Restaurazione analogica

Mia cara Berenice,

Zuckerberg e Musk, seduti ai due capi di un lungo tavolo. Alla luce tremolante delle candele, tra i due Dioscuri siedono il fantasma di Jobs, i profeti delle criptovalute, i fantasmi delle loro nevrosi e chimere: metaversi poligonali, razzi lunari, paramenti da guru. È il Congresso di Vienna chiamato a mettere fine alla Rivoluzione Informatica, pur non potendola cancellare. Rimarrà con noi per sempre, ma i tempi della gloria, dei tamburini, del Culto della Ragione e dell’Essere Supremo, delle teste sollevate nelle picche e nelle mani dei boia, sono finiti.

Facebook e YouTube sono tappezzati di pubblicità come la vecchia e disprezzata TV in chiaro, Twitter mendica manciate di dollari in cambio di spunte, Zoom crolla in borsa, solo la pornografia più o meno soft di OnlyFans scintilla. Le funzionalità promozionali a pagamento di Facebook sono sempre meno attraenti, l’algoritmo è imprevedibile, come sto constatando per il mio povero blog letterario. Proprio ieri ho modificato alcuni parametri della campagna pubblicitaria, l’anno prossimo tirerò le somme, deciderò se andare avanti, assumere qualche consulente o mandare tutto al diavolo. Perfino la mia amata PayPal perde colpi, è in ritardo nel lavorare i pagamenti dell’agenzia di traduzioni e congela, senza ragione alcuna, i miei pagamenti ai venditori.

Sul lavoro, le cose non vanno meglio. Le architetture informatiche e i terminali per il lavoro da remoto, a Roma come a Bruxelles, sono terribili, in modo talvolta infantile e disarmante, le piattaforme per le videoconferenze sono più variegate, confuse e controintuitive che mai.

Si rischia che gli utenti scatenino un nuovo Termidoro o Terrore Bianco, dando la caccia a startupper, tecnici informatici e perfino influencer… e, siccome queste cose funzionano sempre con pochissimo criterio, potrei finire con l’andarci di mezzo io, per il mio profilo Instagram dedicato alle carbonare.

Un preoccupato saluto.

Stan

 

Parricidio

Mia cara Berenice,

va di moda ripetere che Facebook è un social network obsoleto, superato, per vecchi.

Per me, che sono appunto vecchio, resta quello con l’equilibrio migliore tra testo, immagini e video. Twitter è diventato molto simile a Facebook, ma, appunto, scimmiottandolo; comunque, conserva il famoso limite di caratteri, ultimamente annacquato ma irrinunciabile, essendo un suo elemento identitario.

Personalmente, non escluderei che il declino di Facebook, al netto della fisiologica saturazione, abbia una spiegazione molto più semplice. L’azienda che regge le fila del social network, una delle poche grandi tech a essere ancora gestita direttamente dal fondatore, ha distolto lo sguardo dalla sua creatura, ipnotizzata dall’ossessione per il Metaverso. Proprio ieri, su Insider, Travis Clark sosteneva esattamente questa tesi, con dovizia di argomenti e dati.

Quanto a me, da utente commerciale posso solo dire che sul piano tecnico Facebook mi sembra scricchiolante. Sono uno dei pochi a usufruire dei servizi a pagamento della piattaforma per promuovere le mie misere aspirazioni letterarie. I risultati in termini di visibilità ci sono – e ci mancherebbe -, soprattutto se commisurati alla tariffa, relativamente esigua ed estremamente flessibile.

Quello che manca è, come direbbe lo chef Cannavacciuolo, la cura dei dettagli. L’interfaccia per verificare l’andamento delle inserzioni cambia continuamente, è assolutamente controintuitiva e ti prende a calci in un rimpallo continuo tra ambiente ordinario e ambiente commerciale (business). Il grafico riepilogativo dell’engagement non è interattivo e spesso è inspiegabilmente in arretrato di mesi. Hanno insistito a lungo per farmi contattare da una loro consulente, poi quest’ultima mi ha inviato una mail lamentando di non riuscire a prendere la linea con il mio cellulare. Me ne sono stupito, assicurandola che parlo spesso con centralini aziendali (call center), e mi sono offerto di usare una piattaforma per le comunicazioni online: non era possibile e ci siamo cordialmente salutati.

Insomma, come spesso avviene, forse si potrebbero accantonare le analisi sociologiche e metafisiche in favore di qualche considerazione più elementare. L’azienda sta trascurando la sua attività principale (core business) in favore di un suo sviluppo (spin off) costosissimo, dai primi risultati deludenti e sempre più simile a un giocattolo del fondatore. Non sarebbe la prima volta, del resto, che la parabola di un genio visionario lo catapulta in un iperuranio rarefatto, come avviene al Dr. Manhattan di “Watchmen” (USA, 2009; i fumetti non li ho letti).

Insomma, il Metaverso si sta mangiando Facebook, in un rovesciamento del mito di Crono.

Un saluto dall’occhio bovino.

Stan

Occhi di gatto 2

Mia cara Berenice,

fin dai tempi remoti del folk, la figura del fuorilegge esercita una fascinazione profonda, che trova il suo climax nel magnetismo del vampiro, distruttore dei tabù del sangue, della morte, dell’incesto, della religione.

Questo non deve stupire minimamente, si tratta di una delle tante espressioni di quella pulsione antisociale di cui parlavamo in questi giorni.

Poiché, come si diceva, socialità e antisocialità coesistono, nella generalità dei casi il fuorilegge viene ingentilito, edulcorato, in qualche modo redento.

Robin Hood ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Lupin è un ladro gentiluomo, anche se in molte incarnazioni non è chiaro in cosa consista questa signorilità, se non nel fare il cascamorto.

Poi c’è il ribelle contro un governo oppressivo. Robin Hood che assalta gli esattori delle tasse o V che fa saltare in aria l’Old Bailey di Londra.

C’è chi fa guerra alla società nel suo complesso, semplicemente con sguardi torbidi scoccati alle ragazzine o con mezzi più violenti, come Tyler Durden.

Solo in casi rari, come quello del nostro Diabolik, si arriva al male dichiarato senza compromessi.

Torniamo però a ladri più innocui. Non meno importanti di Robin Hood, in molte adolescenze, sono state le sorelle nipponiche di “Occhi di Gatto”, che rubano opere d’arte per rimettere insieme la collezione sottratta al padre dai nazisti e poi dispersa.

Me le ha fatte ricordare la ragazza del Libano che, in questi giorni, ha rapinato una banca con una pistola giocattolo. Era l’unico modo di riavere i suoi risparmi, dato che la legislazione in vigore nel Paese mediorientale, in gravissima crisi finanziaria, vieta quasi totalmente i prelievi.

Un sinistro monito per l’Italia, appena minacciata da Moody’s di essere declassata a “spazzatura”.

Un puzzolente saluto.

Stan

Pecunia non olet

Mia cara Berenice,

i mercati finanziari hanno punito in modo draconiano, decapitato nel cortile della Torre di Londra la manovra finanziaria tentata dal nuovo Primo Ministro di Re Carlo III.

Il Governo di Sua Maestà Britannica voleva dare a Downing Street un party a tema anni ’80, concedendo massicci sgravi fiscali alle fasce più elevate della popolazione; tanto massicci da essere giudicati dagli analisti insostenibili per il Tesoro. Il risultato è stato il crollo della sterlina, l’intervento riluttante della Banca d’Inghilterra e quello irrituale del Fondo Monetario Internazionale.

Ecco che il mercato non è sempre di destra o sempre liberista. Questo si innesta, devo dire, sulle considerazioni che mi stava già ispirando il fiume di notizie di stampa finanziarie sottopostomi per la revisione post traduzione automatica da un’agenzia di un Hong Kong.

Abbattuta con il machete la fitta barriera terminologica, quei testi hanno cominciato a colpirmi per limpidezza, oggettività, pacatezza, competenza. Quando ci sono di mezzo i soldi, evidentemente, si ha meno agio di dire, scrivere o fare sciocchezze.

Certo, non bisogna farsi suggestionare. Non bisogna dimenticare la Grande Depressione, Keynes, il New Deal, lo stato sociale, i diritti economici e sociali, le crisi cicliche del capitalismo, i fallimenti del mercato, il crac della Lehman Brothers, la tragica austerità in Italia e in Grecia.

Eppure, cosa riuscirono a fare le città-stato medievali e rinascimentali con i loro banchieri, le Repubbliche marinare con le loro flotte e i loro consoli, gli Ordini cavallereschi con le loro lettere di credito… e, in quei tempi mitici, non furono forse gli scambi commerciali, che tanto facevano inorridire la Santa Sede, a evitare la degenerazione dello scontro tra Cristianesimo e Islam in conflitto di civiltà? Tornando ai giorni nostri, è un caso se in Argentina, crogiolo del populismo e terra natia del nostro beneamato Pontefice, i giovani stanno abbracciando l’ideologia libertaria?

Un saluto in spagnolo, o forse in tedesco.

Stan

Il parlamentino

Mia cara Berenice,

“parlamentino” viene talvolta chiamato, nel linguaggio giornalistico, il Consiglio Superiore della Magistratura, l’organo di autogoverno dei magistrati italiani (giudici e Pubblici Ministeri), dominato dai membri cosiddetti “togati”, ossia eletti dai magistrati stessi. Teoricamente, il CSM non dovrebbe avere nulla a che fare con la politica, ma i componenti togati sono generalmente candidati da “correnti”, da molti considerate l’equivalente magistratuale dei partiti politici: perciò parlamentino.

Da ieri, tuttavia, il termine “parlamentino” potrebbe estendersi anche al Parlamento vero e proprio che ha, sostanzialmente se non formalmente, sfiduciato il Governo Draghi.

Parlamentino perché la stampa nazionale ed estera, New York Times in testa, stigmatizzano la fine del Governo tecnico guidato dall’ex Presidente della Banca Centrale Europea.

Parlamentino perché il Presidente della Repubblica lo ha sciolto, annunciando la firma del relativo Decreto con un duro comunicato.

Parlamentino perché, a seguito di una recente riforma costituzionale, i deputati passeranno da 630 a 400 e i senatori da 315 a 200. Bisogna perciò dare atto almeno di come molti di coloro che hanno votato contro il Governo – o si sono astenuti o hanno abbandonato l’Aula – fossero consapevoli di rischiare di perdere il seggio. Tanto più che i due partiti considerati gli artifici principali della crisi, il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord, non sono in buona salute.

Il Movimento ha appena subito una scissione, rischia nuovi abbandoni e comunque è in grave crisi di consensi. La Lega, pur passandosela meglio, subisce la concorrenza da destra di Fratelli d’Italia e non si avvicinerà nemmeno al 34 per cento abbondante conseguito alle elezioni europee del 2019. Anche Forza Italia, il partito di Berlusconi stretto nella tenaglia di Lega e FdI, soffre il declino del suo capo, la mancanza di un successore designato e abbandoni illustri: se ne sono andati, in aperta polemica con la linea adottata, il Ministro della Pubblica Amministrazione e quello per gli Affari Regionali.

Un salutino.

Stan

PS: Dopo anni di scuola a singhiozzo a causa della pandemia, si voterà in concomitanza con l’avvio dell’Anno Scolastico. In Italia, i seggi elettorali vengono generalmente predisposti all’interno delle scuole, sospendendo così l’attività didattica per qualche giorno. L’Associazione Nazionale Presidi ha espresso “disappunto”.

Il grano

Mia cara Berenice,

l’Ucraina ha chiesto alla Turchia di sequestrare – gli anglosassoni userebbero il termine “arrest” – una nave russa carica di grano mietuto nei territori occupati.

Se proprio questo osceno conflitto zarista fuori tempo massimo ha un pregio, è quello di ricordarci il valore del grano, la materia prima del pane, un alimento del fortissimo significato simbolico, tanto da dominare lo stemma della FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura che ha sede proprio qui a Roma.

Nel famoso emblema comunista della falce e del martello, la prima serve appunto a mietere.

Nonostante il forte presidio del Partito Comunista Italiana nell’Assemblea Costituente, nello stemma della Repubblica Italiana troviamo solo l’ulivo, la quercia e l’ingranaggio.

Sono abbastanza vecchio e campagnolo da ricordare ancora i tempi in cui, nelle Venezie, si coltivava il grano nei campi, prima che quel prodotto perdesse ogni convenienza di mercato, ben prima dell’imporsi della monocoltura della vite.

Ora per il grano si combatte, del grano si discute nei consessi internazionali.

Pochi giorni fa, a Elmau, in Germania, il G7 ha deliberato che “la guerra di aggressione combattuta dalla Russia contro l’Ucraina, anche bloccando le rotte di esportazione del grano ucraino, sta aggravando drammaticamente la crisi della fame, determinando la distruzione della produzione agricola, delle catene di rifornimento e del commercio, così portando i prezzi mondiali di cibo e fertilizzanti a livelli senza precedenti; di tutto ciò, la Russia ha un’enorme responsabilità”.

Il G7 parla di aggravamento, in quanto, citando un’altra Agenzia romana delle Nazioni Unite, il Programma Alimentare Mondiale, “il mondo sta affrontando una crisi globale della fame di proporzioni senza precedenti. In soli due anni, il numero di persone in uno stato di grave insicurezza alimentare è aumentato di oltre 200 milioni, dalle 135 milioni di persone pre-pandemia alle 345 milioni di persone di oggi. Di questi, fino a 50 milioni di persone in 45 paesi sono ad un passo dalla carestia. Particolarmente preoccupanti sono Etiopia, Somalia, Yemen, Sud Sudan e Afghanistan. La crisi, provocata da una combinazione di shock climatici, conflitti, impatto economico del COVID, aumento dei prezzi di cibo e del carburante, è stata ulteriormente aggravata dalla guerra in Ucraina”.

Un solenne, calloso saluto da seminatore dannunziano.

Stan

Toghe impolverate

Mia cara Berenice,

sul Sole 24 Ore di oggi, un ottimo articolo di Maria Carla De Cesari incrocia dati della Cassa Forense e risultati di un’indagine Censis per dipingere un quadro non propriamente roseo della situazione dell’Avvocatura, tra redditi bassi, fuga verso la Pubblica Amministrazione e un professionista su tre intenzionato a cambiare lavoro.

Una fotografia che potrebbe sorprendere il quivis e populo, abituato a considerare l’Avvocatura sbocco naturale e prospero degli studi in Giurisprudenza, sempiternamente protetto da un solido presidio in Parlamento, al Governo e nella Pubblica Amministrazione.

Viceversa, sbadiglieranno di noia gli addetti ai lavori, ma anche chiunque abbia frequentato i corridoi di un Tribunale.

Si usa stigmatizzare la pratica professionale gratuita, la cui durata è stata ridotta da due anni a diciotto mesi. In realtà, solitamente, dopo il primo semestre al praticante viene riconosciuta dal dominus (questo il titolo feudale attribuito al titolare dello Studio) una borsa di studio.

Il problema non è la pratica, poca cosa rispetto ai cinque anni già trascorsi dal rampollo a razzolare nella Facoltà di Giurisprudenza, a frequentare l’unico corso di laurea uscito con un anno di durata in più dalle riforme universitarie che dovevano accelerare l’iter degli studi.

Il problema è che sostenere l’esame di Stato, sinistramente simile a una lotteria, richiede anni.

Il problema soprattutto è che, ottenuti finalmente il titolo di Avvocato e l’iscrizione all’Albo, lo stipendio non cambia poi di molto.

Se si resta nel tipico studio medio-piccolo, si rimane collaboratori a partita IVA, per sempre. Se decide di licenziarti, il dominus deve solo indicarti la porta, come nei film americani. Lo stipendio, falcidiato da ferie e malattie non pagati, nonché dai contributi alla Cassa Forense, è da fame – nonostante il regime fiscale generosissimo che il Governo, per non infierire, applica alle piccole partite IVA: per fare un esempio pratico, largamente inferiore a quella della segretaria ventenne dello Studio.

Certo, in teoria si resta nello Studio altrui solo qualche anno, a farsi le ossa prima di aprire in proprio, magari con l’aiuto delle difese d’ufficio penali.

L’esercizio della professione in proprio, tuttavia, per non essere un costoso hobby richiede un portafoglio di clienti, possibilmente puntuali nei pagamenti delle parcelle. Il portafoglio spesso si eredita, in senso lato. Si prende cioè in gestione lo Studio di famiglia o la famiglia stessa procura i clienti in altro modo, facendo leva su uno Studio commercialistico, un’Agenzia assicurativa, uno Studio medico ben avviato, qualche carriera nella politica locale, etc. In casi rari, il giovane Avvocato riesce a costruirsi il portafoglio da solo. Per questo, le competenze tecnico-giuridiche non bastano, occorre una particolare propensione alle pubbliche relazioni. All’Università non te lo insegnano e forse non si può nemmeno imparare; anzi, ai corsi di deontologia ti illustrano il “divieto di procacciamento di clientela”.

Un’alternativa può essere il grosso Studio di Milano o di Roma. Farsi assumere, però, non è facile. Se anche ci si riesce, lo stipendio più che decoroso lo si paga immolando sull’altare la vita privata.

Un compromesso può essere la posizione di legale interno (in house) in un’azienda. I posti di questo tipo però sono pochi, in un Paese dominato dalle Piccole Medie Imprese e in cui, comunque, è più conveniente appaltare il lavoro legale a uno Studio esterno, in cambio di una parcella forfettaria mensile. Nulla vieta, poi, che anche in questo caso venga offerta una collaborazione a partita IVA.

Insomma, l’Avvocatura è un po’ come gli Hunger Games: meno di uno su venti ce la fa, e non ci sono nemmeno Jennifer Lawrence o Jena Malone.

Con osservanza.

Stan

Requiem for a Dream?

Mia cara Berenice,

i dati ufficiali sono chiari: i cinema italiani stanno male, malissimo, agonizzano.

Nel 2021 sono addirittura andati peggio rispetto al 2020, quando erano chiusi. È vero che nel 2020 la pandemia arrivò solo a fine febbraio e ci furono effimere riaperture; è vero che la ripartenza del 2021 fu estremamente faticosa, tra limiti di capienza, mascherine, igienizzazioni e film rinviati o fatti uscire direttamente sulle piattaforme; è vero, infine, che la stagione cinematografica tradizionalmente va dall’autunno all’estate, rendendo difficile fare confronti anno su anno.

Tanto premesso, negli altri Paesi europei il 2021 dei cinema è andato nettamente meglio, partendo per di più da una situazione prepandemica incomparabilmente più favorevole: la Francia, ad esempio, ha una densità di sale nemmeno paragonabile a quella italiana.

Sulla rivista Il Mulino, il cineasta Alessandro Rossi ne ha per tutti: Ministero della Cultura, sistema di distribuzione, esercenti. Rossi liquida con scetticismo forse giustificato la proposta di adottare il modello francese, imponendo per legge la cosiddetta “finestra” di diversi mesi fra l’uscita di un film e la disponibilità del medesimo sulle piattaforme digitali.

Io, nel mio piccolo, ne avevo già parlato con la Presidentessa del nostro cinema ex parrocchiale, nelle Venezie. Le avevo detto che, a Roma, teatri e cinema non se la passano male e speravo che la medesima tendenza, secondo un consolidato schema, si riversasse in provincia.

Se così non fosse, mi auguro che il Ministero della Cultura o le organizzazioni di categoria sappiano fare leva abilmente sugli interessi economici di Hollywood. Gli Studios hanno ogni convenienza a salvare il cinema, da cui proviene ancora il grosso degli incassi, per non parlare del fatto che tutto quanto viene reso disponibile sulle piattaforme digitali è immediatamente preda dei pirati informatici.

Purtroppo, temo non sia un problema risolvibile dal basso, ossia a livello di sale di comunità, come sembra suggerire Rossi. Proprio i piccoli cinema, secondo l’autore, dovrebbero farsi araldi di un marketing più moderno e aggressivo. Queste cose, però, costano. Se non riescono a metterle in campo i grandi multisala, non si può chiedere ai piccoli cinema di fare miracoli: nemmeno nel Nord Est, patria della cosiddetta multinazionale tascabile.

Uno speranzoso saluto.

Stan

A Monaco

Mia cara Berenice,

è comprensibile il tuo scetticismo sui continui allarmi di invasione russa lanciati da Washington e Londra.

Intendiamoci, gli anglosassoni potrebbero benissimo avere ragione. Proprio in questo momento, sullo schermo del televisore di casa mia si staglia, su un cupo sfondo nevoso, la corrispondente della TV di Stato, secondo cui i mortai tuonano “ininterrottamente”.

Tuttavia, di fronte alle sirene angloamericane, è impossibile non ricordare il 2003. Il Segretario di Stato americano, l’ex generale Colin Powell, si presentò al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite sventolando una fialetta di antrace o qualcosa del genere.

Il Governo di Sua Maestà produsse un ponderoso e austero dossier in cui documentava le violazioni dei diritti umani e degli obblighi internazionali da parte dell’Iraq. Sempre da Whitehall, se non ricordo male, arrivò l’argomentazione giuridica – discutibile finché si vuole, ma indubbiamente raffinata – secondo cui l’Iraq, violando gli accordi armistiziali stipulati al termine della Guerra del Golfo, aveva fatto risorgere l’autorizzazione all’uso della forza militare concessa dal Consiglio di Sicurezza nel 1990.

Riavvolgendo il filo rosso della Storia, torna in mente il parere legale dei Law Officer su cui l’Impero Britannico fondò l’invasione dell’Egitto nel 1956.

Tornando agli Stati Uniti, si può invece rievocare l’incidente del Golfo del Tonchino del 1964, messo in scena per giustificare l’intervento in Vietnam. Com’è noto, non andò a finire bene. Anche in questo caso, per la verità, non si vede come la crisi ucraina possa avere un epilogo positivo per gli Stati Uniti o l’Occidente in generale, sia che la Russia attacchi, sia che si ritiri.

Tra l’altro, apprendo in questo momento che si è tenuta una conferenza di pace… a Monaco.

Un sconcertato saluto.

Stan

L’esercito dei Macron

Mia cara Berenice,

ogni guerra è assurda, ma con la crisi in Ucraina si sta largamente passando il segno.

L’Ucraina non potrà mai essere ammessa nell’Alleanza Atlantica, finché la comunità internazionale considera la Crimea illegalmente occupata anziché annessa dalla Russia – per il semplice motivo che ciò farebbe scattare, in modo praticamente automatico, la clausola di mutua difesa prevista dall’articolo 5 del Trattato di Washington. Eppure, la Russia si ostina a chiedere la garanzia formale che l’Ucraina non sarà cooptata e la NATO continua a rifiutarsi di prestarla.

Nel frattempo, la stampa mondiale ride della foto del Presidente russo e francese che conferiscono alle due lontanissime estremità di un interminabile tavolo. A quanto pare, il signor Macron si sarebbe rifiutato di sottoporsi a un test COVID russo, per non lasciare il proprio DNA agli ex sovietici. Nel frattempo, durante la sua permanenza a Mosca, un intero sciame di agenti dell’FSB e del GRU gli avrà sfilato bicchieri, posate, fazzoletti, capelli, peli, campioni di sangue e di altri innominabili liquidi organici, diligentemente imbustando e sigillando ogni cosa in provetta, il tutto mentre ballava lo Schiaccianoci.

Con il DNA di Macron, i russi creeranno un esercito di cloni del Presidente francese che metteranno in fuga i difensori ucraini semplicemente rivolgendo loro un sorriso glaciale e insopportabile.

Au pas camarades!

Stan