Mia cara Berenice,
quando tutto questo sarà finito, andremo in vacanza in Thailandia, che io preferisco chiamare Siam.
Affitteremo il solito, lussuoso bungalow per occidentali sulla spiaggia, all inclusive, ma, nonostante tutto – dalla fine dell’emergenza sanitaria al pacchetto turistico – sia fatto per rilassarci e divertirci, una tensione leggera ma chiaramente percettibile continuerà a serpeggiare fra di noi.
Saranno le cicatrici della pandemia o problemi pregressi acuiti da quest’ultima?
Nei primi giorni, ci sforzeremo in ogni modo di restare fedeli alla parte degli occidentali gaudenti e sollevati dalla fine dell’emergenza, finché, finalmente, ci verrà offerto il pretesto per sfogarci e dare fondo alle nostre frustrazioni.
Il catalizzatore sarà un uomo dal fisico magro e muscoloso, il volto incorniciano da una barbetta caprina che ne suggerisce la sensualità priapica. A ogni alba e a ogni tramonto, pratica il tai chi al limitare della battigia, attirando inevitabilmente il tuo sguardo con i suoi gesti ieratici e quegli occhi neri come pozzi.
Dopo essermela presa con te per quell’osservazione insistente e rapita, sollevo la cornetta del telefono e digito lo zero della reception, desideroso di scaricare la mia ira come letame sull’umile, servizievole e sorridente personale locale.
“Buongiorno,” mi salutano in inglese impeccabile. “Come posso esserle utile?”
“La spiaggia qui davanti non dovrebbe essere privata?” Li investo.
“Certo, signore. Ha avuto problemi?”
“Be’, c’è un tizio che viene a farci tai chi due volte al giorno”.
Un breve silenzio all’altro capo: “È italiano, come lei”.
“Non mi stupisce,” ironizzo, greve. “Fatelo sparire”.
Altro silenzio: “Attenda, le mandiamo qualcuno”.
“Chi?”
“Il Capo della Sicurezza”.
“Grazie”.
“Sta per arrivare il Capo della Sicurezza,” sogghigno al tuo indirizzo, dopo aver riagganciato. “Temo che dovrai rinunciare al tuo Bronzo di Riace”.
Il Capo della Sicurezza effettivamente arriva quasi subito, a bordo di una cart da golf. È un occidentale, dal limpido accento inglese, gli occhi chiarissimi sul volto cotto dal sole. Indossa giacca e cravatta, l’uniforme del complesso residenziale.
Bussa alla nostra porta, sbriga rapidamente e professionalmente i convenevoli di rito.
“Mi hanno detto che avete avuto problemi con il vostro connazionale,” esordisce, venendo agli affari.
“Io sono austriaca,” precisi tu, molle e puntuta al tempo stesso. “Il suo connazionale è il signore, qui; purtroppo, è anche uno stronzo”.
L’inglese non è uno stupido, capisce al volo la situazione. Mi sfiora il braccio e mi invita a parlare da soli in terrazza. Accetto e lo accompagno fuori, chiude accuratamente la porta a vetri alle nostre spalle.
“Capisco la sua irritazione,” riprende, “ma, vede, forse lei dovrebbe sapere chi è quell’uomo. Noi lo chiamiamo l’Italiano”.
“Me ne frego di chi è,” lo interrompo rudemente, “non lo voglio sulla mia spiaggia. Ho pagato una fortuna per venire qui. Gli aerei costano il triplo di prima, per non parlare di test e vaccini”.
“Capisco benissimo e la ringraziamo moltissimo per essere nostro ospite. È fondamentale che il turismo della Thailandia…”
“Siam”.
“Come?”
“Io preferisco chiamarlo Siam… e mi meraviglio proprio di lei, che è inglese”.
“Siam, d’accordo… in ogni caso, credo dovrebbe sapere chi è quell’uomo”.
“Visto che sembra non ci sia modo di evitarlo, sentiamo”.
“È un cooperante internazionale, scrittore e giornalista, ma, prima, è stato anche un uomo politico. Il suo partito era sorto, dal basso, capisce? Un’aggregazione nata dalla Rete. Osteggiato da tutti, è stato a un passo dal prendere il potere e trasformare l’Italia in un Paese pulito. Purtroppo, signore, i lieto fine esistono solo nelle favole”.
“Perché? Che è successo?”
“Il suo partito… a un certo punto… assediato, logorato per anni… corrotto, anche, in alcuni elementi… è sceso a un compromesso che lui non ha potuto accettare… ed è venuto qui”.
“E proprio sulla mia spiaggia deve stare?”
“Se ritiene, posso provare a chiedergli… gentilmente… di… spostarsi”.
“Provare a chiedergli gentilmente? Mi scusi se glielo dico, ma lei sembra terrorizzato. Non credo sia normale, per un Capo della Sicurezza”.
“Signore, quell’uomo è una specie di… divinità locale”.
“Prima era un cooperante, un politico eccetera eccetera, ora è asceso addirittura a divinità? Cos’è, un’apoteosi?”
“Insegna gratuitamente ai bambini del villaggio. Parla perfettamente inglese e thai… scusi, siamese… siamese”.
“Ok, ho capito, pare brutto farlo sloggiare… va bene… guardi, scusi se sono sembrato un po’ stronzo… è che… con la mia ragazza… non va proprio benissimo, se capisce come intendo…”
“Ha lottato contro i trafficanti di bambini ed è stato ricevuto dal Re in persona”.
“Wow… sta scherzando?”
“Era stato condannato a morte, ma il Re l’ha graziato e fatto liberare”.
“Condannato a morte? Per cosa?”
“Omicidio plurimo”.
“Cazz… mi scusi… ok, ok, può restare sulla spiaggia”.
“Attaccarono la sua palafitta in notte, in cinque, armati di mitra. La mattina dopo erano tutti allineati sulla riva del fiume con il collo spezzato”.
“Ok, ok, ha reso l’idea! Può starsene in spiaggia quanto vuole!”
“Mi sembra una saggia decisione. Scusi per l’inconveniente”.
“Be’, alle divinità non si comanda, giusto?”
Le ultime parole si sfarinano nel mio sguardo ottenebrato. Sto ripercorrendo nella mente le fotografie che ho scattato di quell’uomo. La camicia bianca, i movimenti lenti di onda, gli occhi come pozzi…
Riaccompagno il Capo della Sicurezza in stanza e poi alla porta, si accomiata ossequiosamente da entrambi. Tu ti sei accesa sfrontatamente una sigaretta, pur essendo allungata su un canapè all’interno della stanza, ma non osa redarguirti.
Appena la serratura della porta scatta, ti intimo di spegnerla per non attivare i sensori antincendio. Per tutta risposta, espiri voluttuosamente, disegnando una nuvola di fumo nell’aria.
“Allora?” Mi schernisci. “Discorsi da uomini?”
“Il tuo amico è protetto dalle Autorità locali,” ti rispondo con disprezzo. “Sembra che potrai continuare a rifarti gli occhi, dopotutto”. Sono davvero convinto che sia questa e solo questa la morale dell’incredibile storia propinatami dal Capo della Sicurezza. Ha voluto abbellire e romanzare, indorare la pillola, per non dirmi semplicemente che nel suo resort imperversava impunemente un intoccabile. Giustiziere di trafficanti di bambini, come no… è lui a essere un trafficante, con ogni probabilità… certo, una cosa del genere non poteva dirmela.
Senza darti il tempo di cacciarmi dal letto, mi preparo a passare la notte sul divano. Mentre ti strucchi in bagno, assumo un’abbondante dose di sonnifero, voglio farti vedere che dormo come un sasso. Funziona per qualche ora, poi riapro gli occhi. Il tuo respiro sotto le lenzuola mi dice che sei nel mondo dei sogni. Meglio così, perché sento l’impulso insopprimibile di alzarmi, aprire la portafinestra e tornare in terrazzo. È allora che sussulto davvero, perché davanti a me, seduto eretto a uno dei divanetti, c’è lui. Il mio connazionale, l’Italiano. La divinità locale. Le punte della sua barba dura riflettono la luce lunare.
Un sapore metallico mi invade la bocca. “La mattina dopo erano tutti allineati sulla riva del fiume con il collo spezzato,” mi sussurra all’orecchio la voce del Capo della Sicurezza. Lui si alza, fluido e calmo come il dirigente di qualche agenzia milanese cultore delle managerial skill. Arriva a un passo da me, sovrastandomi con la tua altezza.
“Non sono un trafficante di bambini,” mi dice semplicemente, senza particolare espressione, prima di andarsene tranquillamente dalla porta alle mie spalle. Come era entrato? Scavalcando la terrazza? Rientro. Le mani mi tremano, fatico a richiudere la porta a vetri. Tu dormi ancora. Mi ha voluto risparmiare l’umiliazione di doverti spiegare la sua presenza. Lo so, con assoluta certezza. Come lui sapeva che io lo credevo un trafficante.
Tendo di tornare a stendermi sul divano, ma sono sulla graticola. Passo la notte in terrazzo, affondato in un divanetto, fra il sonno e la veglia. L’alba mi dischiude dolcemente le palpebre. Sulla battigia, lui non c’è. Non tornerà più.
Un commosso saluto.
Stan