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Mia cara Berenice,

ieri sera avevo un fastidioso mal di gola, probabilmente dovuto a questa bizzarra primavera marzolina. Facendomene scrupolo, stamattina sono andato a farmi un tampone alla farmacia vicino casa.

A lato dell’esercizio un vialetto, piuttosto ampio per i parametri romani, conduce al cortile sul retro di un palazzo. Là è stato eretto un piccolo prefabbricato con una bucolica finestrella per l’operatrice, mentre lungo i muri sono disposte delle sedie. Rispetto alla mia ultima visita, accanto al casottino era sorta una tenda per le vaccinazioni, ma le novità non finivano qui. Alle spalle della dottoressa si intravedeva una macchina per le analisi dalle linee candide e moderne, ed era possibile scegliere tra tampone ordinario e con lettura della carica virale. Infine, l’esito negativo, anziché essere strillato dalla finestrella, mi è stato recapitato direttamente sul cellulare, sulla stessa app governativa che utilizzo per esibire il certificato vaccinale.

Era come in uno di quei videogiochi di strategia in cui costruisci la caserma dei soldati, per poi aggiungere l’infermeria e, in seguito, i radar sul tetto.

Quale differenza con il 2020! Allora, in Italia non si trovavano nemmeno le mascherine, una sartoria di quartiere si mise a confezionarle e distribuirle. In Belgio, in presenza di sintomi leggeri, non mi fu concesso di sottopormi a tampone. Solo in seguito, l’Esercito montò, nel cuore del Parco del Cinquantenario, un tendone dove era possibile farsi frugare le narici, ma solo esibendo una prescrizione medica o un biglietto aereo di prossima scadenza; in questo secondo caso, bisognava aggiungere un gruzzoletto consistente.

Quanto ai vaccini, stavano terminando l’iter delle sperimentazioni e delle autorizzazioni, concluso il quale venivano perennemente annunciati senza arrivare mai.

Insomma, non saremo gli essere più saggi e pacifici dell’Universo, ma di certo siamo adattabili.

Un proteiforme saluto.

Stan

L’ombelico della Bestia

Mia cara Berenice,

ora che – auspicabilmente, almeno – la tua ira per l’addio al celibato sarà svaporata, consentimi di tornare sull’argomento.

A dimostrazione della nostra serietà e del nostro rispetto per il Codice della Strada e le disposizioni sul coprifuoco, abbiamo preso a nolo un pulmino e pernottato in un agriturismo… ed ecco quello che noi chiamiamo il colpo di scena, gli anglosassoni il plot twist, la biforcazione tipica di tanti film dell’orrore.

A causa dell’omonimia fra due paesini, le camere erano state prenotate non in prossimità dell’ultima tappa, ma nella Provincia di Padova. Liquidato l’innocuo errore fra le risate, ci dirigiamo di buon grado a destinazione. La titolare dell’agriturismo e suo figlio ci accolgono con ogni savoir-faire, ci mostrano le stanze, ci ribadiscono che il ristorante convenzionato per la cena è, letteralmente, a un tiro di sasso.

È uno di noi a realizzare: “Ma siamo a Vo’?!”

Vo’. Sembra la sillaba di un carme arcaico paleoveneto… e lo fu davvero. Il primo, grande focolaio del virus in Veneto. Là il Professor Crisanti dell’Università di Padova ha condotto il suo celebre studio sulla modalità di diffusione del covid.

La sera, sotto la veranda gremita del ristorante, la cameriera ci rassicura ridendo: “Qui non siamo a Vo’, Vo’ comincia lì, dopo la curva. Ai tempi della Zona Rossa, lì c’erano i carabinieri con le transenne. Comunque è morta una sola persona, e chissà se veramente di covid”.

La seconda cameriera, giovanissima, ci rimprovera scherzosamente quando le diamo della signora.

Il titolare ci dà uno stizzito preavviso di sfratto all’approssimarsi del coprifuoco, ancora in vigore fino a lunedì. La cameriera non se ne dà per inteso e ci offre un giro di amari. Anche il titolare cambia tono, si scusa.

Il nostro autista sobrio, sgravato dalla clemenza della Notte dai suoi obblighi, si erge nel cortile dell’agriturismo, nudo, le vergogne coperte solo da un asciugamano, alla moda della Grecia Antica, alla luce della luna.

Si dorme fra il paupulare del pavoni.

La mattina dopo, decidiamo di visitare il vicinissimo centro di Vo’. Ci fermiamo al caffè della piazza principale, fotografiamo devotamente la scritta “L’alcol ci protegge”, resa famosa dalla stampa nazionale. Al capo opposto dello spiazzo, sulla vasta facciata ocra del Municipio campeggiano, in vetusti caratteri cubitali, i tre segni cabalistici: “Vo'”.

L’esorcismo è compiuto, forse anche grazie al capro espiatorio della comitiva, dalle viscere particolarmente scosse.

Amen.

Stan

Contrordine, compagni!

Mia cara Berenice,

la frase “Contrordine, compagni!” venne usata da Giovannino Guareschi, a partire dal 1947, per deridere la rigida disciplina interna del Partito Comunista Italiano.

Come sempre, però, i comunisti sono dei dilettanti, rispetto ai democristiani. Così, in questi giorni, la danza forsennata che stanno dirigendo le Autorità governative italiane sta trasformando le grandi manovre militari sui Fori Imperiali in una quadriglia forsennata.

Pochi giorni fa, come ti scrivevo, l’allarme dell’Istituto Nazionale di Statistica per la mortalità causata dalla pandemia nel 2020. Tra l’altro il Prof. van O., sempre lesto quanto un cecchino a impallinarmi, mi ha fatto giustamente notare che il paragone fra 2020 e 1944 è inappropriato, in quanto, all’epoca della Seconda Guerra Mondiale, la popolazione italiana era molto minore, e quindi la mortalità in termini percentuali molto più alta.

A ogni modo, lo stesso Istituto oggi pubblica il Censimento Annuale della popolazione, segnalando una problematica ben più consueta, ossia l’invecchiamento della popolazione. Nessuna contraddizione, ovviamente, anche perché la rilevazione si era chiusa nel 2019, quindi in tempi pre-pandemici. Infatti, non è questo il peggio.

Proprio ora leggo che il Governo intenderebbe proclamare la zona rossa nazionale – di fatto un confinamento analogo a quello della prima ondata – dal 24 al 27 dicembre, e poi dal 31 dicembre al 3 gennaio.

Quindi, dalla Vigilia di Natale fino ai due giorni successivi, chiusi in casa. Poi, liberi tutti fino alla vigilia di San Silvestro.

Non occorre avere doni di chiaroveggenza per capire come finirebbe, se queste bizzarre disposizioni venissero confermate. Chi potrà, si accaparrerà qualche casale in montagna o nei campi e lo raggiungerà il 30 per festeggiare il Capodanno. Potrebbe perfino avvenire con maggiore frequenza degli anni scorsi; anzi, pare che le contrattazioni siano già in corso.

Viene spontaneo chiedersi quale giro di valzer ci porterà l’anno nuovo. Forse annulleremo gli ordinativi di vaccini e tenteremo di raggiungere naturalmente l’immunità di regge.

Uno spericolato saluto.

Stan

Piazze

Mia cara Berenice,

nelle mie ultime ho evidenziato il crescente parallelo fra Italia e Belgio. I Governi di entrambe le Nazioni hanno proclamato quelli che sono, sostanzialmente, dei nuovi confinamenti mascherati (maquillage, camouflage).

La reazione nei due Paesi, però, è stata diversa. Sostanzialmente quieta qui in Belgio, anche tenendo conto del fatto che la mia conoscenza del quadro locale è ancora frammentaria. Più sanguigna in Italia, dove ci sono state manifestazioni di protesta a Napoli – non a caso, una città generalmente associata all’economia informale -, ma anche a Roma e in altre città. A tal proposito, desta perplessità la fretta burocratica e stereotipata con cui il Ministero degli Interni ha liquidato il tutto come una macchinazione della criminalità organizzata o dell’estrema destra.

Il discrimine è del resto evidente: il Belgio è un Paese più ricco dell’Italia.

Così come siamo stati il primo Paese europeo a essere colpito dal virus, potremmo essere il primo a dimostrare la scarsa sostenibilità economico-sociale dei confinamenti.

Durante il primo, passai il mio momento più nero non quando sfilò il famoso convoglio di camion militari carichi di bare, ma quando si diffuse la notizia – poi rivelatasi falsa – di assalti organizzati ai supermercati di Palermo.

Naturalmente, spero di eccedere in pessimismo.

Uno scaramantico saluto.

Stan

Cinema

Mia cara Berenice,

i cinema chiudono, di nuovo. A Bruxelles e, sembra, anche in Italia.

Tu sai quanto sia importante il grande schermo per me; in Italia, faccio anche il proiezionista.

È inutile dirti che, per me, vedere un film in streaming è qualcosa, ma non è la stessa cosa.

È peraltro illusorio pensare che questa pandemia si limiti a trasferire la visione dal grande al piccolo schermo domestico.

Essa colpirà le produzioni, a vari livelli. Sarà più difficile girare e sarà anche meno redditizio, dato che una fetta consistente di incassi, nonostante tutto, veniva ancora dalle sale.

Rinascita delle piccole sale? Dei cineforum? Delle proiezioni all’aperto? Delle produzioni indipendenti?

Francamente, tutto ciò mi consola poco.

Il cinema è anche lustrini, paillette, tappetti rossi, divette, flash.

Anche il film di cassetta, il Blockbuster, ha una sua funzione ben precisa che i cinefili sinceri e sopportabili riconoscono. Si può, anzi si dovrebbe essere estimatori della cucina stellata ed essere comunque in grado di apprezzare il panino caldo e unto di porchetta di Ariccia allungato da un camioncino variopinto lungo Via del Foro Italico.

Del resto, questa mia querimonia contiene in sé la soluzione. Se il cinema è veramente tutto quello che dico, sopravvivrà.

Uno speranzoso saluto.

Stan

Focolai pontifici

Mia cara Berenice,

è dalla confortevole lontananza del Veneto che apprendo l’esplosione di un nuovo focolaio dell’infezione al Theresianum di Roma, un pontificio istituto all’interno di Villa Pamphili, a pochi passi da casa mia.

Esattamente, quella Villa Pamphili in cui si concludono, proprio oggi, gli Stati Generali convocati dal Presidente del Consiglio Prof. Conte.

I positivi del Theresianum sarebbero, a quanto riporta la stampa, tre seminaristi e un funzionario amministrativo.

Se non altro una cornice démodé, ben più elegante dei macelli tedeschi o dei locali notturni di Seul e Tokyo.

È fin troppo semplice immaginare l’investigatore epidemiologico arrivare in calesse. Esponente dell’alta aristocrazia, la giacca appesantita dalle onorificenze, il parruccone spiovente sulla testa, scortato da due bargelli in abito nero: insomma, Vittorio Gassman ne “La Tosca” di Luigi Magni (Italia, 1973), fatto e finito: “Non basta esse’ bigotto / Non basta esse’ barone / Se nasce poliziotto / Ce vo’ la vocazione”.

Ecco dunque il nostro barone Scarpia qualificarsi esibendo le sue brave lettere patenti pontificie e interrogare il Direttore del Theresianum, un gesuita pallido dal terrore.

“Ho qui il suo incartamento, che il suo preposito generale ha avuto la premura di farmi avere addirittura questa notte,” esordisce Scarpia, mellifluo e minaccioso, “dal quale risulta che voi, mentre eravate in servizio di missione nelle Indie Portoghesi, avete già contratto un virus ben peggiore del covid”.

“La febbre gialla, Eccellenza?” Balbetta il pretino.

“No: il giacobinismo”.

In realtà, dall’incartamento risulta solamente che il Direttore, ai tempi in cui era in missione a Goa, ha frequentato assiduamente Pondicherry, nell’India Francese: per ragioni squisitamente teologiche, ma Scarpia va a colpo sicuro e ormai il sacerdote trema come una foglia.

Proprio per questo, il barone addolcisce repentinamente il tono.

“Orsù, calmatevi, monsignore! Io non credo che siate stato voi ad attirare sull’Urbe questo castigo divino. Secondo la mia esperienza, è più probabile che il focolaio sia divampato altrove: dopotutto, di recente c’è stato un forte assembramento proprio qui… a Villa Pamphili”.

Ecco il vero bersaglio di Scarpia, il primo ministro liberale nominato dal Papa forse per convinzione, forse su pressione della piazza e delle cancellerie straniere, in ogni caso troppo solerte nell’erodere i privilegi giuridici e fiscali degli Ordini religiosi e dell’aristocrazia.

Per i giureconsulti, la fattispecie della procurata epidemia rientra nell’antico crimine di maleficio, per il quale è ancora prevista la giurisdizione del Sant’Uffizio. Un libello d’accusa contente quel capo e il primo ministro vedrà stroncata la sua carriera politica… o peggio.

Scarpia strizza gli occhi incipriati, già pregusta il trionfo della sua fazione reazionaria che potrebbe valergli la berretta cardinalizia… o qualcosa di più.

Primissimo piano.

Stacco.

Buona la prima.

Stan

Venetian Blues

Mia cara Berenice,

in questi giorni Venezia è stata colpita dall’acqua alta.

L’acqua alta.

In giugno.

Subito dopo la grande ondata del virus.

Tu ricordi Venezia.

Tu sai quanto profondamente essa dipenda dal turismo.

Tu ricordi quei portali montati agli ingressi della Strada Nuova, quando il Comune studiava un modo per limitare l’afflusso.

Ora li convertiranno in termoscanner.

La pandemia ha colpito duramente anche il Casinò comunale, che era già in difficoltà.

In difficoltà.

Un casinò.

A Venezia.

Quelli di Las Vegas hanno appena riaperto e sono già pieni.

L’anno scorso, Venezia era stata colpita dall’acqua alta più grave e devastante da quella, leggendaria, del 1966.

La più grave e devastante.

Dal 1966.

Sempre il 2019 è stato un anno di incidenti che hanno coinvolto le grandi navi da crociera, una delle quali ha rischiato di speronare San Marco.

Ogni nave da crociera che transita per Venezia è preceduta e seguita da un rimorchiatore.

Ai comandi ci sono i piloti della locale Corporazione.

È come se Venezia fosse ancora avvolta dalla luce color cartone del crepuscolo del 1797.

Nel 1848, sull’onda dei Moti, l’antica Dominante si erse contro l’Impero Austriaco.

Assediata dalla terra e dal mare, fu costretta ad arrendersi nel 1849.

A quel corpo ululante di dolore il poeta Arnaldo Fusinaro, come una levatrice, strappò questi versi:

“Ma il vento sibila,
    Ma l’onda è scura,
    Ma tutta in gemito
    È la natura:
    Le corde stridono,
    La voce manca,
    Sul ponte sventola
    Bandiera bianca!”

Secondo le Serie Storiche del Comune di Venezia, dal 1951 al 2019 la popolazione della Venezia insulare è calata da 174.808 unità a 52.143.

Nel 2016, una farmacia ha installato in vetrina un contatore in tempo reale dello stillicidio.

Da 174.808 unità.

A 52.143.

A fine mese la rivedrò.

Stan

Crocicchio

Mia cara Berenice,

una ragazza corre per Villa Pamphili. Ha scelto un’area riposta dell’enorme parco, per evitare assembramenti. Da una macchia di pini sbuca in una radura da cui si diparte un manipolo di sentieri incerti e mal tracciati. Posa le mani sulle cosce, si piega, ansima, si abbassa delicatamente la mascherina per respirare a pieni polmoni. Dove andare?

In lontananza, oltre il crinale di una collinetta, vede sfilare la polizia a cavallo: sicurezza e strada battuta, ma rischio di affollamento. Dalla parte opposta, erba secca e incolta, polvere da tosse ansiogena, il rischio di mettere un piede in fallo. Proseguendo diritta potrebbe imboccare un esile sentiero di terra e sassi, ma teme di sbucare chissà dove e penare per rientrare a casa. Il cellulare con il GPS è chiuso nel marsupio, fino a quel momento non l’ha toccato, se lo impugna poi dovrà sanificarlo . Si terge il sudore, stando attenda a usare l’avambraccio.

Così siamo ora, nel limbo. Oggi, 1° giugno 2020, vigilia della Festa della Repubblica, il virus ci sta indubbiamente dando tregua, ma domani? Risorgerà in pieno giugno, sulla scorta delle riaperture che hanno affollato bar e ristoranti? Oppure, come un gatto sdraiato al sole sulle mattonelle, poltrirà fino a settembre, finché il freddo non lo scuoterà dalla sua pigrizia, facendolo stiracchiare e soffiare?

La domanda che nessuno osa fare: finirà mai?

A fare pulizia della ragnatela di sentieri lasciata tessere dal Servizio Giardini di Roma Capitale, ci pensa Gina Kolata sul New York Times e poi, in italiano, su Internazionale. L’articolo ha un taglio storico e infatti argomentazioni simili vengono ripetute, forse in modo più estremizzato, dal Prof. Andrea Carlino, docente di Storia della Medicina dell’Università di Ginevra.

Kolata e Carlino impugnano la ramazza, forse anche il machete, riducendo il crocicchio confuso a un bivio.

Le pandemie inevitabilmente finiscono e ciò può avvenire in due modi, con una soluzione sanitaria o con una sociale. Questa non va considerata un’alternativa secca, solitamente le due vie procedono in parallelo, ma con una certa prevalenza della seconda. Innanzitutto, raramente la scienza è in grado di debellare una malattia in modo assoluto: è accaduto praticamente solo con il vaiolo. In secondo luogo, nessuna pandemia è finita finché non si esaurisce il panico da essa generata.

La nostra mente collettiva, dunque, può far sopravvivere un virus, ma può anche debellarlo? Carlino lo afferma con veemenza, ma anche gli storici intervistati da Kolata sono sulla stessa lunghezza d’onda: in assenza di una soluzione medica, a un certo momento verrà presa, collettivamente, la decisione di tornare alla vita normale.

Può risultare uno scenario inquietante, di una società pronta a sacrificare una minoranza – oltretutto composta da deboli e anziani – per tornare al lavoro in ufficio, al bar dopo l’ufficio e alle vacanze al mare in agosto. Eppure, ogni società si basa su sacrifici. Circoliamo in auto, pur sapendo che è un’attività pericolosa. In un’economia di libero mercato, per quanto temperata dallo stato sociale, accettiamo il rischio dell’indigenza altrui e perfino nostra; per non parlare di quanto avviene al di fuori dei nostri confini, dove lo stato sociale si ferma e al massimo arriva qualche aiuto umanitario o cancellazione periodica del debito.

Nel complesso, francamente, io trovo più rassicurante sapere che la pandemia, prima o poi, finirà. Del resto, ho fiducia che questo avverrà con qualche ausilio della scienza. Personalmente, punto sugli anticorpi monoclonali più che sul vaccino, ma sono pronto a farmi sorprendere.

Al tempo stesso, però, ci sono già segnali dell’avanzare di una soluzione sociale.

Non mi riferisco alla solita Svezia, spesso citata a sproposito. Più che evitare il confinamento (lockdown), il Regno nordico l’ha imposto con forme giuridiche non vincolanti, come del resto il Giappone.

Pensavo invece a Paesi come il Sudafrica, l’Iran e l’India, indotti da semplice spirito di sopravvivenza ad allentare le restrizioni, nonostante la mancata flessione della curva pandemica.

Che dire poi degli Stati Uniti? Un vecchio copione che ci riporta ai tempi in cui il virus non esisteva. Cittadino di colore ucciso durante un fermo di polizia, autopsia pilatesca, proteste a macchia d’olio, agenti in assetto antisommossa e Guardia Nazionale, stazioni di polizia date alle fiamme, politicizzazione. In questi giorni, la stampa anglosassone non parla d’altro, la pandemia sembra scomparsa, così come è lontana dai pensieri da chi si assembra per sfidare le forze dell’ordine, non solo negli Stati Uniti.

È possibile che questo sfogo così violento per ingiustizie così antiche sia, in parte, anche l’espressione di una volontà collettiva di voltare pagina? Probabilmente è ancora troppo presto, ma a mio avviso è un passo in quella direzione.

Un caro saluto.

Stan

Vietnam

Mia cara Berenice,

ti scrivo mentre in TV danno la versione integrale di “Apocalypse Now” di Francis Ford Coppola (USA, 1979). Ho ben presenti le lezioni di quel conflitto in questi giorni in cui, con progressive incursioni ed esplorazioni, sto disegnando la mappa tattica di Roma.

Monteverde, la base: ripresa piena.

Trastevere: dopo un inizio difficile, ripresa piena.

Centro storico: anche qui situazione in miglioramento. Arranca ancora Monti e anche Villa Borghese era meno affollata di quanto mi attendessi. Quanto a Termini, mi aspetto che sia ancora il buco nero in cui sono sprofondato giorni fa; potrebbe migliorare in giugno, se riprenderanno le corse dei treni a lunga percorrenza.

Vaticano: dalle informazioni raccolte, ancora poco frequentato.

Ostia: dalle informazioni raccolte, ottima situazione.

La mappa, ancora dominata dalle aree bianche ma con una buona intelaiatura di punti strategici, fa bella mostra di sé sul tavolo del comando. Una tazza di caffè, posata nell’angolo, l’ha macchiata leggermente. È fissata al legno dozzinale con delle puntine, perché la ventola pigramente rotante sul soffitto solletica i lembi di carta sdrucita, con il timbro a secco “U.S. Army – Military Assistance Command, Vietnam” nell’angolo opposto a quello macchiato.

Un ufficiale di stato maggiore che porta male i suoi quarant’anni scarsi, la pelle inspessita e cotta dal sole, l’uniforme spiegazzata dal sudore, il chewing gum in bocca, illustra il moderno arazzo al tenentino appena atterrato da West Point.

“Questa è la situazione,” lo arringa con parole stiracchiate e strascicate, lasciate cadere con condiscendenza come monete a un lucidascarpe di Montgomery, Alabama, “ma è la situazione di adesso,” guarda l’orologio da polso, “ore 00.08, ora locale dell’Indocina, del 25 maggio 1970. Alle ore 00.09, può cambiare tutto. Un intero battaglione del Nord Vietnam o del Viet Cong può comparire dal nulla, e questo proprio nelle zone dove tutto sembra più tranquillo, sicuro e rilassato: per esempio, a un cocktail di alti papaveri americani e sudvietnamiti in un hotel a cinque stelle di Saigon. I camerieri si sbottonano i bottoni d’oro delle uniformi bianche e imbracciano i fucili d’assalto. Qui funziona così”.

Considerazioni più o meno esplicite, più o meno consapevoli sulla decadenza morale che vanno a fondersi a mere valutazioni strategiche e tattiche, come l’opportunità per Hanoi di spezzare ogni simulacro di normalità nella vita del Sud.

Così, nell’Italia del 2020 in guerra contro il virus – sì, in guerra, non mi interessa se questa metafora a qualcuno non piace -. ci si interroga sulla vita sociale nuovamente innescata dalla fine delle restrizioni all’interno dei Governatorati e dalla riapertura di bar e ristoranti.

A Villa Pamphili, la polizia a cavallo sorveglia discretamente una folla silenziosa ma ben distanziata. Tale era sembrata a me anche quella confluita a Trastevere, con l’eccezione forse di Piazza San Callisto, dove infatti ho visto posizionarsi due camionette della Celere guidate da ispettori in borghese. Ieri sera, secondo la stampa, la situazione sarebbe degenerata, soprattutto in Piazza Trilussa.

I parchi di Monteverde sono un fremito di bambini che corrono e giocano. In molti casi, i nastri gialli con cui la Polizia Municipale ha sbarrato le aree giochi sono stati strappati o semplicemente ignorati.

Gioia, sollievo, pericolo insieme.

Speriamo che il virus non stia pianificando l’offensiva del Tet.

Un saluto militare abbozzato, non proprio impeccabile.

Stan

Pandemia e diplomazia

Mia cara Berenice,

ti ricordi quando, nel tentativo evidentemente fallito di fare colpo su di te, ti raccontai del mio passato incarico nell’Ufficio Diplomatico del Governatorato? Sbattesti le lunghissime ciglia e mi chiedesti a bruciapelo: “A che serve un Ufficio Diplomatico, in un Governatorato?”

Ti feci allora l’esempio di quando accolsi a Venezia il Governatore della Banca Federale germanica. Da un pontile riservato di Piazzale Roma, dietro l’Hotel Santa Chiara, lo caricai sul motoscafo del Governatorato e gli feci percorrere l’intero Canal Grande fino a Piazza San Marco, dove una deliziosa guida turistica americana – trecce bionde – ci fece fare il giro di Palazzo Ducale. Da lì lo scortai a Palazzo Ferro Fini, sede del Consiglio Regionale, dove il Governatore tenne un discorso… in cui si scagliò a testa basta contro le dissipazioni dell’Erario italiano.

In quello specifico caso, dunque, effettivamente il cerimoniale non servì a molto; ma, in generale, la diplomazia è ovunque, perfino nelle pandemie.

Proprio oggi, la Francia ha invocato il più classico dei principi internazionalistici, quello di reciprocità, per applicare una quarantena di quattordici giorni (quasi un ossimoro) ai cittadini britannici che entrino nel suo territorio.

Sempre il Governo di Parigi, poco prima, ha protestato dopo che l’amministratore delegato della Sanofi aveva lasciato intendere che gli Stati Uniti potessero godere di un diritto di prelazione su un eventuale vaccino.

Nel frattempo, nella sempreverde Ginevra: l’Organizzazione Mondiale della Sanità deve difendersi dalle accuse americane di essere inefficiente e filocinese; la Cina deve resistere alle pressioni internazionali, a trazione americana, per una commissione d’inchiesta sulla genesi del virus e sulla gestione iniziale dell’epidemia; Taiwan, lo Stato che forse meglio di tutti ha gestito la situazione, trova le porte sbarrate, perché la stessa Cina lo considera una sua Provincia. Te ne avevo già scritto, rammenti?

Per non parlare delle sottili implicazioni politiche degli invii di aiuti da una Nazione all’altra, sotto forma di medici, materiale sanitario, dispositivi di protezione individuale, etc. Particolarmente zelante in questo è stata la Cina che, secondo i suoi detrattori, avrebbe molto da farsi perdonare.

Per qualche motivo, però, in Italia hanno sollevato maggiore attenzione e preoccupazione gli aiuti russi. Erano partiti con il piede giusto, grazie anche all’indovinato slogan “Dalla Russia con amore”. Forse è stata proprio tanta leggiadria a far risaltare indebitamente, per contrasto, i massicci camion militari russi carichi di soldati che incrociavano sul territorio nazionale.

Un centinaio di militari, pare, non certo un’invasione, ma abbastanza da far scomodare il dissidente e Grande Maestro di scacchi Garri Kimovič Kasparov e il generale Tod D. Wolters, Comandante Supremo Alleato per l’Europa. Particolarmente zelante nel tenere un faro puntato sulla missione russa è stato il quotidiano torinese La Stampa, contro cui è stato diretto un comunicato del Ministero della Difesa russo che si concludeva con la minacciosa citazione latina “Qui fodit foveam, incidet in eam”. Con nota congiunta dei Ministeri degli Esteri e della Difesa, l’Italia ha deplorato “il tono inopportuno”.

Per la cronaca, a inizio maggio è iniziato il ritiro della missione russa, con i ringraziamenti del Governatore della Lombardia. Del resto, le armate del virus sono ormai giunte alle porte di Mosca: speriamo facciano la stessa fine di quelle di Napoleone e Hitler.

Un ossequioso saluto.

Stan