Mia cara Berenice,
quali sono i confini di Venezia?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo spostarci nel tempo, più che nello spazio. Sotto lo Stato da Mar, Venezia si stendeva fino a Cipro e a Costantinopoli; calcando un po’ le tinte, si potrebbe dire che i suoi unici confini erano le Colonne d’Ercole e le sponde del Mediterraneo.
La Venezia contemporanea, burocraticamente e amministrativamente intesa, comprende anche la Terraferma di Mestre e Marghera, ultime discusse ridotte dello Stato da Tera; baluardo di difesa marittima non sono più i forti e le isole minori, ma le paratie mobili del MOSE.
Ciò di cui volevo parlarti, tuttavia, è la Venezia città, la Venezia insulare. In fondo un piccolo borgo, tanto che, se l’attuale popolazione di sessantamila abitanti è giustamente deprecata, quando toccava i centottantamila doveva pur esserci qualche problema di sovraffollamento. Una città visitabile in lungo e in largo a piedi in un fine settimana, questo si dice a chiunque chieda consigli per un viaggio, citando come esempio il rapidissimo percorso che dalla Stazione di Santa Lucia, attraverso la Strada Nuova, conduce a Rialto e San Marco, un’ora al massimo con la più turistica e ciondolante delle andature.
Eppure a me, forte camminatore, quel percorso è sempre parso lungo e faticoso, sia quando me lo concedevo a latere di una giornata lavorativa, sia in occasione delle frequenti puntate per salutare gli ex colleghi a Palazzo Balbi e Palazzo Sceriman. Tranne ieri. Ieri l’iter mi si è presentato nella sua versione ufficiale, quella da me mille volte scodellata agli aspiranti turisti: prima di accorgermene, ero al Fondaco dei Tedeschi e a Rialto; prima di accorgermene, ero alle spalle del Palazzo Ducale e in Piazza San Marco, alle spalle del pianista del Florian; prima di accorgermene, ero all’Accademia e di nuovo in Stazione di Santa Lucia.
Quale chiave mi avrà aperto la porta color del cielo della Venezia da cartolina? Forse la lontananza protratta? Forse banalmente bisogna, come certi filosofi, tirare in ballo il clima. Su Venezia alligna quasi sempre, col caldo o col freddo, una cappa di umidità ghignante, assente ieri in una giornata di sole seguita a una di pioggia, in una primavera che tarda a manifestarsi appieno. Così, mi sono trovato nel palmo di mano la piccola Venezia che tante volte avevo descritto, come in una sfera di vetro contenente una gondola, venduta in qualche bancarella di paccottiglia.
Quanto sono soggettivi i confini, mia cara… quante volte tu stessa hai trovato bizzarri i miei gusti amatori, salvo poi non esitare affatto a picchiare duro. Per l’appunto, tornando alla Stazione di Santa Lucia, sono salito al volo su un regionale verso casa. La giovane capotreno bionda, dopo aver aperto con l’apposita chiavetta uno sportellino sulla parete della carrozza di coda, ne ha estratto il nero telefono interno e ha annunciato all’altoparlante il percorso e le stazioni di fermata del convoglio. Tutte le stazioni, con quegli storti nomi veneti di folklore e di santi. Ed era, appunto, un treno locale. Non serve che ti dica altro. Avevo i brividi.
Stan