Censimento imperiale dei programmi di cucina

Mia cara Berenice,

ieri sera ho rivisto “Sono tornato” (Italia, 2018), che ti consiglio. La pellicola fa tornare misteriosamente in vita Benito Mussolini, interpretato da un eccellente Massimo Popolizio. Dopo il primo, comprensibile disorientamento, il Duce si trova ben presto lanciato alla riconquista politica dell’Italia, sull’onda dell’ignoranza dilagante e di TV commerciali senza scrupoli.

Scoprendo l’esistenza appunto della TV, il primo commento del deposto dittatore è riservato al dilagare dei programmi di cucina.

In effetti, con l’aiuto di Google, ho censito “MasterChef Italia”, “4 ristoranti”, “Bake Off Italia”, “Camionisti in trattoria”, “Cucine da incubo”, “Cuochi e fiamme”, “Fuori menù”, “Cake Star”, “Piatto ricco”, “Giusina in cucina”, “Chef per un giorno”, “Unti e bisunti”, “Cucina con Ale”, “Maître Chocolatier”, “Il re del cioccolato”, “In cucina con Luca Pappagallo”, “‘O mare mio”, “Hell’s Kitchen Italia”, “Food Advisor”, l’inossidabile e incolpevole “Ricette all’italiana”, “Uno chef in fattoria”, “Fatto in casa per voi”, “Junior Bake Off Italia”, “L’Italia a morsi”, “Celebrity MasterChef Italia”, “Family Food Fight”, “Che diavolo di pasticceria!”, “Cuochi d’Italia”, “Antonino Chef Academy”, “Una macara ai fornelli”, “C’è ciccia”, “Il club delle cuoche”, “Junior MasterChef Italia”, “Pane, olio e fantasia”, “Cook 40”, “La salute vien mangiando”, “Chef in campo”, “Scarpetta d’Italia”, “Le ricette della signora Rita”, “Senti che fame!”, “Pasta, orto e fantasia”, “Lo spazio per il dolce”, “Casa Baio”, “I menù di Benedetta”, “In cucina con Imma e Matteo”, “Torte in corso con Renato” e “Le ricette del convento”, ma sicuramente mi sarà sfuggito qualcosa.

Ho tentato di scremare i programmi stranieri semplicemente tradotti, ma resta l’impressione che l’ondata sia stata scatenata e in parte cospicua alimentata da format importati, smentendo l’immagine dell’Italia roccaforte arcigna e fanatica della cucina.

Un sazio saluto.

Stan

I ristoranti messicani

Mia cara Berenice,

ieri sera, sul secondo canale della TV di Stato, davano “C’era una volta a… Hollywood” (USA-GB, 2019), con Brad Pitt, Leonardo DiCaprio, Margot Robbie e Dakota Fanning. Insieme a “Bastardi senza gloria” (USA-Germania, 2009), i due “Kill Bill” e “Django Unchained” (USA, 2012), un gradito regalo di Tarantino, che avevo sbrigativamente archiviato dopo “Jackie Brown” (USA, 1997), probabilmente in reazione al fanatismo cieco che il regista di “Pulp Fiction” suscitava all’epoca.

Il climax della storia di “C’era una volta a… Hollywood”, che non svelerò, mi ha colpito per un particolare apparentemente secondario: il modo in cui tutto, in California, sembra ruotare intorno ai ristoranti messicani.

In effetti, quando visitai la Costa Occidentale, ricordo che il Tex-Mex o una sua declinazione limitrofa era onnipresente, perfino nei fast food. In tutta franchezza, lo trovai orribile, ma sono passati davvero parecchi anni ed è possibile che le cose siano cambiate. Magari si è affermata una cucina messicana più pura, dato che un abitante della California su tre è ispanico; già all’epoca, in effetti, i cartelli erano tutti bilingui.

E qui a Roma?

Secondo il sito di gastronomia Puntarella Rossa, i migliori ristoranti texani in una città tenacemente abbarbicata alla sua cucina tradizionale sono Puerto Mexico sulla Portuense, El Pueblo ad Aurelio e La Punta Expendio de Agave a Trastevere. Sul menù di quest’ultimo compaiono taco, tostada, ceviche, churros e paleta.

I churros, piuttosto comuni del resto anche in Italia, li mangiai in Venezuela; non sono proprio uno spuntino leggerissimo, soprattutto ricoperti di cioccolato fuso.

A Venezia, con mia sorpresa, ci sono ben due ristoranti messicani, l’Iguanna in zona Ghetto e il La Cantinita al Lido, apparentemente aperto tutto l’anno; nulla a Marghera-Mestre.

Panorama prevedibilmente più variegato a Padova, con un’offerta concentrata soprattutto nel centro storico.

Buenas.

Stan

L’ultima colonia

Mia cara Berenice,

ultimamente si parla molto di Hong Kong. Prima la “protesta degli ombrelli” – so British! – contro le ingerenze cinesi, poi una seconda ondata di contagi che avrebbe colpito l’ex colonia.

Storia affascinante, quella di Hong Kong, per un patito di storia coloniale e affari cinesi come me. L’ultima colonia, fu appunto soprannominata; l’ultima, in effetti, di un certo peso.

Londra si guardò, fino all’ultimo, dal concedere autonomia o democrazia. Forse era rimasta scottata dall’esperienza della Rhodesia del Sud, forse prevedeva di dover restituire il territorio alla Cina, cosa che la democrazia avrebbe reso ancora più difficile.

Prima di ammainare la Union Jack, ottennero dalla Cina l’impegno a rispettare le prerogative del territorio – a cui l’Impero Britannico aveva lasciato almeno i diritti civili – fino al 2046: una data che, al momento della firma, doveva sembrare lontanissima. Invece, come sempre, tempus fugit, ed eccoci al 2020. Proprio “2046” Wong Kar-Wai ha voluto intitolare un film visionario (Hong Kong-Cina-Francia-Italia-Germania, 2004) che ti consiglio caldamente.

Hong Kong mantiene così uno status post-coloniale, con un Capo del Governo autoctono al posto del Governatore e giudici con i parrucconi; niente elezioni, ma libertà di parola e di stampa.

Le frizioni con il sistema cinese, naturalmente, sono inevitabili e, prima della pandemia, pareva appunto che la situazione stesse precipitando. Potrei sbagliarmi in modo grossolano, ma prevedo che invece l’equilibrio reggerà. Gli ex sudditi britannici che, tutto sommato, godono ancora di una posizione privilegiata, non hanno l’interesse né la forza per strappare grosse concessioni alla Cina. Quest’ultima, a sua volta, non farà saltare il banco, nemmeno dopo il 2046. La formula “Un Paese, due sistemi”, infatti, è una carta importante da giocare, in vista della riannessione di Taiwan.

A Hong Kong rimasi una settimana, qualche anno fa, invitato a tenere l’ennesima conferenza su Venezia; è innegabile che l’antica Dominante desti un enorme interesse in tutto il mondo, un vero passepartout. Il filo conduttore, in questo caso, è che Venezia e Hong Kong sono entrambe città insulari.

Mi aspettavo una metropoli alveare e non la trovai. Sarà che la pendenza del terreno la faceva somigliare – fatte ovviamente le debite proporzioni – a certi borghi italiani, dove parimenti si rinvengono costruzioni accalcate e accatastate, tanto da lasciare a malapena spazio a vicoli tortuosi per raggiungerle. Oltretutto, durante une delle escursioni organizzate per i relatori scoprii che una vasta area esterna è ancora nuda ed erbosa, punteggiata da templi e villaggi da Celeste Impero.

Mi aspettavo una metropoli laboriosa e questa invece la trovai. Il piano stradale era un mosaico di botteghe, bancarelle, negozi, ristoranti. Appunto a una bancarella feci la mia prima colazione con una sorta di tortino al mango. Lo trovai delizioso e con questo vengo al punto immediatamente successivo.

Noi italiani abbiamo un forte pregiudizio nei confronti delle cucine straniere e della cucina cinese in particolare – di cui pure siamo ormai diventati forti consumatori. Bene, non posso parlare della cucina cinese in generale, ma quella di Hong Kong è favolosa.

In parte, è esattamente come se la immagina chi ha visto qualche film di Jackie Chan contro le Triadi: anatre e oche spennate, appese a testa in giù in ristoranti angusti e scuri ma puliti, lampade di carta, ciotole e brodini. Ciò che non mi aspettavo è il grande peso della componente vegetariana. In un tempio fuori mano ci fu servito un pasto rituale interamente vegano di cui non saprei descriverti una sola portata, ma incredibilmente vario e ricco. Anche il pesce non rimase nelle retrovie, con un’escursione serale su un’isoletta di pescatori. Lungo il mare era uno schieramento imponente di ristoranti, diligentemente sorvegliati da gatti.

La scampagnata che mi godetti di più, però, non fu sull’erba o sul cemento, ma sull’acqua. A bordo di una barca scoperta, dove ci fu servito un pasto freddo piuttosto all’italiana, incrociammo fra le imponenti banchine del porto, all’ombra di portacontainer grandi come palazzi. Puoi immaginare la mia esaltazione, in quel periodo finivo di stendere la mia tesi di dottorato sui porti, pixel lattei e montagne di carta giallognola che, con il loro broncio inanimato, tentavano invano di nascondere la guerra feroce per convincere il Collegio d’Indirizzo dell’importanza della port security; eppure non ci pensai, in quel momento, e non voglio rievocarlo ora.

Ai piedi di quelle montagne di metallo galleggiante, sorridevo pensando a chi in Italia, da destra e da sinistra, invocava all’epoca i dazi contro la Cina. “Ci sarebbe un solo modo di fermare questo colossale traffico,” meditai, “e sarebbe una guerra vecchio stampo”: cosa da non augurarsi, naturalmente. Perfino ora, in piena pandemia, i nuovi velieri solcano indomiti i sette mari, portandoci beni tanto esenti da contaminazione quanto necessari.

Perdona il mio entusiasmo, ma considerati comunque una miracolata. Non hai idea di quanto a lungo potrei annoiarti discettando su port safety, port security, Port State Control, Codice ISPS e IMO.

Ti concedo, invece, la grazia.

Stanislaus Rex