Problematiche e correttivi alla Messa di mezzanotte natalizia

Mia cara Berenice,

il Comune veneto in cui mi trovo ricade, dal punto di vista del diritto canonico, sotto la giurisdizione del Vescovo di Vittorio Veneto, salito improvvisamente agli onori delle cronache nazionali per un curioso incidente: la sera della vigilia di Natale, si è addormentato e non si è presentato a Sacile a officiare la Messa di mezzanotte.

L’innocuo infortunio evidenzia i problemi che affliggono il clero, sempre più anziano e costretto a occuparsi di giurisdizioni sempre più ampie. Anche i semplici presbiteri quasi sempre reggono più Parrocchie, in attesa che ingranino – se mai avverrà – Foranie e Unità Pastorali.

In queste condizioni, celebrare una Messa a mezzanotte può essere un adempimento gravoso: il buon prelato ha in seguito riferito alla stampa di aver mal puntato la sveglia, circostanza che ci dice anche come non ci sia nessuno ad assistere un Vescovo – una volta, l’ultimo dei parroci disponeva di cappellani, perpetue, sacrestani, campanari.

Del resto, anche i fedeli sono sempre più attempati, perciò perché ostinarsi a celebrare la Messa della vigilia a mezzanotte? Quantomeno, si potrebbe iniziarla alle ventitré abbondanti e arrivare all’Eucaristia allo scoccare del nuovo giorno, sarebbe anche più suggestivo.

Del resto, la Messa di mezzanotte discende dall’antica regola secondo cui al precetto festivo si può adempiere partecipando alla Messa in quel giorno o “nel vespro del giorno precedente” (canone 1248). Alla disposizione fa riferimento la nota della Conferenza Episcopale Italiana del 15 luglio 1984: “Liturgicamente il ‘dies festus’ comincia con i primi vespri del giorno precedente la festa; così il sabato sera, dal punto di vista liturgico, è già domenica”. I Vespri corrispondono approssimativamente al tramonto, nel Monastero di Bose si recitano addirittura alle 17: tecnicamente, dunque, il Vescovo avrebbe potuto celebrare la Messa natalizia prima di cena.

Un affamato saluto.

Stan

Sulle cause dei santi

Mia cara Berenice,

ieri, in tram, ho dato una mano a un gruppo di pellegrini che, parroco in testa, dovevano scendere al San Camillo. Venivano prevedibilmente da San Pietro, dove si erano tenute ben dieci canonizzazioni.

Le procedure per attribuire lo status di venerabile, beato e santo sono contenute non nel Codice di Diritto Canonico, ma nella Costituzione Apostolica “Divinus perfectionis magister”, promulgata da Papa Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983.

L’istruttoria spetta al Vescovo diocesano o altra Autorità ecclesiastica equiparata. Essa comprende in prima battuta un esame delle pubblicazioni del candidato, ma anche di scritti inediti come lettere e diari.

Solo se si conclude con successo questa fase per tabulas, si procede all’interrogatorio dei testimoni.

Una separata istruttoria, nel frattempo, dovrà stabilire se vi siano miracoli attribuibili al candidato.

Chiuse le due istruttorie, gli atti vanno trasmessi alla Sacra Congregazione per le Cause dei Santi.

Verificata la regolarità formale degli atti trasmessi dal Vescovo, si affida la causa a un Relatore che “aiutato da un Cooperatore esterno, farà la «Positio super virtutibus vel super martyrio», secondo le regole della critica agiografica”.

Una volta Redatta, la Positio viene esaminata da appositi esperti (Consultori) in storia e in teologia.

Come nella prima fase, una separata istruttoria affidata a esperti medico-scientifici e poi teologici ha luogo sui miracoli.

I due fascicoli vengono poi sottoposti alla Congregazione che esprime un parere da presentare al Papa, “al quale solo compete il diritto di decretare il culto pubblico ecclesiastico del Servo Di Dio”.

Le norme integrative e attuative della Costituzione Apostolica sono state emanate con Nota della Sacra Congregazione.

Innanzitutto, “per iniziare una Causa occorre che passino almeno 5 anni dalla morte del candidato”. Com’è noto, Papa Benedetto XVI ha ritenuto di dispensare dall’osservanza di questo termine il processo di santificazione di Papa Giovanni Paolo II.

Il Vescovo competente è quello della Diocesi in cui è morto il candidato, che agisce su istanza di un Postulatore designato da un gruppo promotore: può trattarsi di una Diocesi, una Parrocchia, un Ordine religioso, un’associazione, etc.

Il Vescovo, previo nulla osta della Santa Sede, costituisce un Tribunale Diocesano. Per il solo fatto di essere sub judice, il candidato acquisisce il titolo di Servo di Dio.

Se il giudizio del Tribunale Diocesano, della Sacra Congregazione e del Papa sono favorevoli, il Servo di Dio diventa venerabile, cioè può essergli tributato il culto.

Affinché il venerabile diventi beato, serve un miracolo avvenuto per intercessione del venerabile dopo la sua morte oppure la morte stessa avvenuta in odium fidei, ossia il martirio.

Per la santificazione occorre un ulteriore miracolo successivo alla beatificazione.

Non servono dunque tre miracoli come talvolta si dice, ma soltanto due, anzi uno solo per i martiri.

Il Papa può peraltro sempre attribuire la santità anche fuori dai presupposti sopra descritti. È anzi prassi farlo per i beati o santi adorati come tali da lungo tempo (procedura per equipollenza).

Nel 2017, infine, con motu proprio Papa Francesco ha equiparato al martirio “l’offerta della vita”, ossia l'”offerta libera e volontaria della vita ed eroica accettazione propter caritatem di una morte certa e a breve termine”.

Ave atque vale.

Stan

Scampanio festoso

Mia cara Berenice,

stamattina, arrivato nel parco antistante il Villino Algardi a leggere l’autobiografia della Regina Maria José, sono stato accolto da uno scampanio festoso che saliva dalle mille chiese di Roma.

Bella forza, dirai tu, è domenica.

Eppure, non ho potuto fare a meno di interrogarmi sulla regolamentazione dello scampanio nel diritto canonico, nella liturgia, nella prassi ecclesiastica, ma anche nell’ordinamento italiano, in cui tanto il Codice Civile, quanto quello Penale disciplinano il disturbo alla quiete pubblica.

Esiste, sul punto, un documento eccezionalmente analitico e completo, la circolare della Conferenza Episcopale Italiana n. 33 del 10 maggio 2002.

Il documento ripercorre la storia normativa dell’uso delle campane, regolamentato dal Codice di Diritto Canonico del 1917, ma non da quello attuale. Sorprendentemente, non esiste un atto formale, giuridico o dottrinale, che stabilisca quando, come e perché vanno suonate le campane. Per questo, la Conferenza invita i singoli Vescovi a provvedere per decreto.

Già il 25 novembre 1984, ad esempio, l’Arcidiocesi di Milano aveva emanato il decreto n. 2510, con cui ordina di non suonare le campane:

  1. di notte, fatta eccezione per Natale e Pasqua;
  2. prima delle 7.30 nei giorni feriali e delle 8 nei giorni festivi;
  3. a distesa, se non per le Messe solenni.

Il decreto precisa che le campane suonano al mattino per l’Ave Maria, a mezzogiorno e la sera, nonché alle 15 del venerdì in memoria della morte di Cristo. Infine, pone l’uso delle campane sotto la responsabilità esclusiva di parroci e rettori.

Limitazioni e cautele stringenti, evidentemente dettate dalla preoccupazione di rispettare la legge italiana, non sempre tenera con batacchi e campanili. La giurisprudenza, a riguardo, distingue fra uso delle campane per uso non liturgico e liturgico, ma, anche in questo secondo caso, non è affatto disposta a condonare rumori eccessivamente molesti in nome della libertà di culto o dei rapporti concordatari fra Italia e Santa Sede. In assenza di precetti normativi o giurisprudenziali chiari e univoci, il clero si attiene a criteri di massima prudenza. Non così don Camillo, il celebre parroco creato dalla penna di Giovannino Guareschi che usava disinvoltamente le campane per interrompere i comizi del Sindaco comunista Peppone.

Un bronzeo saluto.

Stan

Sulla confessione collettiva nel diritto canonico

Mia cara Berenice,

ho appreso con un certo stupore che, in occasione delle festività natalizie, certe Parrocchie offrono confessioni collettive.

Mi sono consultato con il Prof. van O. che, dopo aver conferito con un Cardinale, mi ha confermato le risultanze ottenute compulsando il Codice di Diritto Canonico, dove il sacramento della penitenza è disciplinato nel Libro IV, Parte I, Titolo IV.

Specificamente alla celebrazione del sacramento è dedicato il Capitolo I, che raggruppa i canoni da 960 a 964.

La confessione collettiva (“assoluzione a più penitenti insieme senza la previa confessione individuale […] impartita in modo generale”) è ammessa in caso di imminente pericolo di morte o di grave necessità, “ossia quando, dato il numero dei penitenti, non si ha a disposizione abbondanza di confessori per ascoltare, come si conviene, le confessioni dei singoli entro un un tempo conveniente, sicché i penitenti, senza loro colpa, sarebbero costretti a rimanere a lungo privi della grazia sacramentale o della sacra comunione; però la necessità non si considera sufficiente quando non possono essere a disposizione dei confessori, per la sola ragione di una grave affluenza di penitenti, quale può aversi in occasione di una grande festa o di un pellegrinaggio”.

Sulla prima fattispecie, nulla da dire. Tutti abbiamo visto, in qualche film, il sacerdote assolvere collettivamente dai loro peccati i passeggeri di una nave che affonda o una schiera di soldati prima della battaglia.

Quella che viene qui in considerazione è la seconda ipotesi, che richiede comunque l’autorizzazione del Vescovo.

D’altronde, la confessione collettiva è quella che certi giuristi definirebbero una “fattispecie a formazione progressiva”. Infatti, “affinché un fedele usufruisca validamente della assoluzione sacramentale impartita simultaneamente a più persone, si richiede che non solo sia ben disposto, ma insieme faccia il proposito di confessare a tempo debito i singoli peccati gravi, che al momento non può confessare […] colui al quale sono rimessi i peccati gravi mediante l’assoluzione generale, si accosti quanto prima, offrendosene l’occasione, alla confessione individuale, prima che abbia a ricevere un’altra assoluzione generale, a meno che non sopraggiunga una giusta causa”.

Le disposizioni del Codice sono, dunque, assai rigorose. Qualche legittimo interrogativo si pone sulla concreta prassi applicativa.

Poco dopo, infatti, si dispone che le confessioni si ricevano esclusivamente nel confessionale, “se non per giusta causa”. Ora, secondo la mia personale esperienza, ormai il confessionale si usa solo nei film, fatta eccezione per le Penitenzierie di certe grandi chiese o conventi.

Nella cattolicissima Vienna, come funzionano le cose?

Un contrito saluto.

Stan

Il processo da Gesù ai giorni nostri

Mia cara Berenice,

la Santa Pasqua è alle porte e, se il Papa ha dovuto rinunciare alla tradizionale Via Crucis al Colosseo, i palinsesti televisivi sono perfettamente allineati, senza farci mancare classici come “Il re dei re” (USA, 1961) o “La passione di Cristo” (USA, 2004), comunque apprezzabile per i dialoghi in latino.

Fin da quando ero un giovane giurista, il processo a Gesù di Nazareth mi ha sempre appassionato. Come nell’Italia contemporanea in cui i cui i giudizi, tra conflitti di competenza e legittime suspicioni, rimbalzano da un tribunale all’altro come la pallina argentata del flipper, anche Gesù peregrinò fra ben tre diverse giurisdizioni: quella del Sinedrio, quella della Galilea e quella romana.

Preminente era, naturalmente, quest’ultima. Pur senza compiere approfonditi studi di storia del diritto, è presumibile che, all’interno dell’Impero, le autorità ebraiche conservassero una giurisdizione ratione personae sui sudditi ebrei – perlomeno quelli che non fossero cittadini romani. Quanto alla Galilea, pare fosse un protettorato, ossia uno Stato nominalmente indipendente ma legato a Roma da un trattato di protezione, secondo una prassi diffusa anche negli imperi coloniali europei. Anche la Galilea aveva su Gesù una giurisdizione ratione personae, essendo egli nativo del protettorato.

Con ogni probabilità, sia il Sinedrio sia il tetrarca della Galilea avrebbero potuto non solo potuto processare e condannare Gesù – come infatti il Sinedrio fece: “È reo di morte” -, ma anche eseguire la sentenza, giustiziandolo. Se il caso di Gesù fu rinviato, per ben due volte, al prefetto romano della Giudea, fu presumibilmente per motivazioni metagiuridiche. Si temevano reazioni da parte dei seguaci del Nazareno – in effetti, secondo i Vangeli, ci fu un accenno di resistenza armata al suo arresto – o, quantomeno, ripercussioni sull’ordine pubblico, suscettibili di irritare le autorità romane.

Per quanto concerne la procedura, non deve stupire che risulti così sommaria e informale, fino a esporre il prefetto a pesanti condizionamenti da parte delle autorità ebraiche e della folla. Lo stesso diritto romano aveva subito, nella transizione dalla Repubblica all’Impero, una decisa regressione, lasciandosi alle spalle leggi che tutelavano almeno il cittadino nella procedura (diritto a essere giudicato dall’assemblea popolare o da giurì più ristretti) e nella sostanza (divieto di applicare la pena capitale o pene corporali). Con gli Imperatori erano arrivati i processi a porte chiuse (intra cubiculum) per alto tradimento (crimen maiestatis).

Ne derivò il processo c.d. “inquisitorio”, in cui l’accuratezza dell’istruttoria e la possibilità per l’imputato di spiegare difese sono rimesse, in gran parte, allo scrupolo e all’inclinazione del giudice. Tale modello, recepito dal diritto canonico e successivamente incarnato dalla codificazione napoleonica nella figura del giudice istruttore, rimarrà dominante nell’Europa continentale fin quasi ai giorni nostri.

Solo nel 1989 in Italia entrò in vigore il nuovo Codice di Procedura Penale, il Codice Vassalli, che abbandonava almeno nelle intenzioni il modello inquisitorio, sopprimendo la figura del giudice istruttore. Nel vigore del precedente Codice di rito, risalente al 1930, si prevedeva addirittura che, per i reati di competenza del pretore, quest’ultimo esercitasse l’azione penale davanti a se stesso: quale margine di manovra residuasse alla difesa, è facile immaginarlo.

La tradizione giuridica anglosassone, paradossalmente, è più vicina al diritto romano delle origini, per fedeltà al principio accusatorio, per la presenza di giurie e gran giurì (petit jury – grand jury), per l’importanza infine data ai precedenti giudiziari, questi ultimi di grande importanza nella Roma repubblicana e, in parte, anche imperiale.

Quanto al diritto canonico, fatico a dirti se, nella sua versione contemporanea, vada considerato o meno inquisitorio. L’attuale Codice di Diritto Canonico è stato promulgato nel 1983 da Papa Giovanni Paolo II con la costituzione apostolica “Sacrae Disciplinae Leges”.

In ambito penale, il potere e dovere di compiere l'”indagine previa” spetta all’Ordinario, figura chiave del diritto canonico che corrisponderà, solitamente, con il Vescovo diocesano. Conclusa l’indagine e ravvisato un fumus delicti, l’Ordinario può decidere di procedere giudizialmente o “con decreto per via extragiudiziale”.

In quest’ultimo caso, l’Ordinario sentirà l’imputato a difesa, esaminerà il caso con due assessori e provvederà con decreto motivato “almeno brevemente”: certamente un procedimento inquisitorio e non particolarmente garantista. Del resto, per espressa previsione del Codice trattasi di procedimento amministrativo, piuttosto che giurisdizionale.

Dall’altra parte, se decide che si debba procedere giudizialmente, l’Ordinario deve rimettere gli atti al promotore di giustizia e “nel giudizio penale devono essere applicati, se non vi si opponga la natura della cosa, i canoni sui giudizi in generale e sul giudizio contenzioso ordinario”: quindi il rito previsto per le cause non penali, in cui le parti sono pienamente pariordinate e il giudice terzo, comunemente definito “accusatorio”.

Proprio sulla dialettica fra processo accusatorio e inquisitorio era imperniata la tesina con cui mi presentai all’esame di Stato, al termine del Liceo, benché il diritto non fosse contemplato fra le materie.

Andò malissimo.

Meritatamente.

Un assolutorio saluto.

Stan