Mia cara Berenice,
ti ricordi quella sera, ai Fori Imperiali, in cui ti recitai “Cordova” di Federico Garcia Lorca, al chiaro di luna?
Tu stavi assisa, in posa statuaria e purissimamente classica, su un capitello smozzato, ed eri così furiosa con me che non osai farti notare l’inopportunità di sederti su un capitello. Il tuo nasino, sprezzantemente rivolto all’insù, il mento delicato sorretto dalla manina affusolata, disegnavano con mano ferma e sicura la loro silhouette, alla luce della luna.
Tu eri arrabbiata, convinta che avessi dato eccessivo sfoggio di cultura storica e senso dell’umorismo con quella guida dal caschetto biondo… nugae, naturalmente.
Così, ti presi da parte staccandoci dal gruppo e ti recitai “Cordova” di Federico Garcia Lorca, a simbolo del tuo cuore lontano e irraggiungibile e del mio struggimento.
Ahi, che strada lunga!
Ahi, la mia brava cavalla!
Ahi, che la morte mi attende
prima di giungere a Cordova!
Fingesti di inferocirti e di equivocare: “Sarei io la cavalla?” Scrollasti il musetto, appunto come una cavallina olandese a sangue caldo; ma poi facesti un sorrisetto, con la luna sulle labbra.
Perché mi viene in mente proprio ora?
No, non perché mi sia ulteriormente intrattenuto con qualche graziosa ragazza erudita di storia romana, nella cornice di una finestra di marmo.
È solo che, durante l’abituale lettura mattutina dei giornali, mi sono imbattuto nell’ennesimo articolo sulle pensioni della mia generazione e, ogni volta che qualcuno ha l’audacia di sollevare questo argomento, penso a “Cordova” di Federico Garcia Lorca e me la recito.
¡Ole!
Stan