L’oro in bocca

Mia cara Berenice,

‘ncapu lu re, c’è lu viceré, dicono in Sicilia: al di sopra del Re, c’è il Viceré. Al di sopra del Ministro, c’è il Capo di Gabinetto. Al di sopra del padrone di casa, c’è la signora della pulizie: la mia signora delle pulizie che, stamane, ha preteso di entrare in possesso della casa due ore buone prima del solito.

Il mattino ha l’oro in bocca, dicono un po’ in tutta Italia. Falso. Nel mio caso, significa trovare più traffico e mezzi pubblici più pieni, anche di scolaresche.

In Veneto, si racconta una storia che ben rappresenta la staffetta tra generazioni. Un padre rimproverava al figlio di far troppo tardi la notte, nel fine settimana, e dormire il giorno dopo fino a mezzogiorno. Una domenica mattina il patriarca si reca, come al solito, alla prima Messa. Tornando a casa, trova per terra cinquantamila lire e le sventola sotto il naso del figlio, ancora tra le coltri.

“Lo vedi, ad alzarsi presto?”

Per quanto annebbiata, la prole ha la presenza di spirito di rispondergli: “Padre, quello che le ha perse si è alzato prima di te!”

La saggezza popolare conosce i suoi limiti e contraddizioni, sa bene che, per ogni proverbio, ce n’è un altro a recitare il contrario.

Recita appunto una filastrocca: “Tre bambini stanno zitti, / zitti come i coscritti / davanti al caporale. / E la mamma li guarda sospettosa, / gli dice: Vi sentite male /o state macchinando qualche cosa? / Come vedete è falso l’oro. / Il silenzio non è d’oro / se volete nascondere qualcosa / io vi consiglio di cantare in coro. / Intonate una piccola fanfara / di piatti e di trombe, la furiosa /
ragazzata vi salva, si rischiara / la mamma e vi sorride”.

Una piccola fanfara di piatti e di trombe.

Stan

Marea e risacca

Mia cara Berenice,

non ricordo se te l’avevo detto, ma il mio nuovo ufficio si trova esattamente sopra Galleria Alberto Sordi, salotto buono di sapore milanese che attualmente ospita un costoso bar e un’enorme libreria Feltrinelli. Quest’ultima organizza spesso, appunto sotto le volte, eventi di un certo spessore: solo di recente, ho visto sul palco degli oratori l’ex Primo Ministro Prof. Conte e il celebre scrittore Saviano.

A breve, la libreria chiuderà per la ristrutturazione della galleria e, secondo la stampa locale, potrebbe non riaprire. Se ne lamentavano le colleghe in chat, deplorando come il turismo di massa getti sul centro storico un tappeto polveroso e soffocante di negozi di abbigliamento e paccottiglia.

Questo stamattina. Nel pomeriggio ho fatto, com’è mia abitudine quando salgo in Veneto, un giro nel centro di C., città sui quarantamila abitanti, già simbolo dell’esplosione economica del Nord Est e candidata a capoluogo di provincia. Mi era stato anticipato che non avrei trovato quelle vie e piazze in buono stato, come d’altronde le volte precedenti. In effetti, non erano poche le vetrine vuote, ma ho notato anche qualcos’altro, un insolito fiorire di gallerie d’arte facenti corona a ben due mostre e ai manifesti di una cena rinascimentale, tenutasi proprio la sera precedente in un ex convento a ridosso del castello.

Insomma, pareva quasi di trovarsi nel quartiere bruxellese di Sablon, ma con una differenza sostanziale. Lì l’industria culturale fungeva da naturale complemento a una piccola città abbondantemente foraggiata da Quartier Generale NATO, Istituzioni europee, Governo belga nazionale e metropolitano, settore privato. Qui, più banalmente, ha trovato spazio in un centro storico che prima le era interdetto, presumibilmente approfittando del calo degli affitti e magari di politiche incentivanti.

Generalmente, il germogliare dell’arte e della cultura viene considerato – ed è – una benedizione. Tuttavia, è parimenti vero che può essere, al tempo stesso, un sintomo obliquo di decadenza. Esempi particolarmente noti ne sono gli ultimi secoli della Repubblica di Venezia o il Secolo d’Oro spagnolo; a mio modesto avviso, anche lo stesso Rinascimento, epoca di splendore artistico e culturale, ma politicamente velenosa.

Ciao.

Stan

Giornate

Mia cara Berenice,

un tempo, le nostre giornate erano scandite dalle campane, oggi sono misurate sulla durata delle batterie.

In principio ci fu la raccomandazione di non ricaricarle, finché non fossero completamente scariche, poi caduta come l’indicazione di utilizzare i guanti durante la pandemia.

Fino all’anno scorso, i cellulari mi costringevano a possedere due caricabatterie, uno per la casa e uno per l’ufficio.

L’estate scorsa, il telefono mi si è letteralmente sbriciolato in mano, oltretutto nel momento meno opportuno immaginabile.

Recatomi al grande magazzino di elettronica più vicino, ho scoperto, nell’ordine, che la Cina aveva fatto il suo prepotente ingresso in quel lucroso segmento di mercato e che le batterie erano mutate in modo radicale: ora durano una giornata intera e si ricaricano rapidissimamente.

Infine, qualche giorno fa, ho scaricato un videogioco di zuffe tre contro tre che consuma una quantità impressionante di energia; così ora, mentre ti scrivo, il cellulare è collegato alla presa elettrica, posato sul bracciolo del divano come un vezzoso cagnolo rinascimentale.

A proposito, sto leggendo “Rinascimento privato” (Mondadori, 1989) di Maria Bellonci, liberamente ispirato alla vita della Marchesa di Mantova Isabella d’Este, che ti consiglio caldamente. Ci sono gli splendori di quella mitica epoca storica, ma anche le sue miserie, con le città-Stato scrigni d’arte e di cultura, ma anche vasi di coccio fra i vasi di ferro di Santa Sede, Sacro Romano Impero, Regno di Francia e Impero Spagnolo.

Domani, invece, mi aspetta “Il cattivo poeta” (Italia-Francia, 2020), con Sergio Castellitto, sugli ultimi anni di Gabriele D’Annunzio. Reduce come sono dalla lettura di Scurati, sono davvero trepidante.

Non avevo intenzione di tornare al cinema così presto, ma la scorsa settimana davano “The Human Voice” (Spagna, 2020), di Pedro Almodóvar, con Tilda Swinton; trattandosi di mediometraggio di trenta minuti, mi pareva un buon compromesso sanitario e quasi un segno del destino.

Un rassegnato saluto.

Stan

Ancora sull’incomunicabilità fra cultura e pubblico

Mia cara Berenice,

scusa il mio silenzio. Potrei giustificarmi facilmente invocando la Fase 2 e le relative, piccole soddisfazioni che speriamo non si rivelino effimere. Ne cito solo due, la riapertura di Villa Pamphili e il modo in cui tutti, nel quartiere, mi riconoscono e accolgono calorosamente pur con la mascherina addosso.

La verità è che la mia ultima missiva sul rapporto fra cultura e popolo mi ha sfibrato, è stato in qualche modo l’incontro con una vecchia nemesi, un antico rovello; poiché peraltro, in questi casi, l’unica soluzione è cauterizzare a fondo, tornerò di nuovo sull’argomento, confidando nella tua clemenza.

Nella mia precedente, ho ipotizzato come fattore lo spettro emotivo della cultura, non sufficientemente indagato per il sapere scientifico, dato per scontato nella produzione artistica, in entrambi i casi tendente a restringersi troppo verso la sua estremità negativa. Quest’ultima viene infatti utilizzata tanto dallo scienziato quanto dall’artista per attirare l’attenzione del pubblico accademico e non, così come avviene con i titoli allarmistici della stampa, talvolta nemmeno coincidenti con il corpo dell’articolo. Nel pubblico annovero anche l’autore stesso, bisognoso di autoconvincersi dell’importanza della crociata intrapresa.

Il problema dell’incomunicabilità mi colpì in pieno viso, come un maglio, durante il dottorato di ricerca, quando cominciai a frequentare i primi convegni. Perfino a un novizio era evidente come gli accademici parlassero solo a sé stessi. Il pubblico, coerentemente, era costituito solo da docenti e ricercatori. Pochi gli studenti, a meno che non venissero mobilitati dai rispettivi titolari di cattedra; poco numerosi perfino gli avvocati, a meno che l’evento non desse diritto a crediti per la formazione professionale obbligatoria.

Alla base di ciò c’era, in parte, il meccanismo delle carriere accademiche, funzionanti in tutto il mondo per cooptazione.

Mi restava però la sensazione di qualcosa di più profondo, e questo qualcosa credetti di identificarlo nell’estrema frammentazione e specializzazione della conoscenza.

Un professore di diritto a tempo pieno, che non eserciti l’attività forense, non ha mai messo piede in un tribunale. Quel che è peggio, un professore cosiddetto “a mezza fascia”, cioè con tanto di prestigioso studio legale, non appena varca le porte dell’università si comporta esattamente come il collega “a fascia piena”.

Un professore di diritto penale non solo non sa nulla di diritto civile o amministrativo – o quantomeno non si azzarda a parlarne -, ma avrà una decennale specializzazione nel reato di truffa o di peculato, o addirittura in un particolare aspetto di tale crimine, e per nessun motivo si azzarderà a mettere il piede fuori da quel pomerio, dove l’autorità consolare potrebbe decapitarlo.

In parte è un processo naturale. La cultura si stratifica, diventa più sofisticata e sempre più difficile da imbracciare e padroneggiare in modo unitario. Le conseguenze di questo stato di cose, però, sono due.

In primo luogo la cultura, così frammentata, si indebolisce.

In secondo luogo la comunicazione e la divulgazione – anzi, specifici aspetti di esse – diventano appannaggio di ulteriori specialisti (consulenti, pubblicitari, etc.), abilissimi nel diffondere un messaggio, ma privi della padronanza dei relativi contenuti.

Da ciò, più che da una presunta abulia del popolo, deriva il divorzio di quest’ultimo dalla cultura, per nulla ineluttabile, se pensi che popolazioni molto più antiche e illetterate si riversavano nei teatri per Euripide, Plauto e Shakespeare. Ancora oggi, sulle vituperate reti sociali, certi divulgatori scientifici capaci di mettere insieme sostanza e messaggio godono in Italia di un seguito quasi messianico.

Ricapitolando a beneficio della tua giustificata impazienza, bisognerebbe sfuggire alla tentazione di usare sistematicamente e pigramente le tinte più fosche, non consentire al proprio campo di specializzazione di farci dimenticare la cultura generale e l’interdisciplinarietà, rispettare il proprio pubblico. Nello specifico ambito accademico, questo significherebbe anche imporre al corpo docenti di non trascurare la didattica per occuparsi della sola ricerca, fonte di indici bibliometrici e avanzamenti di carriera.

Carissima, ti chiedo perdono, spero davvero di essermi sgravato di questo peso e di poter tornare, nelle mie prossime missive, ad argomenti più leggeri.

Qui in Italia si dicono meraviglie del vostro deconfinamento che, ovviamente, è stato prontamente recepito in Trentino Alto Adige.

A presto, speriamo.

Stan

Intellettuali malvissuti

Mia cara Berenice,

sto proseguendo nell’acquisto dei vincitori del Premio Strega che l’edicolante continua a mettermi religiosamente da parte, ma la lettura sta proseguendo piuttosto a rilento, rispetto ai tempi entusiastici del saggio sull’assedio di Gaeta.

Non mi sono mai sentito in obbligo di dichiararmi un lettore vorace; anzi, dopo un’infanzia onnivora, passo talvolta lunghi periodi senza aprire un libro. A differenza di molti, inoltre, non amo particolarmente le librerie, che mi disorientano e dalle quali spesso esco senza comprare nulla. Da quando sono a Roma, mi servo prevalentemente alle bancarelle di libri usati a San Giovanni di Dio, a Termini e in via Arenula, alle quali va certamente attribuito un deciso rimbalzo nel mio tasso di letture.

Il fil rouge dei libri che ho preso in mano – e siamo ormai a due di fila – è lo stesso che mi aliena certo cinema soprattutto europeo, ma talvolta anche americano: un’ostentazione autocompiaciuta di cinismo, pessimismo, talvolta ansia e isteria. Tutti noi abbiamo visto qualche attrice impegnata urlare e piangere smodatamente, mentre la steadicam le gira vorticosamente intorno come una zanzara assetata di sangue fresco.

Ebbene, gli ultimi due romanzi presentano perfino questa analogia registica, con improvvisi e inopinati cambi di narrazione, punto di vista e io narrante, cui si aggiunge una descrizione di paesaggi e stati d’animo inutilmente astrusa che sembra dire: “Vorrei trasformarmi in flusso di coscienza, ma non posso”. Certo che non puoi, non sei mica Joyce. Il risultato è, letteralmente, l’inquadratura protratta in bianco e nero di un calabrone che si posa su un filo d’erba o altra scena analoga tratta dalla parodia di un corto d’essai.

Come la pallina di un flipper, questa sensazione indistinta mi ha fatto accendere un terzo bersaglio, dopo quello cinematografico e letterario.

In questi giorni di angoscia e pandemia, gli intellettuali hanno avuto la loro revanche. Sul nuovo flagello che ci ha colpito abbiamo interpellato, giustamente, non solo scienziati, ma anche filosofi, storici, psicologi, etc.

Come è giusto e fisiologico, si spazia tra varie sfumature di ottimismo e pessimismo. Eppure, man mano che ci si avvicina a questa seconda estremità dello spettro, mi pare di notare un crescente compiacimento, non dissimile da quello di registi e autori intenti a dipingere con le tinte più fosche la società ante virus. Possibile che nemmeno la pandemia la riabiliti, le aliti addosso una patina per quanto ingannevole di nostalgia?

Ogni epoca storica ha avuto le sue prefiche, pronte a piangere il decadimento dei costumi. Per l’Antica Roma, si possono citare Catone, Cicerone, Sallustio, Tito Livio e tanti altri. L’Arpinate, con il suo “o tempores o mores”, è diventato addirittura proverbiale. Ottaviano, come tanti altri dopo di lui, ha fatto della rigenerazione morale uno slogan politico.

Poi è arrivato il Cristianesimo e, con esso, una successione di predicatori dediti al memento mori e alla caducità delle cose terrene.

C’è poi il fatto che l’uomo ha sempre un rapporto conflittuale con la società. Sarà pure un animale sociale, ma non gli sono estranei forti impulsi antisociali, di cui la Rete è un fantasmagorico affresco.

Io stesso in passato ho avuto, per motivi diversi, questo atteggiamento da Savonarola.

Durante il dottorato, come ti scrissi in una mia precedente, tentai l’impresa disperata e donchisciottesca di far interessare il Collegio Docenti al tema della sicurezza portuale (port security). A tal fine, mi sbracciavo nel dipingere scenari apocalittici, in cui i container diventavano cavalli di Troia dal ventre gonfio di droga, armi, esplosivi. Magari non avevo tutti i torti, certo; ma era quello il modo, la forma mentis?

Il dottorato poi finì malamente, proprio quando la crisi finanziaria era nel suo pieno. Ne seguì una gavetta piuttosto lussuosa, ma mal sopportata dalla mia famiglia e alla quale anch’io reagii con profonda rabbia, profetizzando con gioia feroce la fine dell’intero sistema capitalistico e occidentale. Sorvegliavo affannosamente gli indici di borsa in attesa di nuovi crolli e avrei potuto benissimo indossare, come il personaggio di Pirandello, una divisa da iettatore.

Insomma, si può avere un dottorato di ricerca senza essere emotivamente istruiti. Questo, se vale per un zotico come me, può forse spiegare anche perché la cultura, talvolta, trasudi tanta negatività.

Di per sé non ci sarebbe nulla di male. Scienziati e studiosi, dopotutto, sono uomini come tutti gli altri, con i loro caratteri e le loro inclinazioni, mentre l’arte è addirittura tenuta a tuffarsi nei pozzi neri delle emozioni. Uno dei miei film preferiti è “Melancholia” (Danimarca-Svezia-Francia-Germania, 2011), di Lars von Trier con Kirsten Dunst, un tale concentrato di pessimismo cosmico – nel senso letterale di un asteroide in rotta di collisione con la Terra – che, uscito dal cinema, mi reggevo a stento sulle gambe, tanto il cielo mi pesava sulla testa.

Il problema si pone quando questa macchia nera si espande e si fa tendenza artistica o consenso scientifico. In tal caso, poiché caratteristica principe delle emozioni negative è interferire con l’empatia e generare incomunicabilità, il legame fra cultura e pubblico – non più mediato da emozioni positive o almeno neutre – si spezza e si alzano ondate di anti-intellettualismo come quelle evidenti nella società contemporanea.

Insomma, se è normale che l’intero spettro delle emozioni sia sviscerato gli artisti e influenzi meno direttamente gli studiosi, tale spettro deve essere – appunto – intero e completo.

Perdona la lungaggine.

Sempre tuo.

Stan