Mia cara Berenice,
ultimamente si parla molto di Hong Kong. Prima la “protesta degli ombrelli” – so British! – contro le ingerenze cinesi, poi una seconda ondata di contagi che avrebbe colpito l’ex colonia.
Storia affascinante, quella di Hong Kong, per un patito di storia coloniale e affari cinesi come me. L’ultima colonia, fu appunto soprannominata; l’ultima, in effetti, di un certo peso.
Londra si guardò, fino all’ultimo, dal concedere autonomia o democrazia. Forse era rimasta scottata dall’esperienza della Rhodesia del Sud, forse prevedeva di dover restituire il territorio alla Cina, cosa che la democrazia avrebbe reso ancora più difficile.
Prima di ammainare la Union Jack, ottennero dalla Cina l’impegno a rispettare le prerogative del territorio – a cui l’Impero Britannico aveva lasciato almeno i diritti civili – fino al 2046: una data che, al momento della firma, doveva sembrare lontanissima. Invece, come sempre, tempus fugit, ed eccoci al 2020. Proprio “2046” Wong Kar-Wai ha voluto intitolare un film visionario (Hong Kong-Cina-Francia-Italia-Germania, 2004) che ti consiglio caldamente.
Hong Kong mantiene così uno status post-coloniale, con un Capo del Governo autoctono al posto del Governatore e giudici con i parrucconi; niente elezioni, ma libertà di parola e di stampa.
Le frizioni con il sistema cinese, naturalmente, sono inevitabili e, prima della pandemia, pareva appunto che la situazione stesse precipitando. Potrei sbagliarmi in modo grossolano, ma prevedo che invece l’equilibrio reggerà. Gli ex sudditi britannici che, tutto sommato, godono ancora di una posizione privilegiata, non hanno l’interesse né la forza per strappare grosse concessioni alla Cina. Quest’ultima, a sua volta, non farà saltare il banco, nemmeno dopo il 2046. La formula “Un Paese, due sistemi”, infatti, è una carta importante da giocare, in vista della riannessione di Taiwan.
A Hong Kong rimasi una settimana, qualche anno fa, invitato a tenere l’ennesima conferenza su Venezia; è innegabile che l’antica Dominante desti un enorme interesse in tutto il mondo, un vero passepartout. Il filo conduttore, in questo caso, è che Venezia e Hong Kong sono entrambe città insulari.
Mi aspettavo una metropoli alveare e non la trovai. Sarà che la pendenza del terreno la faceva somigliare – fatte ovviamente le debite proporzioni – a certi borghi italiani, dove parimenti si rinvengono costruzioni accalcate e accatastate, tanto da lasciare a malapena spazio a vicoli tortuosi per raggiungerle. Oltretutto, durante une delle escursioni organizzate per i relatori scoprii che una vasta area esterna è ancora nuda ed erbosa, punteggiata da templi e villaggi da Celeste Impero.
Mi aspettavo una metropoli laboriosa e questa invece la trovai. Il piano stradale era un mosaico di botteghe, bancarelle, negozi, ristoranti. Appunto a una bancarella feci la mia prima colazione con una sorta di tortino al mango. Lo trovai delizioso e con questo vengo al punto immediatamente successivo.
Noi italiani abbiamo un forte pregiudizio nei confronti delle cucine straniere e della cucina cinese in particolare – di cui pure siamo ormai diventati forti consumatori. Bene, non posso parlare della cucina cinese in generale, ma quella di Hong Kong è favolosa.
In parte, è esattamente come se la immagina chi ha visto qualche film di Jackie Chan contro le Triadi: anatre e oche spennate, appese a testa in giù in ristoranti angusti e scuri ma puliti, lampade di carta, ciotole e brodini. Ciò che non mi aspettavo è il grande peso della componente vegetariana. In un tempio fuori mano ci fu servito un pasto rituale interamente vegano di cui non saprei descriverti una sola portata, ma incredibilmente vario e ricco. Anche il pesce non rimase nelle retrovie, con un’escursione serale su un’isoletta di pescatori. Lungo il mare era uno schieramento imponente di ristoranti, diligentemente sorvegliati da gatti.
La scampagnata che mi godetti di più, però, non fu sull’erba o sul cemento, ma sull’acqua. A bordo di una barca scoperta, dove ci fu servito un pasto freddo piuttosto all’italiana, incrociammo fra le imponenti banchine del porto, all’ombra di portacontainer grandi come palazzi. Puoi immaginare la mia esaltazione, in quel periodo finivo di stendere la mia tesi di dottorato sui porti, pixel lattei e montagne di carta giallognola che, con il loro broncio inanimato, tentavano invano di nascondere la guerra feroce per convincere il Collegio d’Indirizzo dell’importanza della port security; eppure non ci pensai, in quel momento, e non voglio rievocarlo ora.
Ai piedi di quelle montagne di metallo galleggiante, sorridevo pensando a chi in Italia, da destra e da sinistra, invocava all’epoca i dazi contro la Cina. “Ci sarebbe un solo modo di fermare questo colossale traffico,” meditai, “e sarebbe una guerra vecchio stampo”: cosa da non augurarsi, naturalmente. Perfino ora, in piena pandemia, i nuovi velieri solcano indomiti i sette mari, portandoci beni tanto esenti da contaminazione quanto necessari.
Perdona il mio entusiasmo, ma considerati comunque una miracolata. Non hai idea di quanto a lungo potrei annoiarti discettando su port safety, port security, Port State Control, Codice ISPS e IMO.
Ti concedo, invece, la grazia.
Stanislaus Rex
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