Crocicchio

Mia cara Berenice,

una ragazza corre per Villa Pamphili. Ha scelto un’area riposta dell’enorme parco, per evitare assembramenti. Da una macchia di pini sbuca in una radura da cui si diparte un manipolo di sentieri incerti e mal tracciati. Posa le mani sulle cosce, si piega, ansima, si abbassa delicatamente la mascherina per respirare a pieni polmoni. Dove andare?

In lontananza, oltre il crinale di una collinetta, vede sfilare la polizia a cavallo: sicurezza e strada battuta, ma rischio di affollamento. Dalla parte opposta, erba secca e incolta, polvere da tosse ansiogena, il rischio di mettere un piede in fallo. Proseguendo diritta potrebbe imboccare un esile sentiero di terra e sassi, ma teme di sbucare chissà dove e penare per rientrare a casa. Il cellulare con il GPS è chiuso nel marsupio, fino a quel momento non l’ha toccato, se lo impugna poi dovrà sanificarlo . Si terge il sudore, stando attenda a usare l’avambraccio.

Così siamo ora, nel limbo. Oggi, 1° giugno 2020, vigilia della Festa della Repubblica, il virus ci sta indubbiamente dando tregua, ma domani? Risorgerà in pieno giugno, sulla scorta delle riaperture che hanno affollato bar e ristoranti? Oppure, come un gatto sdraiato al sole sulle mattonelle, poltrirà fino a settembre, finché il freddo non lo scuoterà dalla sua pigrizia, facendolo stiracchiare e soffiare?

La domanda che nessuno osa fare: finirà mai?

A fare pulizia della ragnatela di sentieri lasciata tessere dal Servizio Giardini di Roma Capitale, ci pensa Gina Kolata sul New York Times e poi, in italiano, su Internazionale. L’articolo ha un taglio storico e infatti argomentazioni simili vengono ripetute, forse in modo più estremizzato, dal Prof. Andrea Carlino, docente di Storia della Medicina dell’Università di Ginevra.

Kolata e Carlino impugnano la ramazza, forse anche il machete, riducendo il crocicchio confuso a un bivio.

Le pandemie inevitabilmente finiscono e ciò può avvenire in due modi, con una soluzione sanitaria o con una sociale. Questa non va considerata un’alternativa secca, solitamente le due vie procedono in parallelo, ma con una certa prevalenza della seconda. Innanzitutto, raramente la scienza è in grado di debellare una malattia in modo assoluto: è accaduto praticamente solo con il vaiolo. In secondo luogo, nessuna pandemia è finita finché non si esaurisce il panico da essa generata.

La nostra mente collettiva, dunque, può far sopravvivere un virus, ma può anche debellarlo? Carlino lo afferma con veemenza, ma anche gli storici intervistati da Kolata sono sulla stessa lunghezza d’onda: in assenza di una soluzione medica, a un certo momento verrà presa, collettivamente, la decisione di tornare alla vita normale.

Può risultare uno scenario inquietante, di una società pronta a sacrificare una minoranza – oltretutto composta da deboli e anziani – per tornare al lavoro in ufficio, al bar dopo l’ufficio e alle vacanze al mare in agosto. Eppure, ogni società si basa su sacrifici. Circoliamo in auto, pur sapendo che è un’attività pericolosa. In un’economia di libero mercato, per quanto temperata dallo stato sociale, accettiamo il rischio dell’indigenza altrui e perfino nostra; per non parlare di quanto avviene al di fuori dei nostri confini, dove lo stato sociale si ferma e al massimo arriva qualche aiuto umanitario o cancellazione periodica del debito.

Nel complesso, francamente, io trovo più rassicurante sapere che la pandemia, prima o poi, finirà. Del resto, ho fiducia che questo avverrà con qualche ausilio della scienza. Personalmente, punto sugli anticorpi monoclonali più che sul vaccino, ma sono pronto a farmi sorprendere.

Al tempo stesso, però, ci sono già segnali dell’avanzare di una soluzione sociale.

Non mi riferisco alla solita Svezia, spesso citata a sproposito. Più che evitare il confinamento (lockdown), il Regno nordico l’ha imposto con forme giuridiche non vincolanti, come del resto il Giappone.

Pensavo invece a Paesi come il Sudafrica, l’Iran e l’India, indotti da semplice spirito di sopravvivenza ad allentare le restrizioni, nonostante la mancata flessione della curva pandemica.

Che dire poi degli Stati Uniti? Un vecchio copione che ci riporta ai tempi in cui il virus non esisteva. Cittadino di colore ucciso durante un fermo di polizia, autopsia pilatesca, proteste a macchia d’olio, agenti in assetto antisommossa e Guardia Nazionale, stazioni di polizia date alle fiamme, politicizzazione. In questi giorni, la stampa anglosassone non parla d’altro, la pandemia sembra scomparsa, così come è lontana dai pensieri da chi si assembra per sfidare le forze dell’ordine, non solo negli Stati Uniti.

È possibile che questo sfogo così violento per ingiustizie così antiche sia, in parte, anche l’espressione di una volontà collettiva di voltare pagina? Probabilmente è ancora troppo presto, ma a mio avviso è un passo in quella direzione.

Un caro saluto.

Stan