato almeno i diritti civili – fino al 2046: una data che, al momento della firma, doveva sembrare lontanissima. Invece, come sempre, tempus fugit, ed eccoci al 2020. Proprio “2046” Wong Kar-Wai ha voluto intitolare un film visionario (Hong Kong-Cina-Francia-Italia-Germania, 2004) che ti consiglio caldamente.

Hong Kong mantiene così uno status post-coloniale, con un Capo del Governo autoctono al posto del Governatore e giudici con i parrucconi; niente elezioni, ma libertà di parola e di stampa.

Le frizioni con il sistema cinese, naturalmente, sono inevitabili e, prima della pandemia, pareva appunto che la situazione stesse precipitando. Potrei sbagliarmi in modo grossolano, ma prevedo che invece l’equilibrio reggerà. Gli ex sudditi britannici che, tutto sommato, godono ancora di una posizione privilegiata, non hanno l’interesse né la forza per strappare grosse concessioni alla Cina. Quest’ultima, a sua volta, non farà saltare il banco, nemmeno dopo il 2046. La formula “Un Paese, due sistemi”, infatti, è una carta importante da giocare, in vista della riannessione di Taiwan.

A Hong Kong rimasi una settimana, qualche anno fa, invitato a tenere l’ennesima conferenza su Venezia; è innegabile che l’antica Dominante desti un enorme interesse in tutto il mondo, un vero passepartout. Il filo conduttore, in questo caso, è che Venezia e Hong Kong sono entrambe città insulari.

Mi aspettavo una metropoli alveare e non la trovai. Sarà che la pendenza del terreno la faceva somigliare – fatte ovviamente le debite proporzioni – a certi borghi italiani, dove parimenti si rinvengono costruzioni accalcate e accatastate, tanto da lasciare a malapena spazio a vicoli tortuosi per raggiungerle. Oltretutto, durante une delle escursioni organizzate per i relatori scoprii che una vasta area esterna è ancora nuda ed erbosa, punteggiata da templi e villaggi da Celeste Impero.

Mi aspettavo una metropoli laboriosa e questa invece la trovai. Il piano stradale era un mosaico di botteghe, bancarelle, negozi, ristoranti. Appunto a una bancarella feci la mia prima colazione con una sorta di tortino al mango. Lo trovai delizioso e con questo vengo al punto immediatamente successivo.

Noi italiani abbiamo un forte pregiudizio nei confronti delle cucine straniere e della cucina cinese in particolare – di cui pure siamo ormai diventati forti consumatori. Bene, non posso parlare della cucina cinese in generale, ma quella di Hong Kong è favolosa.

In parte, è esattamente come se la immagina chi ha visto qualche film di Jackie Chan contro le Triadi: anatre e oche spennate, appese a testa in giù in ristoranti angusti e scuri ma puliti, lampade di carta, ciotole e brodini. Ciò che non mi aspettavo è il grande peso della componente vegetariana. In un tempio fuori mano ci fu servito un pasto rituale interamente vegano di cui non saprei descriverti una sola portata, ma incredibilmente vario e ricco. Anche il pesce non rimase nelle retrovie, con un’escursione serale su un’isoletta di pescatori. Lungo il mare era uno schieramento imponente di ristoranti, diligentemente sorvegliati da gatti.

La scampagnata che mi godetti di più, però, non fu sull’erba o sul cemento, ma sull’acqua. A bordo di una barca scoperta, dove ci fu servito un pasto freddo piuttosto all’italiana, incrociammo fra le imponenti banchine del porto, all’ombra di portacontainer grandi come palazzi. Puoi immaginare la mia esaltazione, in quel periodo finivo di stendere la mia tesi di dottorato sui porti, pixel lattei e montagne di carta giallognola che, con il loro broncio inanimato, tentavano invano di nascondere la guerra feroce per convincere il Collegio d’Indirizzo dell’importanza della port security; eppure non ci pensai, in quel momento, e non voglio rievocarlo ora.

Ai piedi di quelle montagne di metallo galleggiante, sorridevo pensando a chi in Italia, da destra e da sinistra, invocava all’epoca i dazi contro la Cina. “Ci sarebbe un solo modo di fermare questo colossale traffico,” meditai, “e sarebbe una guerra vecchio stampo”: cosa da non augurarsi, naturalmente. Perfino ora, in piena pandemia, i nuovi velieri solcano indomiti i sette mari, portandoci beni tanto esenti da contaminazione quanto necessari.

Perdona il mio entusiasmo, ma considerati comunque una miracolata. Non hai idea di quanto a lungo potrei annoiarti discettando su port safety, port security, Port State Control, Codice ISPS e IMO.

Ti concedo, invece, la grazia.

Stanislaus Rex