La parte meno brutta di “Diabolik – Ginko all’attacco!”

Mia cara Berenice,

sono letteralmente murato in casa dalla pioggia che scende, copiosa compatta e ininterrotta, da stamane.

Mi chiedi perché sono andato a vedere “Diabolik – Ginko all’attacco!” (Italia, 2022), seguito dell’impopolarissimo “Diabolik” (Italia, 2021). Be’, un vero fan di Miriam Leone va a vedere tutti i film, anche quelli brutti. Sempre in questo spirito, ti recensirò la parte meno indigeribile della pellicola.

A questo punto, è d’uopo una premessa.

I problemi della saga dei fratelli Manetti sono, a mio avviso, due.

Il primo e più noto è lo stile retrò e minimal impresso a regia e recitazione, un omaggio fedele al fumetto che però, in pratica, dà l’impressione di battute lette dal gobbo da attori imbalsamati. Di questo veleno paralizzante il perfido Diabolik ha imbevuto ogni fotogramma, per cui non c’è alcuna parte della saga che si salvi.

Il secondo è quel misto di abilità sovrumane, fortuna e predestinazione che conferiscono a Diabolik un’aura semidivina. Le probabilità che la Polizia di Clerville possa catturare lui o Eva Kant, o anche far loro un graffio, sono talmente infinitesimali da rendere l’eventualità surreale, privando così la narrazione di ogni suspence e pathos.

Per questo, la parte del sequel più godibile è quella iniziale, quando sembra che l’Ispettore Ginko possa essere un avversario all’altezza, tanto da mettere in campo una serie di originalissimi stratagemmi in grado di ingannare e spiazzare la mefistofelica coppia Diabolik-Eva Kant. Il senso di riequilibrio è accentuato dalla circostanza che anche Ginko può schierare la sua femme fatale, una giovane poliziotta interpretata dalla brava Ester Pantano, da contrapporre validamente a Eva Kant-Miriam Leone: un soffio di aria fresca, quasi un riallineamento dei pianeti del cupo universo di Clerville.

Purtroppo, la giovane poliziotta viene immediatamente rispedita in caserma e sostituita quasi simbolicamente da una collega candida, innocua e svenevole, interpretata da Linda Caridi. Il film ripiomba così nel suo determinismo ineluttabile, in cui il Ministero della Giustizia e la Polizia di Clerville sono entità partorite da qualche divinità lovecraftiana con il solo scopo e destino di essere eternamente umiliate da Diabolik.

Un pugnale sibilante.

Stan

Shosanna

Mia cara Berenice,

Roma sa sempre stupirti.

Capita, ad esempio, che ci sia un cinema al Testaccio, giusto dietro l’ex Mattatoio e il Mercato, due posti che frequenti relativamente spesso, addirittura un multisala, e tu non ne sappia nulla.

Capita che, in quel multisala, si tenga la serata d’apertura di un festival cinematografico fondato dalla Santa Sede per volontà di San Giovanni Paolo II.

Capita che ad aprire le danze sia “Quei due” (Italia, 2022), docufilm dedicato a Costanzo ed Edda Ciano, la coppia d’oro del Ventennio fascista, lei figlia del Duce, lui il Ministro degli Esteri firmatario del Patto d’Acciaio. La regista Wilma Labate ha potuto attingere a piene mani agli archivi dell’Istituto Luce, e il risultato si vede.

Capita che tu già preveda di trovarti in sala da solo con un paio di amici, e invece è così pieno che a fatica la cassiera riesce a infilarti in prima fila.

La prima fila al cinema, un ricordo adolescenziale. Quando andavi a vedere quel film gettonatissimo, la cui fruizione era praticamente un obbligo sociale. Prenotare i biglietti o acquistarli in anticipo, all’epoca, non usava. Così, la bigliettaia ti guardava altezzosa o con compatimento, a seconda dell’indole, e ti snocciolava l’aut aut: “Prima fila, va bene?”

All’epoca, era una corvée a cui ti rassegnavi. Ieri sera, è stato diverso. Lo schermo non era enorme, la posizione della poltrona accettabile… quasi quasi, l’essere esposto agli spruzzi della cateratta di luce aggiungeva alla pellicola una maestosa, sinistra solennità. Gli attori che interpretavano i Ciano, le immagini di repertorio in bianco e nero incombevano su di me come le rovine delle Terme di Caracalla illuminate a giorno per la Carmen di Bizet, proiettando colonne di ombre nere da delirio sotto il sole del deserto.

“Alle ore 14 entrò nel mio ufficio Galeazzo Ciano (l’ultima volta che lo vidi)”.

Stan

Barker and Commander

Mia cara Berenice,

ero nel parco a leggere, quando sono stato distolto dalle mie pagine da una voce maschile che gridava, insistentemente quanto incomprensibilmente: “Terra! Terra!”

Alzati gli occhi, il novello Cristoforo Colombo è risultato essere uomo in pantaloni mimetici. Egli ripeté più e più volte “Terra” a un cane, finché quest’ultimo – probabilmente di sua spontanea volontà, più che in obbedienza al comando – si fu accucciato a terra, guadagnandosi le lodi del padrone. In quel modo, spiegò l’uomo alla donna che lo accompagnava, si era sicuri che non sarebbe finito sotto a un’auto, se avesse visto un gatto dall’altra parte della strada.

Io ne ero molto meno convinto e considerai la scena da un altro punto di vista. L’uomo sul ponte di comando di un veliero, il cane vestito da marinaio aggrappato con le zampe alle sartie, in un mare gonfio e tempestoso. Come in un terrificante film della Disney ambientato nei Mari del Sud di secoli fa, in cui il cane di un pirata fa naufragio su un’isoletta e viene raccolto da un bambino timido e insicuro, intimorito dal suo stesso lignaggio nobile che lo fa discendere da capi, guerrieri ed eroi locali.

Forte della sua esperienza marinaresca, il cane lo incoraggia a prendere parte all’annuale gara di pagaia sulle tipiche imbarcazioni tradizionali, fino a condurlo alla vittoria contro lo spocchioso figlio del Governatore francese, di cui conquista anche la sorella. Il titolo potrebbe essere “Barker and Commander”, in italiano “Cooke il cane pirata”.

Nel sequel, ambientato negli anni ’60 con l’arcipelago che comincia ad aprirsi al mondo e al turismo, due discendenti del cane e del ragazzo conducono le isole all’indipendenza dalla Francia e alla prosperità economica, grazie al giacimento di guano alimentato da uno stormo di simpatici uccelli che cantano a cappella.

Dopo la mediocre performance del primo film, il sequel è un flop annunciato, nonostante gli eroici tentativi degli esperti di marketing della Disney che, prendendo a pretesto alcuni incidenti sul set, si inventano un boicottaggio delle riprese da parte del Governo francese.

“In parte fu una nostra personale vendetta per l’affondamento del Rainbow Warrior,” confesserà in seguito uno dei produttori in una deposizione giurata. “In parte, pensavamo davvero che l’antipatia per i francesi fosse sufficiente a far vendere il sequel”.

Su questa bufala costruita ad arte, Netflix costruirà una breve serie di otto episodi, “The Revanche”. Altro flop.

Uno sconsolato saluto.

Stan

Generiche effusioni

Mia cara Berenice,

ieri sera ho rivisto “Dove vai in vacanza?” (Italia, 1978), film a episodi tra i quali spicca di gran lunga il terzo, “Vacanze intelligenti”, diretto e interpretato da Alberto Sordi.

Dispiace viceversa rilevare quanto sia pessimo “Sì, buana”, diretto da Luciano Salce con Paolo Villaggio, con una nutrita rappresentanza del cast della saga di Fantozzi.

Liberamente ispirato a un racconto di Ernest Hemingway, l’episodio è ambientato durante un grottesco safari africano per turisti italiani, tra i quali figura un’insolita percentuale di bellissime donne discinte. Una di queste si rivela la più classica delle femme fatale, determinata ad approfittare del pretesto di un incidente di caccia per liberarsi del facoltoso marito. Inizialmente, come da copione, cerca di usare le sue arti femminili per armare la mano del protagonista, spacciato dall’organizzazione per improbabilissimo cacciatore inglese. Non riuscendo a persuaderlo, si affida alla saggezza popolare del “chi fa da sé, fa per tre” e, durante l’incontro con un leone, stende senza tanti complimenti il coniuge con una fucilata.

Distrutto dal rimorso – non ha premuto il grilletto, ma nemmeno denunciato -, il “cacciatore professionista Wilson” si trascina per l’Africa, ridotto all’ombra di se stesso, finché dall’Italia gli perviene una lettera della mantide. Quest’ultima gli annuncia che si appresta a incassare l’assicurazione sulla vita del marito e attingerà al cospicuo indennizzo per ricompensare il silenzio di “Wilson”.

La missiva si chiude con il saluto “Generiche effusioni” che ho trovato semplicemente meraviglioso, una vera gemma su una montatura scadente. Utilizzato nella messagistica contemporanea, a mio parere, renderebbe perfino la friendzone piacevolissima.

Generiche effusioni.

Stan

PS: Nell’Africa coloniale, “buana” era il deferente appellativo con cui gli indigeni si rivolgevano ai bianchi.

I film di Natale

Mia cara,

l’Epifania è passata da tempo, le feste di Natale sono un lontano ricordo, le luminarie sono state smontate da gran parte delle vie cittadine e una webcam penzola triste dal mio computer, dopo una giornata di lavoro agile – nome mai fuorviante come oggi, direi.

Per fortuna, il palinsesto televisivo regge e, anzi, contrattacca impetuoso, come il generale Brusilov nel 1916. Alcuni canali, in particolare, sembrano disporre di una riserva inesauribile di film natalizi americani, accomunati quasi tutti dagli snodi essenziali della trama.

Una ragazza in carriera della grande città si ritrova – per lavoro, per un guasto all’auto, per una tempesta di neve, per visitare la famiglia in occasione delle feste – in un piccolo paesino innevato, pervaso e imbevuto di spirito natalizio, dove tutto congiura per sgretolare la sua armatura di donna rampante contemporanea.

Alfiere dell’assedio è il co-protagonista maschile, solitamente vecchia fiamma della protagonista o giovane vedovo. Superando gli ostacoli frapposti dalle circostanze e dall’incancrenito carrierismo della ragazza, alla fine l’amore trionfa ed ella decide di trasferirsi, armi e bagagli, nel paesino imbiancato dalla neve e dall’assenza assoluta di afro-americani o ispanici.

Il meccanismo è talmente collaudato che il Saturday Night Live gli ha dedicato uno sketch nientemeno che con Scarlett Johansson. Restando in tema di attrici famose, ho avuto la sorpresa di imbattermi, durante la mia maratona natalizia, in volti relativamente noti, se non proprio sulla cresta dell’onda, come Jessica Lowndes e Lyndsy Fonseca.

Un zuccheroso saluto.

Stan

Videoclip estivo adolescenziale

Mia cara Berenice,

il caldo che gli esperti ci preannunciano infernale e terribile – ebbene sì, a virologi ed epidemiologi si sono affiancati meteorologi e climatologi, in una terrificante falange macedone – per il momento ci grazia ancora e, attraverso le finestre aperte e il giardino, spira un delizioso vento fresco.

Io mi immagino nei panni di una ragazzetta, vestita di abiti stazzonati e alternativi che tentano invano di mimetizzarne la beltà, inerpicarmi sul limone del giardino – che pessima idea sarebbe, dato che, nonostante gli sforzi di potatori e giardinieri, è infestato dalla fumaggine: qualcuno che sia stato fra quelle fronde, nemmeno il Covid Hospital lo vorrebbe…

Comunque, la ragazzetta si issa in cima al limone, distende le braccia magrissime e fragili come ramoscelli e si abbandona al vento, sorridendo fino a trasformare gli zigomi in punte di lancia eburnee. Sullo sfondo parte una musichetta, ma con pretese di profondità. In quel momento, lo spettatore capisce che la ragazzetta ha imparato, almeno per un istante, a fluttuare sulla tempesta emotiva dei suoi sedici anni.

Ti vedo perplessa di fronte a questa mia opera registica; eppure il film, te lo posso assicurare, farà faville al botteghino. Forse ti chiedi perché la produzione abbia affidato proprio a me la direzione. Evidentemente ti sei persa l’intervista a Rai 3 in cui parlo della mia “regressione adolescenziale”.

Secondo gli esperti – ancora loro – è una conseguenza diffusa della quarantena. Alcuni non vogliono più uscire di casa, nemmeno in Fase 2. Altri, come me, diventano irrequieti e non vorrebbero mai rientrarci. Vorrei correre lungo una spiaggia sventolando un giubbetto di jeans, come in qualche agghiacciante videoclip estivo.

Ecco di nuovo la ragazzetta scatenarsi, affondando i piedi nudi sulla spiaggia bagnata. Indossa dei leggeri abiti sportivi sopra il bikini. È evidente l’impegno profuso dai costumisti per dare alla giovane attrice un aspetto casual e innocente, ma comunque sexy. Ubriaca per la corsa che conclude scompostamente, piroettando, arriva nelle viscere scure e umide di un pontile, dove un ragazzo più o meno suo coetaneo la bacia appassionatamente contro un palo eroso dalla salsedine.

Cosa potrebbe interferire con una storia d’amore così naturale e tenera, mi chiedo? La fine dell’estate? Una differenza di classe sociale? Una perfida amica o ex? L’equivoco di un apparente bacio, strappato a lui o a lei intorno a un falò sulla spiaggia?

Alla fine, comunque, tutto si aggiusterà. Ecco il ragazzo, con quei suoi adorabili ricci che sembrano quasi naturali, impugnare una brioche gonfia di gelato, affondare l’indice nella farcia alla vaniglia e, con quel fiocco di neve bianco, imbrattare scherzosamente il nasino di lei, sul bistrot del pontile, al tramonto.

Ribadisco, mia cara, che questa tua perplessità così ostentata mi sembra fuori luogo. Redime te captum quam queas minimo. Se hai un attacco di regressione adolescenziale, cerca almeno di ricavarne un buon blockbuster.

Un ciak e un saluto.

Stan

Da una foto troppo scattata a un film mai girato

Mia cara Berenice,

rammenti la mia esplorazione del centro storico di qualche giorno fa? Come puoi ben immaginare, l’ho analiticamente documentata con la fotocamera del cellulare. Maniaco di Instagram io? Dicesi scienza, mia cara, e accurata diaristica delle operazioni.

Dunque, mentre percorrevo via del Corso, arrivato all’altezza di Palazzo Chigi, ho notato, su una delle vetrine di Zara di fronte alla Galleria Alberto Sordi, la scritta a caratteri cubitali neri: “Bentornati!”

Naturalmente ho scattato un’istantanea e, il giorno dopo, ho avuto la sorpresa di trovare foto quasi identiche sulle copertine dei principali quotidiani nazionali.

Bella forza, sbufferai tu. Uno dei luoghi più rappresentativi di Roma e d’Italia, la trappola per gonzi posizionata da qualche addetto al marketing… tutto giusto, ma lasciami immaginare mirabolanti avventure giornalistiche. Cappello con la lobbia, trench color acciaio, una vecchia macchina fotografica anni ’20 dal flash enorme: come Gwyneth Paltrow in “Sky Captain and the World of Tomorrow” (USA-GB-Italia, 2004), ma con una punta di classe in più.

Un’indagine noir ai tempi della pandemia. Un giovane giornalista di belle speranze, ovviamente precario. Il redattore titolare si sente minacciato da lui e gli affida un innocuo servizio sulle attività di volontariato in favore delle famiglie bisognose, all’estrema periferia di Roma, quella che veniva definita “disagiata” già prima del virus.

Di quel mondo, deus ex machina – è proprio il caso di dire – è Monsignor Korwin-Mikke, un alto prelato vaticano. Questi prende il giovane giornalista sotto la sua ala, forse in parte per quella che il Manzoni definiva, eufemisticamente, “carità pelosa”. È così che il protagonista comincia a interrogarsi, poco a poco, sul mondo della sanità privata che ruota intorno al prelato, i cui torbidi interessi e speculazioni, lungi dall’arrestarsi davanti alla pandemia, ne sono galvanizzati…

Ahimè, questa cosa non si può girare. La Santa Sede e la stampa cattolica mi farebbero a pezzi… e poi, io stesso temerei di dare spago ai complottisti, rigogliosi ormai come la gramigna.

Peccato, perché si poteva ingentilire il tutto con una figura femminile di spessore. Chi sarebbe potuta essere? Una ragazza di periferia, orgogliosa e indomita percettrice del pacco alimentare? Una malata del COVID Hospital, costretta a un protratto autoisolamento per una remissione particolarmente lenta del virus? Intrattiene con il giornalista dialoghi liquidi, ma densi e raggrumati come gocce di mercurio attraverso la videocamera dello smartphone o un uscio sigillato.

Questa seconda sarebbe una soluzione ottima, eppure sento la mancanza di una femme fatale: una rampolla della nobiltà nera romana, appartenente al circolo del monsignore? Abiti e trucco dark di gran firma? Il messaggio fra le righe di una sotterranea gelosia per il rapporto fra il giornalista e Korwin-Mikke?

Ci sarebbe stato posto per entrambe le figure femminili, la giovane aristocratica sarebbe stata l’antagonista o il braccio destro (sidekick) di quest’ultimo.

Peccato.

Un rassegnato saluto.

Stan