Graecia capta ferum victorem cepit

Mia cara Berenice,

si parla molto della nomina a Primo Ministro di Re Carlo III di un esponente conservatore di origini indiane.

La cosa, in realtà, non dovrebbe stupire per almeno due ordini di motivi.

In primo luogo, gli imperi coloniali hanno sempre dichiarato, ufficialmente, di voler elevare i loro sudditi, anche se rarissimamente la cosa veniva messa in pratica. L’eccezione più nota è probabilmente quella di Félix Éboué, Governatore di colore del Chad Francese che fu il primo a mettere la sua persona e la sua colonia a disposizione del generale de Gaulle nel 1940.

In secondo luogo, le vicende umane sono imprevedibili e quando si esce dai proprio confini, anche se per conquistare, ci si può imbattere in sorprese.

L’Antica Roma fu profondamente condizionata dalla cultura greca, ebbe una serie di Imperatori provenienti dalle Province e, dopo le invasioni barbariche, sopravvisse in Costantinopoli.

Durante l’invasione napoleonica della Penisola Iberica o Guerra Peninsulare, il Governo portoghese si rifugiò in Brasile, di cui ha poi gradualmente adottato la lingua nel XX secolo.

Negli anni del tramonto, l’Impero Ottomano divenne militarmente dipendente dal Vicereame d’Egitto.

Negli anni ’30, la Spagna venne invasa dalle truppe coloniali nordafricane agli ordini dei generali nazionalisti.

L’Impero Britannico cadde, negli anni ’40-’50, sotto la sfera d’influenza dell’ex Nord America Britannica.

Nell’Europa contemporanea, parte della destra si lamenta dell’afflusso di immigrati islamici da Paesi che erano colonie, protettorati o vassalli europei.

La stessa Cina era, fino alla Seconda Guerra Mondiale, una sorta di colonia internazionale, in cui perfino Italia e Austria-Ungheria possedevano territori e in cui un cittadino europeo poteva essere giudicato solo dal suo tribunale consolare. Ebbene, il giornale di oggi dà conto delle polemiche innescate dalla presunta presenza di centrali di polizia clandestine cinesi in Gran Bretagna, Spagna, Paesi Bassi e Italia e dalla invece certa acquisizione da parte cinese di una quota azionaria nel porto di Amburgo.

Un ellenizzato saluto.

Stan

Nessuno vuole l’Indonesia

Mia cara Berenice,

stamane, l’edizione italiana dell’Huffington Post dedica un articolo al movimento indipendentista della Nuova Guinea.

La nuova Guinea è un’isola del Pacifico, tagliata in due da un confine di Stato lungo il 141° meridiano est. Una simile frontiera non può che avere origini coloniali e, infatti, è un’eredità del XIX secolo, quando l’isola era spartita tra Indie Orientali Olandesi, Nuova Guinea Tedesca e Papuasia Britannica. Oggi, i territori a ovest del confine sono soggetti alla sovranità indonesiana, mentre quelli a est costituiscono lo Stato indipendente della Papua Nuova Guinea.

Come puoi immaginare, il movimento indipendentista si sviluppa sul versante occidentale ed è dunque anti-indonesiano.

Povera Indonesia, così poco amata. Nel 2002, è stata costretta costretta a concedere l’indipendenza a Timor Est, l’ex Timor Portoghese. Negli anni ’70 ha provato ad andarsene Aceh, combattendo accanitamente per decenni. Ora, anche la Nuova Guinea è insofferente.

Viene così accusato di imperialismo un Paese, l’Indonesia appunto, che per il colonialismo ha sofferto così tanto. All’inizio del XIX secolo, venne annessa dai Paesi Bassi che vi installarono un’Amministrazione eccezionalmente dura. Nel 1942 arrivò la “liberazione” da parte del Giappone, in realtà interessato al petrolio dell’arcipelago. Dopo la guerra tornarono gli olandesi e ci volle un durissimo conflitto armato per costringerli ad andarsene nel 1949.

Negli anni ’60 l’Indonesia indipendente perse una guerra combattuta contro il Commonwealth Britannico, dopo che Londra decise di assegnare alla Malesia il ricco Sultanato del Brunei.

Anche nell’indipendenza di Timor ebbero un ruolo notevole l’Australia, ex Potenza coloniale regionale, il Portogallo e perfino la Santa Sede, ben radicata nell’ex dominio lusitano.

Arrivederci, Indonesia.

Stan