Mia cara Berenice,
sto proseguendo nell’acquisto dei vincitori del Premio Strega che l’edicolante continua a mettermi religiosamente da parte, ma la lettura sta proseguendo piuttosto a rilento, rispetto ai tempi entusiastici del saggio sull’assedio di Gaeta.
Non mi sono mai sentito in obbligo di dichiararmi un lettore vorace; anzi, dopo un’infanzia onnivora, passo talvolta lunghi periodi senza aprire un libro. A differenza di molti, inoltre, non amo particolarmente le librerie, che mi disorientano e dalle quali spesso esco senza comprare nulla. Da quando sono a Roma, mi servo prevalentemente alle bancarelle di libri usati a San Giovanni di Dio, a Termini e in via Arenula, alle quali va certamente attribuito un deciso rimbalzo nel mio tasso di letture.
Il fil rouge dei libri che ho preso in mano – e siamo ormai a due di fila – è lo stesso che mi aliena certo cinema soprattutto europeo, ma talvolta anche americano: un’ostentazione autocompiaciuta di cinismo, pessimismo, talvolta ansia e isteria. Tutti noi abbiamo visto qualche attrice impegnata urlare e piangere smodatamente, mentre la steadicam le gira vorticosamente intorno come una zanzara assetata di sangue fresco.
Ebbene, gli ultimi due romanzi presentano perfino questa analogia registica, con improvvisi e inopinati cambi di narrazione, punto di vista e io narrante, cui si aggiunge una descrizione di paesaggi e stati d’animo inutilmente astrusa che sembra dire: “Vorrei trasformarmi in flusso di coscienza, ma non posso”. Certo che non puoi, non sei mica Joyce. Il risultato è, letteralmente, l’inquadratura protratta in bianco e nero di un calabrone che si posa su un filo d’erba o altra scena analoga tratta dalla parodia di un corto d’essai.
Come la pallina di un flipper, questa sensazione indistinta mi ha fatto accendere un terzo bersaglio, dopo quello cinematografico e letterario.
In questi giorni di angoscia e pandemia, gli intellettuali hanno avuto la loro revanche. Sul nuovo flagello che ci ha colpito abbiamo interpellato, giustamente, non solo scienziati, ma anche filosofi, storici, psicologi, etc.
Come è giusto e fisiologico, si spazia tra varie sfumature di ottimismo e pessimismo. Eppure, man mano che ci si avvicina a questa seconda estremità dello spettro, mi pare di notare un crescente compiacimento, non dissimile da quello di registi e autori intenti a dipingere con le tinte più fosche la società ante virus. Possibile che nemmeno la pandemia la riabiliti, le aliti addosso una patina per quanto ingannevole di nostalgia?
Ogni epoca storica ha avuto le sue prefiche, pronte a piangere il decadimento dei costumi. Per l’Antica Roma, si possono citare Catone, Cicerone, Sallustio, Tito Livio e tanti altri. L’Arpinate, con il suo “o tempores o mores”, è diventato addirittura proverbiale. Ottaviano, come tanti altri dopo di lui, ha fatto della rigenerazione morale uno slogan politico.
Poi è arrivato il Cristianesimo e, con esso, una successione di predicatori dediti al memento mori e alla caducità delle cose terrene.
C’è poi il fatto che l’uomo ha sempre un rapporto conflittuale con la società. Sarà pure un animale sociale, ma non gli sono estranei forti impulsi antisociali, di cui la Rete è un fantasmagorico affresco.
Io stesso in passato ho avuto, per motivi diversi, questo atteggiamento da Savonarola.
Durante il dottorato, come ti scrissi in una mia precedente, tentai l’impresa disperata e donchisciottesca di far interessare il Collegio Docenti al tema della sicurezza portuale (port security). A tal fine, mi sbracciavo nel dipingere scenari apocalittici, in cui i container diventavano cavalli di Troia dal ventre gonfio di droga, armi, esplosivi. Magari non avevo tutti i torti, certo; ma era quello il modo, la forma mentis?
Il dottorato poi finì malamente, proprio quando la crisi finanziaria era nel suo pieno. Ne seguì una gavetta piuttosto lussuosa, ma mal sopportata dalla mia famiglia e alla quale anch’io reagii con profonda rabbia, profetizzando con gioia feroce la fine dell’intero sistema capitalistico e occidentale. Sorvegliavo affannosamente gli indici di borsa in attesa di nuovi crolli e avrei potuto benissimo indossare, come il personaggio di Pirandello, una divisa da iettatore.
Insomma, si può avere un dottorato di ricerca senza essere emotivamente istruiti. Questo, se vale per un zotico come me, può forse spiegare anche perché la cultura, talvolta, trasudi tanta negatività.
Di per sé non ci sarebbe nulla di male. Scienziati e studiosi, dopotutto, sono uomini come tutti gli altri, con i loro caratteri e le loro inclinazioni, mentre l’arte è addirittura tenuta a tuffarsi nei pozzi neri delle emozioni. Uno dei miei film preferiti è “Melancholia” (Danimarca-Svezia-Francia-Germania, 2011), di Lars von Trier con Kirsten Dunst, un tale concentrato di pessimismo cosmico – nel senso letterale di un asteroide in rotta di collisione con la Terra – che, uscito dal cinema, mi reggevo a stento sulle gambe, tanto il cielo mi pesava sulla testa.
Il problema si pone quando questa macchia nera si espande e si fa tendenza artistica o consenso scientifico. In tal caso, poiché caratteristica principe delle emozioni negative è interferire con l’empatia e generare incomunicabilità, il legame fra cultura e pubblico – non più mediato da emozioni positive o almeno neutre – si spezza e si alzano ondate di anti-intellettualismo come quelle evidenti nella società contemporanea.
Insomma, se è normale che l’intero spettro delle emozioni sia sviscerato gli artisti e influenzi meno direttamente gli studiosi, tale spettro deve essere – appunto – intero e completo.
Perdona la lungaggine.
Sempre tuo.
Stan
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