Il Signore delle Zanzare

Mia cara Berenice,

ho cominciato la giornata nel miglior modo possibile, schiacciando con una manata contro il muro una zanzara grassa e intontita dopo la notte di bagordi che ha lasciato, da par suo, un’enorme chiazza di sangue sul muro.

Da una parte, ho annotato mentalmente che prima o poi dovrò fare ridipingere. Dall’altra, questo cimitero degli insetti molesti, mappato lungo le mura di casa come su planetario, mi suscita compiacimento e si attaglia alle arie di bullo delle zanzare che uso darmi a Roma.

“Sei stato sulla Tiberina anche ieri sera?”

“Naturalmente”.

“Ma le zanzare non ti mangiano vivo?”

“Le zanzare? Non sapete nemmeno cosa sono, a Roma. In Veneto, abbiamo zanzare (aggiungere iperbole a piacere sul numero e le dimensioni degli insetti veneti, es.: così tante che ci puoi camminare sopra, grosse come un pugno, voluminose come gabbiani)”.

Il tutto con un’aria da Crocodile Dundee che sventola il coltellaccio da caccia. Zampironi? Spray? Roba da donnette.

Un virile saluto.

Stan

In cauda venenum

Mia cara Berenice,

stando alla previsioni meteorologiche, oggi dovrebbe essere l’ultima giornata di peine forte et dure nella capitale.

Il cielo è lattiginoso come nella Pianura Padana, l’afa degna dell’India Britannica, tira un vento caldo da avamposto della Legione Straniera nel Sahara e cadono rade gocce di pioggia, come nella leggendaria tortura cinese.

Per giunta, le reti sociali mi informano che a Venezia si è abbattuto un violentissimo temporale, con scudisciate d’acqua a frustare spietatamente Piazza San Marco.

In altre parole l’antitesi e, al tempo stesso, la perfetta sintesi della tempesta perfetta.

Insomma, questa estate sta facendo l’uscita di scena che merita.

Posso solo sperare, a questo punto, che vento e grandine non scelgano queste settimane cruciali per fare visita ai vigneti della Terraferma.

Uno scaramantico saluto.

Stan

PS: Ora sono al parco e la situazione sembra migliorata. Cani, cani e cani. Cani ovunque. Branchi di cani.

Il Fantasma di Roma

Mia cara Berenice,

il Comando Aereo ucraino ha ritenuto opportuno dichiarare ufficialmente che non esiste alcun Fantasma di Kiev, nessun asso dei cieli che avrebbe abbattuto decine di aerei russi… o meglio, “il Fantasma di Kiev è una personificazione dei piloti della 40^ Brigata Tattica Aerea che difende i cieli della capitale”.

Un analogo, seppur meno drammatico giuoco di specchi e cortine fumogene è in corso in Italia, sempre con il coinvolgimento dell’Aeronautica Militare.

Ieri, le previsioni meteo promettevano forti piogge e una rottura della cappa d’afa. Non è caduta una sola goccia, almeno nei quartieri centrali di Roma; anzi, a malapena il cielo si è rannuvolato. Ciononostante, l’aria era indubbiamente più fresca, e così stamattina.

Non tirava però un alito di vento, o forse erano state chiuse le finestre e le porte tagliafuoco dei corridoi, fatto sto che mi sono visto costretto ad attivare l’aria condizionata. Ora, però, il cielo è coperto e l’ho spenta.

Insomma, la situazione è ancora ambigua, sfuggente, confusa. Sembra di stare nella Roma del 1943, nido di spie e cospirazioni, nella Madrid della guerra civile o nella Berlino della Guerra Fredda.

Mi aspetto, a questo punto, uno scambio di prigionieri nel cuore della notte, a Ponte Milvio: l’autore ispanofono di qualche hit estiva e un’influencer perennemente in bikini in cambio di una ragazza freddolosa con il plaid sulle spalle e un caldaista, in tuta e cartelletta di documenti per le detrazioni fiscali.

Un saluto dietro gli occhiali scuri.

Stan

Amache urbane

Mia cara Berenice,

anche nel Nord Italia è prevista un’effimera tregua temporalesca molto simile a quella che tu mi descrivi, mentre nel sempre fortunato Mezzogiorno non beneficiamo nemmeno di quella. Subiamo invece un lungo, logorante assedio che ha fatto cadere almeno il mio personale mastio. Lentamente, per fame e sfinimento. Per quasi l’intero mese di giugno, era riuscito a non accendere l’aria condizionata, né a casa né in ufficio, esattamente come l’anno scorso. In luglio ne ho fatto un uso moderato e sporadico. Ora, sul finir del mese, mi sono avvolto in una bolla di aria fredda, come un abitante di Dubai e Singapore – anche negli Stati Uniti, per la verità, rammento un modus vivendi simile.

Qualche giorno fa, dopo avere da ore spento il condizionatore e aperto le finestre, mi sono svegliato di colpo all’alba, sudato: un vero affronto personale, uno schiaffo in pieno viso. Ho galleggiato in dormiveglia fino alle sette circa, ripensando a “Licorice Pizza” (USA, 2021), da poco rivisto alla Tiberina, e a quei materassi ad acqua venduti dal protagonista con l’aiuto di fanciulle in bikini: saranno freschi, almeno? Alla fine, ho deciso di approfittarne almeno per andare in ufficio prima del solito; l’addetta alle pulizie della mia stanza è quasi morta di paura, vedendomi comparire prima delle dieci.

Eppure, a Villa Pamphili, il vento soffia ancora, parafrasando Bertoli, non fresco, ma gagliardo. Proprio ieri, in pieno meriggio, mi sono sistemato sul crinale del colle, nei pressi della fontanella, la schiena posata al tronco di un pino, e un cristiano poteva starsene lì a leggere, senza dover leggere il libro con la sinistra e sventolarsi con la destra. Verso sera, poi, il clima era addirittura delizioso, ti beavi talmente delle silhouette dei pini che avevi voglia di ritagliarle da quel cielo fosco.

Il problema vero, insomma, sono i muri, con buona pace della coalizione di destra che quasi certamente andrà al governo dopo le elezioni di settembre. Bisognerebbe riconvertire all’uso urbano le amache, che salvarono le mie notti nei soffocanti Llanos del Venezuela, tra un tappeto di stelle e uno di rane gracidanti. Dormii saporitamente, senza pensare alle anaconda che strisciavano nei fossi e canali circostanti. Ci avrebbero pensato gli indigeni, gli indigeni pensavano sempre a tutto. Il giorno dopo ne afferrarono una per le froge e ce la gettarono in braccio, come una sirenetta.

Un saluto da quegli anni di beata incoscienza.

Stan

Mimetizzazione

Mia cara Berenice,

per il fine settimana è prevista un’ulteriore, brusca impennata della temperatura, già ben posizionata a trenta gradi abbondanti.

Per il momento, la prima linea di difesa tiene. Ho estratto dall’apposito vano vicino al frigorifero il telecomando del condizionatore, inserito due pile stilo e verificato che funzioni – anche perché avrò ospiti, questo fine settimana -; ma, al termine di tutto ciò, non ho azionato l’impianto. Tengo tutte le finestre aperte e, attraverso le fessure dei balconi, si genera un discreto mulinello d’aria. Quanto a me, me ne sto sdraiato sul divano e cerco di non muovere un muscolo, come un cecchino appostato tra le rovine di Stalingrado.

“Se stai fermo,” mi sussurra all’orecchio il mio vecchio sergente istruttore, digrignando al rallentatore quei suoi denti gialli di cui conosco ogni venatura, “il Sole non ti vede”.

Ai primordi dell’immigrazione in Italia, quest’ultima era rappresentata dai cosiddetti “vu’ cumpra’”, venditori ambulanti nordafricani che lavoravano porta a porta o lungo le spiagge, nella stagione estiva. Pellegrini indefessi, uno di loro arrivò perfino nella casa dei miei nonni, a F., dove ormai nemmeno il Vescovo mandava più preti o il Comune stradini.

Mio nonno, senza scomporsi né derogare minimamente alle consuetudini, invitò l’ospite ad assaggiare il vino di casa. Egli accettò, ma chiese di poter assaporare il prodotto casalingo della vite nel buio della cantina, per non farsi vedere da Allah.

Quanto a mio nonno, interrompeva l’assunzione di alcolici un giorno prima della visita dal cardiologo, “per non fare brutta figura”.

Un immobile saluto.

Stan

Vantarsi del vento

Mia cara Berenice,

mentre il Servizio Meteorologico annuncia l’arrivo dell’anticiclone Caronte, mio orgoglio e vanto è il vento secco e fine come un buon vino che ieri batteva Monteverde e Villa Pamphili, così che lo stendersi sul curvo declivio e leggere un libro sull’Imperatore Tiberio era non solo sopportabile, ma gradevolissimo.

In un’epoca in cui l’estate è l’equivalente di un’invasione di draghi e le influencer vendono le loro flatulenze in barattolo, non suona strano vantarsi del vento, una locuzione che anzi ingloba l’accezione negativa, di fatuità che si attribuisce a questo verbo.

Si può perfino immaginare un’immaginaria voce di dizionario.

Vantarsi del vento [gerg.], vantarsi per nulla, inutilmente.

Meglio ancora, di enciclopedia.

Vantarsi del vento [gerg.], vantarsi per nulla, inutilmente. Alturo i Perugo fa risalire l’espressione addirittura a un brano di Curzio Rufo su un ammiraglio persiano che si sarebbe vantato di una vittoria dovuta esclusivamente a favorevoli condizioni meteorologiche; secondo von Sybel, peraltro, l’ammiraglio in realtà avrebbe garantito venti e correnti favorevoli, poi non concretizzatisi. Secondo de Riquer i Morera, in ogni caso, l’episodio bene o mal riportato da Curzio Rufo non avrebbe nulla a che fare con l’espressione, che sarebbe ben più recente e risalirebbe alla Seconda Guerra Mondiale, quando il generale José Millán-Astray, commentando le controffensive russe sul fronte orientale, affermò sprezzantemente che Stalin “si vantava del vento freddo della steppa”. Per García Negro, in realtà, le origini dell’espressione non sono ricostruibili ed essa sarebbe “semplicemente nata ‘a senso’, coadiuvata da una certa naturale orecchiabilità sia fonetica che concettuale”.

Un dotto saluto.

Stan

Secco

Mia cara Berenice,

sono seduto a una piazzetta di forma trapezoidale, uno scampolo di paesino ricavato al confluire di due arterie romane. Alla mia destra, un donnone catechizza aggressivamente un ragazzo che lo ascolta distrattamente, fumacchiando. Alla mia sinistra, un anziano sonnecchia, le mani posate sulle ginocchia.

Il punto è che il termometro segna 33 gradi, ma si sta benissimo. Un venticello mi soffia in faccia e sotto le ascelle e, in generale, è deliziosamente secco.

Deliziosamente secco, dico… certo, fiumi e bacini idrici si prosciugano, le Autorità preannunciano il razionamento dell’acqua in cento Comuni.

Ricordo la prima vacanza in Puglia, tanti anni fa. L’appuntamento al casello dell’autostrada all’alba. Mio padre in piedi in quella luce grigia che si faceva cambiare l’olio. L’intera Penisola attraversata in auto. L’arrivo nella masseria. Un orizzonte piatto come il mare, color ocra. Muretti a secco e ulivi nodosi. Non una nuvola. Il vento che spazzava la polvere. Per me e mio padre, scesi dal Veneto, era come essere arrivati nel Sahara o su Marte.

Ancora oggi, quando da Roma risalgo in Veneto, mi tuffo con gli occhi nel verde smeraldo dei prati dai finestrini del treno.

Non che la siccità sia sconosciuta, su al Nord. Il polso del Po viene tastato con preoccupazione da anni, da anni si annota il restringimento dei ghiacciai sulle Alpi e ogni estate si porta dietro le ordinanze sindacali che vietano l’irragazione di campi e giardini: provvedimenti pesanti da firmare, in territori in cui l’uva vale oro. Mia nonna si rabbuiava e ricordava certe estati in cui le crepe della terra riarsa inghiottivano i pulcini. Quando qualche temporale estivo rompeva la cappa d’afa, il suolo era troppo esausto anche per abbeverarsi, si formavano torrentelli maligni e l’acquazzone portava più danni che sollievo.

Un raccolto saluto.

Stan

Sole e luna

Mia cara Berenice,

dopo alcuni giorni di tempo eccezionalmente fresco e mite, oggi il sole va e viene; data la sua violenza a ridosso del solstizio, questa alternanza ha un sapore bizzarro e inquietante, come un’eclissi. Sarà che, soprattutto in questo momento storico, richiama alla mente le farneticazioni di Dugin sulla Russia solare e lunare.

Indifferente al tuono dei cannoni sul Donbass, intanto, qui l’astro continua a giocare a nascondino.

Quando fa capolino tra le nubi, illumina la Roma estiva torrida e desertica, la Roma canicolare dell’immaginario collettivo, con le strade vuote e ministeriali, bambini e nonni affastellati a Ostia.

Quando si spegne, ecco riemergere una Roma più fresca e schietta in cui i ministeriali, quasi tutti richiamati dal lavoro agile, si dirigono in ufficio e continueranno a farlo fino ad agosto, interrogandosi nel frattempo su a chi appioppare i figli liberati dalla scuola. Non sempre, del resto, ce n’è bisogno. Alcuni sono intenti a ripristinare i tradizionali festeggiamenti per l’ultima campanella, interrotti in due anni di pandemia, tra scherzi e fontanoni; altri si macerano nel melodramma dell’esame di Stato.

E i turisti poi, ve li siete forse dimenticati? Come mai pensate che Roma si svuoti, proprio quando accorrono più numerosi? Eccoli diretti dalla bacchetta delle loro guide, come orchestrali, in Piazza Venezia, in Piazza di Spagna, lungo i Fori Imperiali. Eccoli sballottati sui sempre più rari carretti a cavalli. Eccoli studiare e ristudiare le mappe della metro o della tramviaria.

Ecco che riesce il sole e i visitatori scompaiono, si volatilizzano; restano solo, oscillanti nell’aria, le statistiche dell’Agenzia Nazionale del Turismo. Resta però in ombra la Galleria Alberto Sordi, che si prepara alla ristrutturazione. Il Lungotevere, dove sono ormai pronti i gazebo di bancarelle e ristoranti. Gli anfratti dell’Isola Tiberina, dove si sta approntando l’annuale festival cinematografico estivo. Nel piccolo parco davanti a casa mia, altre bancarelle sfidano il solleone, a una delle bambine dipingono con gli acquerelli. Nella scuola elementare di fronte dovrebbe essere in allestimento il seggio per il referendum, ma non se ne vede traccia.

Un saluto in chiaroscuro.

Stan

Visione periferica

Mia cara Berenice,

d’estate, trovo che sia una buona idea andare in ufficio piuttosto tardi, uscire col fresco la sera, magari mangiare un boccone in Ghetto e fermarsi all’arena estiva: ad esempio quella in Piazza San Cosimato, a Trastevere, a vedere “Rebecca – La prima moglie” (USA, 1940), di Alfred Hitchcock, con Laurence Olivier e Joan Fontaine.

Alle spalle dello schermo, naturalmente, si ergono nell’oscurità i palazzi. Ogni tanto si accende la luce di qualche finestra e pare zabaione in cui intingere un biscottino di pasta frolla, tanto è gialla rispetto al bianco e nero dello schermo. Sui tetti, di quando in quando, plana qualche aereo in decollo o in atterraggio a Fiumicino o a Ciampino, le luci lampeggianti sulle ali e sulla fusoliera. Sotto lo schermo, montato piuttosto alto, corrono i bambini, antichi padroni di Piazza San Cosimato, facendosi luce con i cellulari o piccole torce.

Nessuna lamentela, fa parte della poesia del cinema all’aperto. Come nell’arena sull’Isola Tiberina, che aprirà a breve, quando i gabbiani lambiscono lo schermo o il mormorio del Tevere funge da colonna sonora.

D’altronde, non c’è cinema senza contorno. Nelle vecchie sale si fumava come turchi, si schiamazzava dai palchetti, si vendevano commestibili tra le file. Anche in quelle di oggi, sappilo, la calma è solo apparente. Le maschere se ne stanno acquattate nell’oscurità, spiando la fine del primo e del secondo tempo per predisporre le uscite o quel tale, in fila H, troppo zelante nell’inquadrare lo schermo con lo smartphone.

Oltre il fascio di luce che svetta sui sedili, il proiezionista armeggia nella sua cabina. Rispetto ai tempi della pellicola, dà un’occhiata solo distratta alla macchina. Non tanto perché non possano verificarsi inconvenienti, ma perché quelli possibili – un inceppamento del server, la morte della lampada a gas – sono irrimediabili: non c’è che da proiettare sullo schermo la scritta che annuncia l’annullamento della proiezione per problemi tecnici, ammesso che sia possibile, dare il relativo annuncio al microfono e riaccendere manualmente le luci. A seconda della regole vigenti nell’esercizio, la cassa provvederà o meno a rimborsare i biglietti. Così, il proiezionista scarica il film in programma il giorno dopo, giga e giga di fotogrammi, dal disco fisso consegnato dal corriere o dal collegamento satellitare, preparandosi a montarlo elettronicamente.

Nell’atrio, il cassiere sonnecchia o stampa lo statino della serata. Per ingannare il tempo, c’è il barista con cui fare quattro chiacchiere.

THE END

Stan

La guerra delle spiagge

Mia cara Berenice,

se il turismo di massa è nato dopo il boom del dopoguerra, possiamo dire che dai tempi dello sbarco in Normandia le spiagge sono sinonimo di guerra.

Guerra per prenotare l’ombrellone, ogni anno è “estate da tutto esaurito”, con annessi “inevitabili rincari”.

Guerra per arrivarci, all’ombrellone, tra code sulla Statale e appartamenti “vista mare” in realtà più lontani del Comando di von Rundstedt o del Führerbunker.

Guerra contro la sabbia bollente, i vicini rumorosi, i bambini, i palloni, i vitelloni, i venditori ambulanti, gli animatori e i listini di bar e ristoranti.

Guerra contro il cibo scadente e surgelato.

Guerra d’infiltrazione, strisciante, per raggiungere la sabbia libera senza essere cacciati via con qualche pretesto.

Guerra per cacciare i concessionari che cacciano i bagnanti infiltrati nella spiaggia libera o contrabbandieri di cibo o bevande portati da casa – negli stabilimenti di Bacoli, secondo il Corriere della Sera e lo stesso locale Comune, si viene perquisiti all’ingresso, alla ricerca di melanzane alla parmigiana o bottigliette di tè freddo.

Guerra contro le meduse e le alghe, queste ultime innocue, ma sozze e ributtanti.

Guerra per andarsene, tra PR che tappezzano i marciapiedi di volantini delle discoteche e nuove code.

Guerra contro i servizi di costume dei telegiornali.

Insomma, come diceva von Clausewitz, “la spiaggia non è che la prosecuzione della guerra con altri mezzi”… oppure era il contrario?

Un dubbioso saluto.

Stan