Mia cara Berenice,
la Santa Pasqua è alle porte e, se il Papa ha dovuto rinunciare alla tradizionale Via Crucis al Colosseo, i palinsesti televisivi sono perfettamente allineati, senza farci mancare classici come “Il re dei re” (USA, 1961) o “La passione di Cristo” (USA, 2004), comunque apprezzabile per i dialoghi in latino.
Fin da quando ero un giovane giurista, il processo a Gesù di Nazareth mi ha sempre appassionato. Come nell’Italia contemporanea in cui i cui i giudizi, tra conflitti di competenza e legittime suspicioni, rimbalzano da un tribunale all’altro come la pallina argentata del flipper, anche Gesù peregrinò fra ben tre diverse giurisdizioni: quella del Sinedrio, quella della Galilea e quella romana.
Preminente era, naturalmente, quest’ultima. Pur senza compiere approfonditi studi di storia del diritto, è presumibile che, all’interno dell’Impero, le autorità ebraiche conservassero una giurisdizione ratione personae sui sudditi ebrei – perlomeno quelli che non fossero cittadini romani. Quanto alla Galilea, pare fosse un protettorato, ossia uno Stato nominalmente indipendente ma legato a Roma da un trattato di protezione, secondo una prassi diffusa anche negli imperi coloniali europei. Anche la Galilea aveva su Gesù una giurisdizione ratione personae, essendo egli nativo del protettorato.
Con ogni probabilità, sia il Sinedrio sia il tetrarca della Galilea avrebbero potuto non solo potuto processare e condannare Gesù – come infatti il Sinedrio fece: “È reo di morte” -, ma anche eseguire la sentenza, giustiziandolo. Se il caso di Gesù fu rinviato, per ben due volte, al prefetto romano della Giudea, fu presumibilmente per motivazioni metagiuridiche. Si temevano reazioni da parte dei seguaci del Nazareno – in effetti, secondo i Vangeli, ci fu un accenno di resistenza armata al suo arresto – o, quantomeno, ripercussioni sull’ordine pubblico, suscettibili di irritare le autorità romane.
Per quanto concerne la procedura, non deve stupire che risulti così sommaria e informale, fino a esporre il prefetto a pesanti condizionamenti da parte delle autorità ebraiche e della folla. Lo stesso diritto romano aveva subito, nella transizione dalla Repubblica all’Impero, una decisa regressione, lasciandosi alle spalle leggi che tutelavano almeno il cittadino nella procedura (diritto a essere giudicato dall’assemblea popolare o da giurì più ristretti) e nella sostanza (divieto di applicare la pena capitale o pene corporali). Con gli Imperatori erano arrivati i processi a porte chiuse (intra cubiculum) per alto tradimento (crimen maiestatis).
Ne derivò il processo c.d. “inquisitorio”, in cui l’accuratezza dell’istruttoria e la possibilità per l’imputato di spiegare difese sono rimesse, in gran parte, allo scrupolo e all’inclinazione del giudice. Tale modello, recepito dal diritto canonico e successivamente incarnato dalla codificazione napoleonica nella figura del giudice istruttore, rimarrà dominante nell’Europa continentale fin quasi ai giorni nostri.
Solo nel 1989 in Italia entrò in vigore il nuovo Codice di Procedura Penale, il Codice Vassalli, che abbandonava almeno nelle intenzioni il modello inquisitorio, sopprimendo la figura del giudice istruttore. Nel vigore del precedente Codice di rito, risalente al 1930, si prevedeva addirittura che, per i reati di competenza del pretore, quest’ultimo esercitasse l’azione penale davanti a se stesso: quale margine di manovra residuasse alla difesa, è facile immaginarlo.
La tradizione giuridica anglosassone, paradossalmente, è più vicina al diritto romano delle origini, per fedeltà al principio accusatorio, per la presenza di giurie e gran giurì (petit jury – grand jury), per l’importanza infine data ai precedenti giudiziari, questi ultimi di grande importanza nella Roma repubblicana e, in parte, anche imperiale.
Quanto al diritto canonico, fatico a dirti se, nella sua versione contemporanea, vada considerato o meno inquisitorio. L’attuale Codice di Diritto Canonico è stato promulgato nel 1983 da Papa Giovanni Paolo II con la costituzione apostolica “Sacrae Disciplinae Leges”.
In ambito penale, il potere e dovere di compiere l'”indagine previa” spetta all’Ordinario, figura chiave del diritto canonico che corrisponderà, solitamente, con il Vescovo diocesano. Conclusa l’indagine e ravvisato un fumus delicti, l’Ordinario può decidere di procedere giudizialmente o “con decreto per via extragiudiziale”.
In quest’ultimo caso, l’Ordinario sentirà l’imputato a difesa, esaminerà il caso con due assessori e provvederà con decreto motivato “almeno brevemente”: certamente un procedimento inquisitorio e non particolarmente garantista. Del resto, per espressa previsione del Codice trattasi di procedimento amministrativo, piuttosto che giurisdizionale.
Dall’altra parte, se decide che si debba procedere giudizialmente, l’Ordinario deve rimettere gli atti al promotore di giustizia e “nel giudizio penale devono essere applicati, se non vi si opponga la natura della cosa, i canoni sui giudizi in generale e sul giudizio contenzioso ordinario”: quindi il rito previsto per le cause non penali, in cui le parti sono pienamente pariordinate e il giudice terzo, comunemente definito “accusatorio”.
Proprio sulla dialettica fra processo accusatorio e inquisitorio era imperniata la tesina con cui mi presentai all’esame di Stato, al termine del Liceo, benché il diritto non fosse contemplato fra le materie.
Andò malissimo.
Meritatamente.
Un assolutorio saluto.
Stan
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