Le pantofole

Mia cara Berenice,

venerdì sera sono tornato a casa dopo una lunghissima giornata, cominciata al Ministero e finita in una pizzeria, dove ho dovuto presidiare una tavola da otto in cui tutti gli altri commensali erano in ritardo, rintuzzando le punzecchiature gelide e cortesi di cameriera e responsabile di sala, il tutto mentre mio padre mi parlava al telefono dell’aratura di un amico di famiglia e del Registro IVA del vigneto.

Stesomi, sono prevedibilmente sprofondato nel sonno e solo il giorno dopo mi sono reso conto, con mio sommo stupore, di avere ai piedi del letto le pantofole estive, anziché quelle invernali.

La cosa era doppiamente bizzarra. In primis, perché indossare quelle invernali in questa stagione è un atto abitudinario e automatico, quelle estive sono addirittura seminascoste sotto la seconda mensola. Etiam, perché proprio a fine febbraio, dopo un tipico inverno mite romano, un vento gelido ha cominciato a spazzare la capitale.

Ho ispezionato la scarpiera, constatando che le pantofole invernali non c’erano. Subodorando il solito diabolico complotto della signora delle pulizie, sono uscito in giardino e ho trovato le pantofole issate sullo stendino, in bella vista come una polena. Certamente aveva deciso di lavarle perché avevano un paio di macchie “‘n coppa”.

Naturalmente, essendo di tessuto spugnoso, avrei dovuto asciugarle con l’asciugacapelli.

Per curiosa coincidenza, quelle pantofole furono acquistate a Bruxelles, il primo luogo al mondo in cui ho impiegato tale metodo su delle calzature.

Non ricordo se ero salito con pantofole troppo leggere per quel clima o se era successo qualcos’altro.

C’era poi l’ulteriore complicazione del confinamento, in quel momento esteso anche ai negozi. Era un momento di vera crisi, in cui Bruxelles era l’epicentro della pandemia e i tamponi erano disponibili solo su prescrizione medica, quest’ultima concessa solo in presenza di almeno tre sintomi ascrivibili al COVID.

Fui così costretto a utilizzare un metodo a cui ricorro molto raramente, l’acquisto online. Tale riluttanza è dovuta a un’atavica inimicizia tra la mia stirpe e quella dei corrieri. Per giunta, in Belgio Amazon si appoggia alle Poste, famigerate per la pessima qualità del servizio.

Comunque, le pantofole arrivarono. Ieri sera, a centinaia di chilometri e uno-due anni di distanza, le ho trattate con l’asciugacapelli, anch’esso acquistato a Bruxelles, in un emporio cinese. È potentissimo, l’ho soprannominato “Respiro del Dragone”.

Un saluto imperiale.

Stan

Quattro giallisti europei

Mia cara Berenice,

ricordo che tu e tua madre gradivate “Il commissario Montalbano”, prodotto di punta della nostra TV di Stato: per la precisione, tua madre una versione orrendamente doppiata, tu una sottotitolata in inglese.

Quando a me, non ne avevo visto una sola puntata fino a stasera, avendo notato che nel cast c’era Greta Scarano; mi ero perso, infatti, una precedente puntata con Valentina Lodovini.

Di primo acchito, il siciliano ostentato dal nostro inquirente mi ha colto in contropiede, inducendomi a riflettere su quanto siano diffusi, a livello mediatico, le ambientazioni e i vernacoli del Centro-Sud rispetto a quelli del Nord.

Recentemente, nel programma “Una pezza di Lundini”, la comica Emanuela Fanelli ha appunto ironizzato sull’abuso del tema della periferia romana da parte della cinematografia nazionale.

Per quanto riguarda il Nord, il prodotto più famoso dedicato alla Lombardia è probabilmente il canale YouTube “Il Milanese Imbruttito”, che conta quasi mezzo milione di iscritti. Trattasi però di video comico-satirici, in cui Milano si presenta sul proscenio con fare quasi apologetico, come il Mister Cellophane di “Chicago”.

Spostandoci a Nord-Est, l’unico tentativo recente di un certo rilievo è il film “Finché c’è prosecco c’è speranza” (Italia, 2017), tratto dall’omonimo romanzo di Fulvio Ervas (Marcos y Marcos, 2017).

Mi sono perciò immaginato le vicende di tre giallisti, uno siciliano, uno veneto e uno bruxellese, che ambientino i loro romanzi nei rispettivi territori. Il giallista belga, poco dopo, si è riprodotto per gemmazione, sdoppiandosi: ci può stare, dopotutto Poirot era belga e mosse i primi passi nel corpo di polizia di Bruxelles.

Il giallista siciliano è il commendator Orioles, redattore in pensione della TV di Stato, per la quale ha prestato servizio a Roma e a Palermo, volto noto della stampa locale e dei circoli culturali, fugacemente eletto all’Assemblea Regionale negli anni ’90, poco prima del crollo della Prima Repubblica. Sull’onda del successo di Montalbano, crea un clone del commissario, calcando così tanto sul vernacolo da rendere il romanzo quasi impossibile da esportare sul Continente. In compenso, vende facilmente e abbondantemente in Sicilia. Autore prolifico, inanella in pochi anni un’intera collana. Un’emittente locale acquista i diritti per produrre uno sceneggiato, finanziato con i fondi dell’Unione Europea per l’educazione alla legalità.

Il giallista veneto è l’Avv. Donato, giovane legale buttatosi nella politica locale nella speranza di diventare abbastanza noto per aprirsi uno studio proprio. Viene preso in simpatia dal senatore Tandura, che occupò fugacemente un seggio nella Camera alta negli anni ’90, poco prima del crollo del Prima Repubblica, ed è oggi l’intellettuale di riferimento della Lega cittadina. Tandura, durante interminabili cene nella sua villa sui Colli Euganei innaffiate da abbondante vino, catechizza Donato sulla gloriosa storia della Serenissima, inducendolo a scrivere un giallo con inserti in veneto. Pubblicato da un editore specializzato in libri di storia locale con prefazione di Tandura, riesce a vendere qualche migliaio di copie.

Il primo giallista bruxellese è Jan Kokczynska, funzionario a riposo della Commissione che sverna tra Oporto e Varsavia. Il suo romanzo, incentrato su un’indagine transnazionale, vorrebbe essere un apologo sul ruolo dell’integrazione europea. Per documentarsi, tampina una vecchia amica da poco trasferita a Eurojust, magari sperando che da cosa nasca cosa: dopotutto, la moglie l’ha piantato durante i confinamenti. Lo pubblica a sue spese, ma rientra integralmente dei costi vendendolo a ex colleghi e lobbisti.

Il secondo giallista bruxellese è Peter Verbeke, giovane fumettista underground. Le tavole in cui compare “L’ispettore Ponsaers” sono, in realtà, “una deformata e grottesca parodia del giallo”: così almeno le definisce la sua amica Anneleen, durante una presentazione in una galleria d’arte etnica di Sablon. Alla fine, infatti, la soluzione dell’enigma è sempre la stessa: la vittima è morta di noia. Non si sa precisamente quante copie della raccolta siano state vendute, Peter non è tipo da tenere conti. Vive in un centro sociale occupato di Anneessens e il padre è notaio.

Un saluto editoriale.

Stan

Scricchiolii

Mia cara Berenice,

mi appresto ormai a rientrare a Roma, non so ancora se transitoriamente o meno.

Dico arrivederci a un Paese che mi ha, tutto sommato, bene accolto, con la rilassatezza e la cordialità di un corpo sociale apparentemente meno esposto all’impatto socio-economico della pandemia – non già a quello sanitario: il Belgio ha collezionato statistiche fra le peggiori a livello mondiale, soprattutto durante la prima ondata, e, fino a qualche mese fa, era quasi impossibile farsi un tampone.

Pura apparenza? In effetti, molti quartieri e zone anche centrali della città mostrano segni evidenti di disagio sociale, la capitale è da molti additata come poco sicura e, infine, gli attentati del 2016 parlano da soli.

Sarà forse che io venivo da Roma, città turistica e ministeriale duramente colpita dal blocco repentino dei viaggi, dal telelavoro e da tare preesistenti alla pandemia.

Almeno ai miei occhi ingenui da novellino, Bruxelles sembrava conservare un sembiante di normalità, complice il confinamento blando, l’utilizzo praticamente universale dell’asporto nella ristorazione e l’obbligo, per i numerosissimi dipendenti e collaboratori delle Istituzioni europee, di telelavorare entro un raggio di due ore dalle rispettive sedi. In pausa pranzo puoi uscire dall’ufficio domestico per fare due passi e incrociare ovunque distinti impiegati con la tessera dell’Unione penzolante dal collo e recipienti da asporto o bicchieroni da passeggio in mano.

Negli ultimi giorni, tuttavia, le unghie adunche del virus hanno cominciato a raschiare anche questa patina, forse untuosa, di business as usual. Dopo essersi scusata per il continuo afflusso di visitatori nella mia stanza, la compita padrona di casa cinese mi ha confessato che sta faticando a riaffittarla. Eppure, poche settimane fa, si era scusata per l’impossibilità di tenerla a disposizione per il mio probabile rientro, in quanto “a inizio marzo avrebbe trovato molto facilmente un inquilino”.

Sotto casa, inoltre, ho un ristorante italiano: italiano vero, a giudicare dall’insegna e dal menù esposto. Quest’ultimo era invitante, tanto che mi ero ripromesso più volta di sedermi fra quei tavoli, appena i provvedimenti del Governo lo avessero consentito. Oggi, l’intero edificio era avvolto in drappi bianchi, avvolti in due giri di corda rossa da cui penzolava questo cartello in francese: “Ci si accorge di quanto una cosa è importante solo quando non c’è più. Bruxelles, 22 febbraio 2021”.

Anche il piccolo supermercato di fronte ha chiuso, un paio di settimane fa.

La campagna di vaccinazione sembra procedere ancora più a rilento che in Italia. Secondo le comunicazioni diramate dalla Commissione, per i funzionari europei esenti da particolari fattori di rischio se ne riparlerà in estate.

Uno speranzoso saluto.

Stan

Brussels steampunk

Mia cara Berenice,

la fine di novembre è ancora relativamente lontana, ma a Bruxelles cominciano a vedersi le prime luminarie e, nella Grand Place, hanno acceso l’albero di Natale.

È curioso come, pochi giorni fa, la medesima piazza fosse illuminata di una luce tra il giallo limone e il verdognolo – noi uomini, come ben sai, non distinguiamo i colori -, una luce soffusa e inquietante, da far pensare che sui tetti a punta si fosse appollaiato il diavolo nel campanile di Edgar Allan Poe.

Del resto, nelle sere di pioggia fina, il cielo sopra Bruxelles si tinge di un viola porpora gonfio e liquido, simile a un immenso bubbone, il cui effetto è amplificato dalle strade svuotate dalla pandemia e dal bianco marmoreo dei palazzi più moderni.

Tutto ciò, me ne rendo conto, suona piuttosto pauroso… eppure, quando ci si fa l’abitudine… l’horror (latino e non inglese, naturalmente), del resto, suscita da sempre una certa viscerale fascinazione, di cui sono trasversalmente testimoni la letteratura più alta e la filmografia più infima.

Torniamo però ai lucenti palazzi di marmo e vetro che svettano sui tetti delle casette ottocentesche. Essi mi richiamano continuamente alla mente una conversazione con F. Egli non è un grande ammiratore di Roma, come ricorderai benissimo, dato che lo attaccasti violentemente su questo fronte.

Anch’io difesi la mia città d’adozione, e la difendo ancora: vera prova d’amore, per chi vi ha trascorso la prima ondata, la grande quarantena e questa surreale, livida estate di perdizione.

Tuttavia debbo riconoscere che su una cosa aveva ragione: Roma è architettonicamente bloccata nel tempo, ibernata, fossilizzata. All’infuori di MAXXI e EUR – entrambi curiosamente in lettere maiuscole, quasi a sottolinearne l’eccezionalità – non si rinviene quasi nella Città Eterna – appunto – traccia di quelle forme che contraddistinguono l’urbanizzazione contemporanea e che, nell’immaginario collettivo, sono strette a pugno chiuso nella skyline di New York e di Manhattan in particolare.

Viceversa Bruxelles, fedele alla sua vocazione pasticciera, è una torta a due strati, uno Belle Époque e uno contemporaneo. Ricorda quasi quel curioso, ma fortunato sottogenere che va sotto il nome di steampunk.

In effetti, non mi dispiacerebbe sostituire la posta elettronica con la posta idraulica.

Un sibilante saluto.

Stan

Nei vicoli di Sablon

Mia cara Berenice,

all’interno del ristretto perimetro di Bruxelles, Sablon è il quartiere degli artisti e delle gallerie. Mi aveva già dato varie soddisfazioni prima del confinamento belga, ma stasera non è stato da meno.

Ero diretto nella graziosa piazza centrale per ritirare una Magic Box di sushi. La finestra di ritiro era pericolosamente a ridosso del coprifuoco, ma, con il mio veloce passo veneziano che ben conosci, ero sicuro di cavarmela.

Dal Quartiere Europeo, è possibile raggiungere Sablon percorrendo le sole strade principali, ma, per fretta o per errore, svoltai con leggero anticipo, finendo in un vicoletto secondario.

Ebbene, c’era due ragazze che twerkavano. Una terza le riprendeva con il cellulare.

Secondo il dizionario Treccani, il twerking è un “ballo estivo che abbina scatti e sobbalzi con i movimenti oscillatori tipici del twist”.

Più preciso l’Oxford Dictionary, citato dal quotidiano Il Messaggero in questi termini: “Il ballare una musica famosa in un modo sessualmente provocante che coinvolge i movimenti di spinta dell’anca in una posizione accovacciata”.

Ancora più puntiglioso il Mirriam-Webster, che parla di “danza provocante caratterizzata da movimenti dei fianchi rapidi e ripetuti, nonché dall’atto di scuotere i glutei, soprattutto da posizione accovacciata”.

Secondo la Pennsylvania State University, le origini del twerking si perdono nei secoli, ma risalgono probabilmente all’Africa occidentale, dove il twerking non avrebbe particolari connotazioni sessuali, tanto da essere eseguito dalle fedeli in chiesa.

Un provocante saluto.

Stan

Apprendistato

Mia cara Berenice,

si è conclusa oggi una settimana importante per il mio ufficio, la Settimana europea della formazione professionale. Non starò ad annoiarti con i dettagli tecnici, salvo che per uno.

Ho appreso che, in molti Paesi europei, chi si iscrive a una scuola professionale stipula un contratto di apprendistato con un’impresa, alternando giornate di lavoro e di frequenza scolastica.

Anche in Austria funziona così? In Italia no. Vi è solo prevista, e da poco, una più modesta Alternanza Scuola Lavoro, più breve, non continuativa e giuridicamente lontana dal contratto di apprendistato.

Quando ancora lavoravo a Venezia, il Professor Z. mi coinvolse nei lavori dell’Università sul patrimonio culturale immateriale, oggetto di una Convenzione UNESCO adottata nel 2003 e ratificata dall’Italia nel 2007.

Visitammo la bottega dell’ultimo artigiano rimasto in Venezia a scolpire nel legno le forcole, ossia le scalmiere su cui poggia, fa perno e ruota il remo della gondola. Vere e proprie sculture, fra le più complicate che esistono, perché devono essere plasmate secondo lo scafo della singola gondola, a sua volta asimmetrico per adeguarsi alla voga a un solo remo. Talmente è preziosa la forcola che il gondoliere, smontando dal servizio, smonta anche la scalmiera e se la porta a casa.

Arrivò, inevitabile, la domanda di rito: “Come ha cominciato a fare questo mestiere?”

Impassibile, l’artista – artigiano sarebbe riduttivo – ci raccontò di essersi presentato, ancora bambino, nella bottega del suo predecessore, chiedendo di essere assunto come garzone: gratuitamente, s’intendeva. La generosa offerta venne accolta da un rifiuto sprezzante, a cui il ragazzetto rispose restando accoccolato, tre giorni e tre notti, tra i trucioli di legno del laboratorio, finché il titolare, spazientito, gli grugnì in malo modo di mettersi al lavoro una buona volta.

No, mia cara, non intendo moralizzare né cantare la bellezza del lavoro manuale, io che quest’estate, pelando patate, mi sono quasi amputato una mano.

Come sempre, è una questione di estetica. Certe storie sono belle, perfino se le racconto io.

Un umile saluto.

Stan

Attentati

Mia cara Berenice,

a Bruxelles c’è la foresta di Soignes: non un parco, proprio una foresta.

Nel cuore della foresta, sono stati piantati trentadue alberi, per commemorare le trentadue vittime degli attentati di Bruxelles del 22 marzo 2016.

La mattina di quel giorno, due ordigni esplosero nella hall dell’aeroporto di Bruxelles Zaventem, in corrispondenza del banco delle Brussels Airlines e delle American Airlines.

Poco dopo, un terzo ordigno devastò la metro di Maelbeek, nel cuore del Quartiere Europeo.

Gli attacchi vennero rivendicati dallo Stato Islamico.

Dei presunti attentatori, tre si immolarono come kamizake. Altri tre, fra cui quello noto come “l’uomo con il cappello”, vennero arrestati; uno è stato in seguito scarcerato. L’ultimo è caduto a Raqqa, in Siria, per mano americana.

Sugli attentati la giustizia non ha mai emesso una sentenza definitiva.

Ultimamente, come ben sai, abbiamo avuto un’ulteriore ondata di attacchi islamisti in Francia e nella tua Austria.

Il modello ora seguito da al-Qaeda e dallo Stato Islamico sembra essere quello del cosiddetto “lupo solitario” che agisce con mezzi di fortuna. Dolorosissimo e praticamente impossibile da prevenire, ma quantomeno ben lontano dai truci fasti islamisti di New York, Madrid e Londra. Bin Laden è morto, il Califfato non esiste più quantomeno come entità territoriale. Su Foreign Policy, Jonathan Spyer parla apertamente di declino dell’islamismo radicale.

Auguriamoci di non peccare di ottimismo.

Uno speranzoso saluto.

Stan

Concattedrale

Mia cara Berenice,

questa Nazione che risponde al nome di Belgio è venuta a esistenza nel 1830, con una rivoluzione e conseguente secessione dai Paesi Bassi.

Le cause del rivolgimento furono, come sempre, complesse e molteplici, ma non ultima fra di esse fu il dominio in queste terre del Cattolicesimo, contrapposto al nitido Protestantesimo olandese.

Tanto premesso, immagino che il Belgio contemporaneo sia scristianizzato quanto il resto dell’Europa occidentale, ma questo non impedisce alla Concattedrale di San Michele e Santa Gudula di fare bella mostra di sé in pieno centro. Nel cuore di questo imponente edificio si celebrano i matrimoni e i funerali dei membri della Famiglia Reale.

Concattedrale, perché la Cattedrale dell’Arcidiocesi di Malines-Bruxelles è la Cattedrale di San Rombaldo di Malines, sede del Primate del Belgio, rappresentato nella capitale belga da un Vicario.

Ho visitato San Rombaldo proprio oggi e posso confermarti che è decisamente più notevole di San Michele e Santa Gudula.

Il diritto canonico ha sempre ragione.

Un devoto saluto.

Stan

La borsa dell’eurocrate

Mia cara Berenice,

la borsa dell’eurocrate è della Carrefour, catena onnipresente qui in Belgio. Una borsa di stoffa, perché quelle di plastica praticamente non si usano. D’altronde, in Belgio tendenzialmente si fa la spesa piccola, senza carrello, col panierino sottobraccio. Al Carrefour si trovano piatti pronti, il concetto di supermercato sfuma in quello di rosticceria e questo, forse, spiega i prezzi salati.

La borsa della Carrefour ha quattro maniglie invece delle due usuali, e sembra abbia le branchie.

Nella borsa dell’eurocrate ci sono una bottiglia di San Pellegrino, che qui costa più della birra, una bottiglia di succo d’arancia da riporre nel frigo comune dell’ufficio, un pacchetto di biscotti e uno di salatini da infilare nell’armadio. I salatini sostituiscono i cracker che tenevo sempre sul mobiletto accanto alla scrivania, al Ministero.

Nella borsa dell’eurocrate c’è un libro usato, “La storia” di Elsa Morante, edizione Einaudi del 1973, acquistato alla solita bancarella del mercato rionale di San Giovanni di Dio. A mo’ di segnalibro, una striscia di carta. Per quanto ci si sforzi, ci si dimentica sempre di mettere qualcosa in valigia, figuriamoci quando un distratto cronico come me deve stipare in due trolley le masserizie necessarie per cinque mesi di inverno.

La borsa dell’eurocrate non è la borsa ufficiale, né quella che gli ha recapitato l’ufficio come dono di benvenuto, contenente i soliti gadget, né quella consegnatagli dalla Direzione Generale Informatica come custodia del computer portatile d’ufficio.

Quest’ultima contiene il portatile, la spina per collegarlo alla presa, il mouse e qualche altro accessorio. Il cavetto per collegare il computer alla LAN lo si trova sulla scrivania. Da qualche parte, dovrebbe esserci anche un lucchetto per assicurare il portatile alla prelodata scrivania, ma non l’ho mai usato. Sembra improbabile che qualcuno possa rubare qualcosa in quegli uffici, ma, come insegna Geremia de’ Geremei, mai confondere l’improbabile con l’impossibile. Del resto al Ministero non hanno forse sottratto, in pieno confinamento, qualche misera chiave per la macchinetta del caffè?

Apri la borsa sul tavolo, dentro la borsa troverai la mia testa che ti saluta.

Stan

Oggetti

Mia cara Berenice,

qui a Bruxelles tutto procede bene.

Faccio vita piuttosto ritirata a causa della pandemia, ma la cosa non mi pesa.

Ho sempre provato una strana attrazione per gli oggetti e gli edifici sono gli oggetti per eccellenza. Percorro la città più volte al giorno, scattando fotografie attraverso il mostruoso, quadruplice occhio del mio cellulare cinese.

Lo facevo anche a Roma, anzi ho proseguito fino all’ultimo.

Sono così accomunato ai miei simili almeno dall’amore per la fotografia, seppure per motivi – credo – diversi dai loro.

Oggi a Sablon, il quartiere degli artisti, ho visitato un negozio di fotografia, attirato dall’annuncio di una mostra dedicata agli anni ’70. Sugli scaffali era accomunato ogni sorta di materiale vintage.

In tal modo, si delinea davanti ai miei occhi l’anima della città, certamente più riposta e meno popolaresca di Roma, nel bene e nel male.

In comune con l’Urbe ha però un’estrema frammentazione che fa convivere gomito a gomito gli scintillanti palazzi del Quartiere Europeo e delle multinazionali con quartieri decisamente meno sofisticati e anzi – a una prima occhiata almeno – problematici, nei quali io stesso faccio frequenti incursioni, quando cerco un articolo a prezzo ribassato o qualche esercizio commerciale con orari più protratti.

Una graziosa bomboniera, un sacchetto di confetti ripieni di rosolio, ovvietà e luoghi comuni, dirai tu.

Be’, sono ancora agli inizi.

Un umile saluto.

Stan