Onore al guerriero

Mia cara Berenice,

nella letteratura e nel cinema cyberpunk vediamo agglomerati di stringhe darsi battaglia in metropoli virtuali o, all’opposto, quelle stesse stringhe farsi carne e portare morte e distruzione nel mondo reale, sotto le sembianze in angeli bionici.

“Ho visto cose che voi umani non potete neanche immaginare,” rivelava l’ultimo replicante di “Blade Runner” (USA-Hong Kong, 1982), “navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione… i raggi B balenare nel buio, vicino alle porte di Tannhäuser”.

Nulla che possa impressionare un funzionario di ruolo, non dopo aver visto una fattispecie giuridica atipica raggrumarsi in un unico denso, opaco, perfetto granello di sabbia e infilarsi, lenta e precisa, nella mastodontica macchina amministrativa, paralizzandola e facendola stridere e gemere, come se gli ingranaggi in affanno celassero la carne tormentata sotto la pelle metallica di una vergine di Norimberga.

In quel momento infinito, come il grande spadaccino che sente la stoccata avversaria configgerglisi tra le costole, egli non può fare a meno di ammirare la prodezza chirurgica del nemico, la mosca che atterra il pachiderma, l’assassino giunto al capezzale dell’Imperatore, nel padiglione più riposto del palazzo sorvegliato da diecimila sentinelle impennacchiate.

Sventato all’ultimo istante l’attentato, ecco gli ufficiali, magistrati, medici di corte chinarsi sul cadavere, il più anziano dei Ministri, cieco, le unghie adunche nella sua sudicia palandrana da cerimonia, chiedere la parola a difesa del Comandante della Guardia che già ha posato la sua testa sul ceppo. La sua voce stridula è come una lama su una cote: “Maestà, questo è un assassino antichissimo, evocato dai sacerdoti della Roma più arcaica, quando la legge si articolava in formule magiche, plasmato nella creta, sopravvissuto per innumerevoli ere, monarchie, imperi, repubbliche e anarchie, reduce dall’attraversamento di dimensioni inimmaginabili, pervenuto fino a noi! Non si può fermare questo assassino, signore! Ringraziate per la vostra vita, perché è dono degli dei!”

Non hai le lacrime agli occhi? Eppure, forse, tu continui a preferire la razionale burocrazia austriaca.

Ti compatisco.

Stan

Il grande causidico

Mia cara Berenice,

il processo a Santa Giovanna d’Arco, tenutosi in un tribunale ecclesiastico nella Francia filoinglese, fu complicato. La Pulzella d’Orléans, infatti, benché analfabeta aveva innate capacità non solo militari, ma anche giuridico-canoniche.

L’accusa schierò Pierre Cauchon, Vescovo di Beauvais e di Lisieux, anglofilo fidato e fine giurista.

Cauchon avrebbe chiesto a Giovanna se ritenesse di essere in grazia di Dio. Se l’imputata avesse risposto di sì, avrebbe commesso un grave peccato di superbia; se avesse risposto di no, sarebbe stata praticamente rea confessa.

Giovanna d’Arco avrebbe disarmato il chierico rispondendo: “Se non ci sono, Dio voglia mettermici; se ci sono, Dio voglia mantenermici”.

Forse fu lo Spirito Santo a farla parlare… o forse Couchon non era all’altezza dello steward della Fiera di Roma di stamattina.

Eravamo in fila tra i padiglioni, in attesa di essere introdotti allo scritto di un concorso da dirigente delle Dogane.

Una hostess aveva raccolto le nostre autodichiarazioni Covid, uno steward ci aveva stretto al polso i braccialetti con il codice QR… ed ecco che una candidata vorrebbe andare in bagno.

L’istanza è di competenza di uno steward più anziano, calvo e massiccio, assiso tra le due file come il Napoleone manzoniano tra i due secoli.

“Posso andare in bagno?”

“Se lo chiede a me, devo dirle di no”.

La donna accenna una protesta, ma l’omone la interrompe e ripete, scandendo: “Signora, se lo chiede a me, devo dirle di no”.

La candidata capisce e va in bagno di sua iniziativa.

La supremazia assoluta della tradizione romano-canonica italica è confermata.

Un commosso saluto.

Stan

Avvocatesse

Mia cara Berenice,

a lungo le toghe di avvocato e magistrato sono state negate alle donne – in netto contrasto con le Facoltà di Giurisprudenza e i Palazzi di Giustizia dei giorni nostri, quasi a dimostrare un certo intimo legame fra il femminile, la legge e la giustizia.

Forse per questo la letteratura ha precorso i tempi e il cinema ama porre argomenti tecnico-giuridici sulle labbra di personaggi femminili apparentemente insospettabili.

Qualche sera fa, mi è capitato di rivedere “Demolition Man” (USA, 1993), con Sylvester Stallone, Sandra Bullock e Wesley Snipes. La pellicola è ambientata in un futuro prossimo in cui, tra le altre cose, Arnold Schwarzenegger è diventato non solo Governatore della California, ma anche Presidente degli Stati Uniti. Nello spiegarlo a un basito Stallone, nelle vesti di un poliziotto dei giorni nostri svegliato dall’ibernazione, una giovanissima Sandra Bullock precisa puntigliosamente che la Costituzione federale è stata emendata: nel testo attuale, infatti, il Presidente deve essere nato negli Stati Uniti, mentre Schwarzenegger è venuto alla luce in Austria.

Ieri, invece, ho visto al cinema “L’ombra del giorno” (Italia, 2022), con Riccardo Scamarcio e Benedetta Porcaroli. Quest’ultima interpreta un’ebrea in fuga dal regime fascista che, riparata come cameriera in un ristorante di Ascoli, si ritrova a servire il pranzo a una tavolata di gerarchi e, con il pretesto di fare conversazione, li mette in grave imbarazzo citando i diritti della donna previsti dal Programma di San Sepolcro, l’originario manifesto dei Fasci di Combattimento.

Come dimenticare, poi, la Marisa Tomei di “Mio cugino Vincenzo” (USA, 1992) che, oltre a testimoniare come esperta in campo automobilistico, spiega in modo memorabile la procedura penale al non proprio erudito protagonista.

Insomma, non c’è solo quella svampita di Ally McBeal, indegna di pulire le scarpe alle serie, battagliere Sostitute Procuratrici di “Law & Order”.

Vostro Onore, ho concluso.

Stan

Il colosso d’argilla con i piedi nella sabbia

Mia cara Berenice,

hai perfettamente ragione, l’Allargamento è stato un errore. I Paesi dell’Europa dell’Est venivano da decenni di vassallaggio nel Patto di Varsavia ed è normale che ora difendano, con le unghie e con i denti, la sovranità nazionale.

La Polonia, in particolare, ha forti radici cattoliche, ulteriormente rinsaldate dalla Guerra Fredda: nulla di male, ma l’Unione Europea è laica e tutela i diritti LGBT.

Una frattura allargata – altro assurdo paradosso – dalle politiche di Coesione Territoriale che, essendo parametrate sullo sviluppo regionale, fanno piovere soldi proprio sugli Stati membri più riottosi.

Posso perfino spingermi oltre e affermare che la politica di allargamento e pre-adesione tutta è stata gestita in modo dilettantistico e senza alcun criterio. Ne è testimone lo status di Paese candidato improvvidamente attribuito alla Turchia, fonte di crescente disagio per Bruxelles e Ankara.

Per quanto riguarda, però, lo specifico caso della sentenza con cui il Tribunale Costituzionale polacco disconosce la primazia del diritto dell’Unione Europea su quello nazionale, la giurisprudenza di Varsavia si inserisce nel solco già tracciato da quella italiana e tedesca.

Tanto a Roma quanto a Berlino, infatti, i massimi organi giurisdizionali si sono riservati il diritto di sindacare la legittimità costituzionale del diritto dell’Unione Europea, Trattati istitutivi compresi.

Non una vuota minaccia, ma un principio di diritto che ha consentito, anche di recente, di discutere davanti ai Tribunali tedeschi le politiche monetarie della Banca Centrale Europea, costringendo la stessa Corte di Giustizia di Lussemburgo a un’insolita e irrituale presa di posizione pubblica.

La verità è che il diritto dell’Unione Europea poggia sulla sabbia. La Prof. F. notava che le sue fondamenta sono procedure assolutamente tipiche del diritto internazionale più classico, come la stipula di trattati in forma solenne, con firma e ratifica. Non a caso, si è tentato infruttuosamente di sostituire ai Trattati una Costituzione Europea, poi derubricata a Trattato Costituzionale, comunque mai ratificato. Perfino il Prof. C., già primo referendario di un celebre Avvocato Generale, circoscriveva la primazia del diritto dell’Unione Europea a determinate materie in cui l’integrazione è più avanzata, come il diritto della concorrenza.

Sono consapevole che nell’ambito dei processi storico-politici il diritto ha un peso relativo e, all’occorrenza, può cambiare radicalmente e repentinamente: l’esempio più limpido è probabilmente la Rivoluzione Francese, culminata nella codificazione napoleonica.

Se tuttavia usiamo il diritto dell’Unione Europea per effettuare una prognosi sull’esito del processo di integrazione, ebbene, il cavallo non parte certo dai box con i favori del pronostico.

Un caro saluto.

Stan

Rodeo texano

Mia cara Berenice,

al mondo non c’è forse film più sottovalutato di “Mio cugino Vincenzo” (USA, 1992), con Joe Pesci e Marisa Tomei.

In questa piccola gemma, Pesci interpreta un avvocato newyorchese al tempo stesso improbabile e geniale – “street wise” o “street smart”, secondo l’intraducibile espressione americana -, chiamato a difendere un parente e il suo amico arrestati nel profondo Sud per rapina e omicidio. Quando i due si lamentano per aver perso l’udienza preliminare, l’Avvocato Vincenzo La Guardia Gambini li investe così: “Stan… sei nel fottuto Alabama. Sei di New York. Hai ucciso un vecchietto. Non esiste che non si vada a processo”.

Anche se di solito si preferisce citare il Texas, è innegabile che la giustizia americana sia, soprattutto agli occhi di un italiano, piuttosto spiccia. Due elementi di prassi su tutti: la messa in stato d’arresto di chi sia sospettato di qualunque reato, anche minore; l’utilizzo largo del cumulo di pene. Chi non ha visto, al cinema o in TV, un poliziotto americano far scattare le manette ai polsi di qualcuno, sia pure per guida in stato di ebbrezza? O un giudice americano dichiarare l’imputato colpevole di novantanove capi d’accusa, per l’effetto condannandolo a novantanove anni di reclusione?

Ebbene, sempre a giudicare da questi elementi di prassi, il sistema italiano va avvicinandosi a quello americano.

Quanto al cumulo dei capi d’imputazione e delle pene, ha fatto scalpore la condanna inflitta all’ex Sindaco di Riace, molto più alta di quella chiesta dal Pubblico Ministero. La Corte è pervenuta a tale risultato considerando i reati singolarmente, anziché nell’ambito di un unico disegno criminoso, come era lecito attendersi dopo il gran parlare che si era fatto del Sistema Riace creato dal Sindaco. Considerando i reati uniti dal cosiddetto “vincolo della continuazione”, la Corte avrebbe applicato la pena prevista per il reato più grave aumentata fino al triplo, anziché sommare quelle previste per le singole fattispecie.

Passando a quello che l’allora Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro definì “il tintinnio delle manette”, di recente, sull’onda di alcuni casi di cronaca, è stata rafforzata la normativa a tutela delle vittime di atti persecutori, spesso donne perseguitate da ex partner. Introdotta originariamente dalla Legge Carfagna, questa normativa ha sempre avuto una coloritura a stelle e strisce, facendo leva su provvedimenti giudiziari simili alle ordinanze restrittive americane. A questa meritoria emulazione, tuttavia, si è aggiunto l’arresto obbligatorio in flagranza o quasi flagranza, anche nel caso di reato per cui non possono applicarsi misure cautelari. In pratica, il sospettato verrà arrestato dalla Polizia Giudiziaria per essere liberato subito dopo dal magistrato. Un’incoerenza tale da fare prevedere, in futuro, un intervento della Corte Costituzionale.

Il problema, naturalmente, non è ispirarsi agli ordinamenti stranieri, compreso quello americano che ha comunque molto da insegnare: una Costituzione ancora in vigore dalla Dichiarazione d’Indipendenza, la Dichiarazione stessa, la Carta dei Diritti, non poche sentenze illuminanti della Corte Suprema.

Il problema è l’impressione di confusione, sbandamento e perdita di punti di riferimento sotto il cielo del diritto italiano che, pure, dovrebbe avere radici profondissime.

La seduta è tolta.

Stan

La Legge sull’Insurrezione del 1807

Mia cara Berenice,

no, non mi risultano manifestazioni a Roma per il caso Floyd. Anzi, per la tua gioia, oggi sono passato per Piazza del Popolo e c’era la destra a sventolare tricolori e, per qualche oscuro motivo, bandiere del Giappone. Prevedono di proclamare qualche Imperatore Dio? Non ne ho idea, la mia unica priorità era inerpicarmi sul Pincio.

Spero che il tuo sit in di protesta davanti all’Opera di Stato sia stato produttivo e, soprattutto, all’insegna del distanziamento.

Affinché tu non mi accusi di crassa indifferenza, ti informo che ho letto da cima a fondo la Legge sull’Insurrezione del 1807 che il Presidente Trump intenderebbe invocare per schierare le truppe federali – d’altronde è molto breve.

Accludo di seguito un sunto della mia ricognizione che ti permetterà di fare una bellissima figura con le tue amiche viennesi.

A quanto pare, è una vera tradizione applicare la Legge in occasione di sommosse razziali, del resto comuni negli Stati Uniti, ma questo vetusto provvedimento ha avuto anche impieghi che il tuo Kreisauer Kreis apprezzerebbe. La Legge è stata usata dal Presidente Grant contro il Ku Klux Klan, nonché dei Presidenti Eisenhower e Kennedy per imporre la desegregazione delle scuole negli Stati del Sud.

Attualmente, essa è codificata nei paragrafi 331 e seguenti del Codice Federale.

Il paragrafo 332 attribuisce al Presidente degli Stati Uniti il potere di utilizzare le Forze Armate federali e la Guardia Nazionale in caso di “ostruzioni illecite, collusioni, adunate o ribellioni contro l’autorità federale” tali da “rendere impossibile far rispettare le leggi federali in uno Stato con i mezzi ordinari dei procedimenti giudiziari”.

Il paragrafo 333 precisa che le interferenze con l’attività federale possono essere di due tipi:

a) violazione di diritti costituzioni unita all’inerzia, anche incolpevole, dello Stato;

b) impedimento od ostruzione all’esecuzione delle leggi federali da parte del potere esecutivo o giudiziario.

Abbiamo dunque una fattispecie, quella sub a), estremamente precisa che sembra scritta proprio per determinati Stati del Sud – e probabilmente andò proprio così: non sono riuscito a ricostruire in modo analitico le modifiche subite dalla Legge del 1807, ma mi risulta che fu emendata prima e dopo la Guerra di Secessione.

Segue una seconda fattispecie più generica, sub b), che funge da clausola di chiusura.

È curioso come gli atti normativi anglosassoni oscillino fra l’essere incredibilmente analitici e il riassumersi in una manciata di clausole generali. Di certo, la Corte Suprema avrà qui ampio spazio di manovra.

“Teneva in mano una supplica, e pareva che dicesse: vedremo”.

Un cancelleresco saluto.

Stan