Il vassoio di legno

Mia cara Berenice,

sabato sera dovevo cenare con degli amici a Eataly, ma un paio d’orette prima ha avuto un attacco di fame e ho deciso di prepararmi qualcosa che, volendo essere pretenziosi, potremmo definire un aperitivo, mentre io preferisco chiamare spuntino.

Avevo a portata di mano dell’ottimo pane, del pregevole squacquerone e un graziosissimo vassoio di legno chiaro, ottimo in casi del genere e quando vuoi mangiare un boccone senza spostare il computer dal tavolo della zona giorno.

Lo acquistai in Belgio, dopo aver constatato che gli usi locali non prevedevano l’uso delle tovaglie.

Del resto, ero stato preparato ai costumi del Benelux dal mio soggiorno in Olanda, ai tempi dell’assistentato universitario. L’Accademia dell’Aja mi procurò una camera ammobiliata in casa di un’anziana pensionata che, dopo avermi accolto con una quiche lorraine, mi chiese se desiderassi anche dei pomodori. Alla mia risposta affermativa, staccò alcuni ciliegini da un raspo appeso al muro e me li lanciò attraverso il tavolo. La sua cucina si componeva di due elementi, un fornelletto e un rubinetto che, con l’aiuto di un dispositivo integrato, riusciva a eruttare l’acqua a una temperatura incandescente, tanto che per lavare i piatti bisognava usare delle pinze.

A ogni modo, era davvero uno splendido vassoio e, nel tornare in Italia, trovai il modo di incunearlo in uno dei due trolley che contenevano il mio treno di bagagli per il rigido inverno belga. Ora, quel legno si indora al sole di Roma.

Non è poco, a ben vedere, quello che ho portato a casa da Bruxelles: l’abitudine di fare la spesa giornaliera al Carrefour e altre cose più preziose.

Oltretutto, a un tiro di sasso dal Ministero c’è una famosa boulangerie-pâtisserie.

Au revoir, Shosanna!

Marco

Taxi!

Mia cara Berenice,

ricordi quella volta, sulla Costa Amalfitana? Pagammo una somma esorbitante il taxi che ci portò dall’albergo alla stazione… intendo una somma esorbitante per le mie tasche, ovviamente…

Non c’è nulla da fare, il taxi è un concetto anglosassone, nei Paesi latini non funziona a nessun patto.

Quando feci la mia canonica trasferta adolescenziale a Londra, rimasi stupito vedendo le strade della capitale dell’Impero così spoglie di auto private, fatta eccezione per qualche Rolls-Royce nella City: non si vedevano che autobus rossi e taxi neri, maestosi nelle loro carrozzerie retrò.

Anche nei film americani, è tutto così facile… si alza il braccio e immediatamente un’auto gialla accosta: devi solo sperare di non trovarci il giovane Robert De Niro al volante.

In Italia, i taxi si evitano come la peste, perché hanno fama di essere costosissimi e non sempre perfettamente ligi alle regole.

In questi giorni stanno protestando, come da copione, contro il Disegno di Legge di Concorrenza del Governo.

Anche a Bruxelles, l’Autorità giudiziaria ha bloccato sine die le attività di Uber.

Siamo dunque, noi latini, irriducibili avversari del mercato? I discendenti delle Repubbliche marinare avrebbero ceduto il libro mastro ai levantini, a cui viene proverbialmente attribuita spietata astuzia negli affari?

A volte, la spiegazione è più semplice e prosaica.

Spesso si ha l’impressione che in Italia, nell’importare concetti stranieri come le riforme liberali, lo si faccia con un certo fanatismo esterofilo e ideologico, anziché calarli nel contesto locale con il supporto di un solido approccio scientifico.

Prendiamo, ad esempio, la liberalizzazione del trasporto pubblico di passeggeri su automobile.

Anche il mondo anglosassone, generalmente, lo regolamentava tramite licenze contingentate rilasciate dai Comuni, secondo un sistema affatto simile a quello italiano. In alcuni ordinamenti, le licenze taxi sono cedibili, in altri no. In ogni caso, hanno un valore commerciale.

Si è dibattuto, pertanto, se la liberalizzazione dell’attività prima coperta da licenza dovesse essere accompagnata dalla corresponsione di indennità ai taxisti; in Australia si è proceduto appunto in questo modo. Non ovunque e, secondo molti esperti, non è la soluzione corretta.

Tuttavia, è bizzarro che una simile eventualità non venga nemmeno discussa in un Paese come l’Italia, dove le proteste dei taxi sono ormai diventate un rituale ricorrente e dove si è soliti risolvere tutto a suon di elargizioni dell’Erario, oltretutto rimpinguato da una effimera – temo – stagione delle vacche grasse.

Un romanesco saluto.

Stan

Le valigie da Bruxelles

Mia cara Berenice,

le valigie da Bruxelles sono, in effetti, due enormi trolley – davvero imponente il secondo, comprato appositamente a Termini – e uno zaino molto capiente – messo sulla mia strada alla Divina Provvidenza per il campeggio di quest’estate, acquistato da Decathlon sull’Appia.

Nelle valigie da Bruxelles sono entrati, grazie a un sofisticato giuoco di Tetris, gli articoli più preziosi acquistati in Belgio.

Il mio tesserino della Commissione, utilizzato nelle prime settimane di lavoro in presenza e il terzultimo giorno per restituire il portatile allo sportello di assistenza informatica del Berlaymont. Ora penzola dal muro alla mia sinistra, insieme al tesserino di riconoscimento rilasciatomi durante l’Erasmus per funzionari pubblici, due anni fa.

Una cravatta della Presidenza di turno rumena. Me l’ha regalata D., la mia Team Leader, che quello stesso giorno mi attese fuori dal Berlaymont.

Un costosissimo vassoio di legno massiccio, fondamentale per consumare i pasti in Belgio dove, a quanto pare, non esistono tovaglie, ma utile anche nell’Italia della zona rossa e del lavoro agile, in cui sui tavoli devono convivere attrezzature informatiche e stoviglie.

Il ripetitore Wi-Fi, riportato in Italia non tanto perché servisse, ma perché ha la forma di un delizioso pupazzetto, e anche per ricordare alla padrona di casa cinese che la Wi-Fi no, nel piano interrato, da sola, non ci arrivava. “You really should take care of it, Madame, everybody is teleworking nowadays”.

Un phon dall’alito di drago, fondamentale per asciugare le scarpe inzuppate e le chiome leonine sguinzagliate dalla chiusura dei barbieri.

La pioggia gelida portata dal vento sferzante, esportata con grande successo lungo i viali alberati di Villa Pamphili, in questo marzo romano pazzo e rigido al tempo stesso.

Il confinamento alla belga, che di fatto è solo una serrata degli esercizi pubblici, mentre chiunque se ne va a zonzo dove gli pare… ed è un sollievo, devo dire, di lockdown ce n’è solo uno.

I frutti di mare che ho ingurgitato oggi a pranzo, su una montagna di spaghetti e pomodorini… no, quelli in Italia c’erano già, e di tutt’altra pasta – se mi concedi il gioco di parole.

Un saluto transfrontaliero.

Stan

Quattro giallisti europei

Mia cara Berenice,

ricordo che tu e tua madre gradivate “Il commissario Montalbano”, prodotto di punta della nostra TV di Stato: per la precisione, tua madre una versione orrendamente doppiata, tu una sottotitolata in inglese.

Quando a me, non ne avevo visto una sola puntata fino a stasera, avendo notato che nel cast c’era Greta Scarano; mi ero perso, infatti, una precedente puntata con Valentina Lodovini.

Di primo acchito, il siciliano ostentato dal nostro inquirente mi ha colto in contropiede, inducendomi a riflettere su quanto siano diffusi, a livello mediatico, le ambientazioni e i vernacoli del Centro-Sud rispetto a quelli del Nord.

Recentemente, nel programma “Una pezza di Lundini”, la comica Emanuela Fanelli ha appunto ironizzato sull’abuso del tema della periferia romana da parte della cinematografia nazionale.

Per quanto riguarda il Nord, il prodotto più famoso dedicato alla Lombardia è probabilmente il canale YouTube “Il Milanese Imbruttito”, che conta quasi mezzo milione di iscritti. Trattasi però di video comico-satirici, in cui Milano si presenta sul proscenio con fare quasi apologetico, come il Mister Cellophane di “Chicago”.

Spostandoci a Nord-Est, l’unico tentativo recente di un certo rilievo è il film “Finché c’è prosecco c’è speranza” (Italia, 2017), tratto dall’omonimo romanzo di Fulvio Ervas (Marcos y Marcos, 2017).

Mi sono perciò immaginato le vicende di tre giallisti, uno siciliano, uno veneto e uno bruxellese, che ambientino i loro romanzi nei rispettivi territori. Il giallista belga, poco dopo, si è riprodotto per gemmazione, sdoppiandosi: ci può stare, dopotutto Poirot era belga e mosse i primi passi nel corpo di polizia di Bruxelles.

Il giallista siciliano è il commendator Orioles, redattore in pensione della TV di Stato, per la quale ha prestato servizio a Roma e a Palermo, volto noto della stampa locale e dei circoli culturali, fugacemente eletto all’Assemblea Regionale negli anni ’90, poco prima del crollo della Prima Repubblica. Sull’onda del successo di Montalbano, crea un clone del commissario, calcando così tanto sul vernacolo da rendere il romanzo quasi impossibile da esportare sul Continente. In compenso, vende facilmente e abbondantemente in Sicilia. Autore prolifico, inanella in pochi anni un’intera collana. Un’emittente locale acquista i diritti per produrre uno sceneggiato, finanziato con i fondi dell’Unione Europea per l’educazione alla legalità.

Il giallista veneto è l’Avv. Donato, giovane legale buttatosi nella politica locale nella speranza di diventare abbastanza noto per aprirsi uno studio proprio. Viene preso in simpatia dal senatore Tandura, che occupò fugacemente un seggio nella Camera alta negli anni ’90, poco prima del crollo del Prima Repubblica, ed è oggi l’intellettuale di riferimento della Lega cittadina. Tandura, durante interminabili cene nella sua villa sui Colli Euganei innaffiate da abbondante vino, catechizza Donato sulla gloriosa storia della Serenissima, inducendolo a scrivere un giallo con inserti in veneto. Pubblicato da un editore specializzato in libri di storia locale con prefazione di Tandura, riesce a vendere qualche migliaio di copie.

Il primo giallista bruxellese è Jan Kokczynska, funzionario a riposo della Commissione che sverna tra Oporto e Varsavia. Il suo romanzo, incentrato su un’indagine transnazionale, vorrebbe essere un apologo sul ruolo dell’integrazione europea. Per documentarsi, tampina una vecchia amica da poco trasferita a Eurojust, magari sperando che da cosa nasca cosa: dopotutto, la moglie l’ha piantato durante i confinamenti. Lo pubblica a sue spese, ma rientra integralmente dei costi vendendolo a ex colleghi e lobbisti.

Il secondo giallista bruxellese è Peter Verbeke, giovane fumettista underground. Le tavole in cui compare “L’ispettore Ponsaers” sono, in realtà, “una deformata e grottesca parodia del giallo”: così almeno le definisce la sua amica Anneleen, durante una presentazione in una galleria d’arte etnica di Sablon. Alla fine, infatti, la soluzione dell’enigma è sempre la stessa: la vittima è morta di noia. Non si sa precisamente quante copie della raccolta siano state vendute, Peter non è tipo da tenere conti. Vive in un centro sociale occupato di Anneessens e il padre è notaio.

Un saluto editoriale.

Stan

Scricchiolii

Mia cara Berenice,

mi appresto ormai a rientrare a Roma, non so ancora se transitoriamente o meno.

Dico arrivederci a un Paese che mi ha, tutto sommato, bene accolto, con la rilassatezza e la cordialità di un corpo sociale apparentemente meno esposto all’impatto socio-economico della pandemia – non già a quello sanitario: il Belgio ha collezionato statistiche fra le peggiori a livello mondiale, soprattutto durante la prima ondata, e, fino a qualche mese fa, era quasi impossibile farsi un tampone.

Pura apparenza? In effetti, molti quartieri e zone anche centrali della città mostrano segni evidenti di disagio sociale, la capitale è da molti additata come poco sicura e, infine, gli attentati del 2016 parlano da soli.

Sarà forse che io venivo da Roma, città turistica e ministeriale duramente colpita dal blocco repentino dei viaggi, dal telelavoro e da tare preesistenti alla pandemia.

Almeno ai miei occhi ingenui da novellino, Bruxelles sembrava conservare un sembiante di normalità, complice il confinamento blando, l’utilizzo praticamente universale dell’asporto nella ristorazione e l’obbligo, per i numerosissimi dipendenti e collaboratori delle Istituzioni europee, di telelavorare entro un raggio di due ore dalle rispettive sedi. In pausa pranzo puoi uscire dall’ufficio domestico per fare due passi e incrociare ovunque distinti impiegati con la tessera dell’Unione penzolante dal collo e recipienti da asporto o bicchieroni da passeggio in mano.

Negli ultimi giorni, tuttavia, le unghie adunche del virus hanno cominciato a raschiare anche questa patina, forse untuosa, di business as usual. Dopo essersi scusata per il continuo afflusso di visitatori nella mia stanza, la compita padrona di casa cinese mi ha confessato che sta faticando a riaffittarla. Eppure, poche settimane fa, si era scusata per l’impossibilità di tenerla a disposizione per il mio probabile rientro, in quanto “a inizio marzo avrebbe trovato molto facilmente un inquilino”.

Sotto casa, inoltre, ho un ristorante italiano: italiano vero, a giudicare dall’insegna e dal menù esposto. Quest’ultimo era invitante, tanto che mi ero ripromesso più volta di sedermi fra quei tavoli, appena i provvedimenti del Governo lo avessero consentito. Oggi, l’intero edificio era avvolto in drappi bianchi, avvolti in due giri di corda rossa da cui penzolava questo cartello in francese: “Ci si accorge di quanto una cosa è importante solo quando non c’è più. Bruxelles, 22 febbraio 2021”.

Anche il piccolo supermercato di fronte ha chiuso, un paio di settimane fa.

La campagna di vaccinazione sembra procedere ancora più a rilento che in Italia. Secondo le comunicazioni diramate dalla Commissione, per i funzionari europei esenti da particolari fattori di rischio se ne riparlerà in estate.

Uno speranzoso saluto.

Stan

Le invasioni del Belgio

Mia cara Berenice,

quando sei un piccolo Paese incuneato fra Francia e Germania, è il tuo destino essere invaso spesso, e così è stato per il Belgio.

La prima invasione, se vogliamo, fu quella del 1830-31, quando l’Olanda cercò di stroncare sul nascere l’indipendenza belga, riconosciuta solo nel 1839.

Seguirono le due occupazioni più famose, durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale.

Quasi nessuno, viceversa, parla della più terribile e recente, l’invasione della quinoa. Del resto, essa si è svolta usando tecniche tipiche della Guerra Fredda, modellate sull’infiltrazione del Viet Cong a Saigon durante l’Offensiva del Tet.

La quinoa è arrivata lenta, surrettizia e strisciante. Come un esercito golpista, ha occupato i posti chiave nella Famiglia Reale, nel Governo, nel Parlamento, nell’Amministrazione, nelle comunicazioni e nelle infrastrutture in generale.

Ormai, il suo controllo del Paese è assoluto, tanto che è ormai impossibile fare tre pasti al giorno senza pagarle dazio, almeno una volta. Stasera, per esempio, è arrivata sulla mia tavola insieme al suo Quisling, l’hummus, sempre pronto a tenerle bordone.

Eppure dicono che le Fiandre pullulino di fieri nazionalisti. “Non lo domeranno mai, / l’orgoglioso leone fiammingo!” Così esordisce l’inno ufficiale delle Fiandre. “Noi non dormiremo, per quanto i papaveri crescano, / nei campi delle Fiandre,” recita il poema composto dal medico militare canadese John McCrae durante la Grande Guerra. Ebbene? Dov’è la sacra furia che questi granelli irridenti dovrebbero suscitare?

Un incendiario saluto.

Stan

Se la vita ti dà limoni…

Mia cara Berenice,

è ben nota, almeno nelle Venezie, la mia passione per le bibite al limone.

La cosa migliore, ovviamente, è una limonata fatta in casa, magari con l’aggiunta di menta o altri ingredienti. Ne servono una eccellente al ristorante kosher del Ghetto di Venezia; un’altra, dalla consistenza quasi solida, nel bistrot di Villa Pamphili, a Roma.

Qui a Bruxelles, per il momento, bar e ristoranti sono chiusi, se non per consegne o asporto.

Venivo appunto da Ixelles, dove avevo ritirato due confezioni di patatine fritte accompagnate da salsine varie. Ormai in prossimità di casa, volli fermarmi al Carrefour per completare il pasto con una bibita; scelsi appunto una bevanda gassata al gusto di limone.

Mi misi in fila alla cassa, rispettando la distanza regolamentare di un metro e mezzo, cinquanta centimetri più che in Italia.

Alle mie spalle, una ragazza italiana parlava al telefono con la madre.

Alla mia destra, il cassiere passava sul lettore i prodotti di chi mi precedeva, con la flemma tipica della forza lavoro locale.

Io fremevo, sia per la voglia di mangiare le patatine, sia per timore che si freddassero.

Forse furono vibrazioni d’ansia, forse fu il linguaggio del corpo, forse fu un moto spontaneo, fatto sta che il ragazzo davanti a me si voltò e indicò la bottiglietta che tenevo in mano.

“Hai solo quella?”

“Sì”.

“Passa avanti”.

“Sicuro?”

“Sì, tranquillo”.

Lo ringraziai profusamente, in inglese e in francese, prima e dopo aver pagato.

Le frites erano divine: dopotutto, sono il piatto nazionale.

Un deliziato saluto.

Stan

La Défense

Mia cara Berenice,

il vaccino sarà pure arrivato, ma la pandemia imperversa ancora e qui, nel cuore stesso del Parco del Cinquantenario, è stato eretto un ospedale da campo delle Forze Armate belghe.

Queste ultime, note collettivamente come “la Défense”, si articolano in una componente terrestre, una aerea, una marittima e una appunto sanitaria.

All’interno del Belgio, i militari fungono da artificieri e svolgono, dal 2015, compiti antiterrorismo (operazione Vigilant Guardian).

Inoltre, l’aviazione belga si alterna a quella olandese nel pattugliare lo spazio aereo del Benelux.

Fuori dai confini nazionali, le Forze Armate belghe sono schierate in Afghanistan, Mali, Niger e Medio Oriente.

Nessun dispiegamento, a quanto pare, nelle ex colonie Repubblica Democratica del Congo, Ruanda e Burundi.

Nella prima il Belgio è peraltro intervenuto militarmente negli anni ’60, mentre in Ruanda ciò si è verificato negli anni ’90.

L’ingombrante ruolo della Francia in Ruanda e l’attuale dispiegamento belga in Mali, peraltro, fanno pensare a un Paese gravitante, almeno in parte, nella sfera d’influenza di Parigi.

Il Belgio è anche membro dell’Organizzazione Internazionale della Francofonia.

D’altronde, in Vallonia esiste ancora il rattachisme, un’ideologia politica favorevole all’annessione della regione da parte della Francia.

On verra.

Au revoir.

Stan

Comitati

Mia cara Berenice,

qui in Belgio, investito in pieno dalla seconda ondata della pandemia, tutti attendono le decisioni del Comitato di Concertazione, in riunione da oggi fino a domani. Nemmeno un bel discorso del Re per annunciare il confinamento.

Cos’è, dunque, questo Comitato, succeduto ai più gloriosi Consigli della Corona?

Istituito con una legge del 1980 e poi costituzionalizzato, il Comitato si compone: di sei membri del Governo federale, tre francofoni e tre di lingua fiamminga, fra cui il Primo Ministro, che lo presiede; del Ministro Presidente della Vallonia; di due membri del Governo della Regione di Bruxelles-Capitale; del Ministro Presidente della Comunità Francese; di due membri del Governo delle Fiandre, fra cui il Ministro Presidente. In alcuni casi, nel Comitato viene cooptato il Ministro Presidente della Comunità Germanofona.

Il Comitato delibera, con voto consultivo, sui conflitti fra le molte anime, sopra descritte, dello Stato belga.

Come si sia visto attribuire le funzioni di Gabinetto di guerra pandemico, non mi è del tutto chiaro, ma posso immaginare che le sue deliberazioni, formalmente non vincolanti, siano recepite dai vari enti competenti (Governo federale, entità federate, etc.).

D’altronde anche l’Italia, contro la pandemia, ha schierato i Comitati, rammenti?

Per questo, l’organo di Concertazione belga mi fa sentire un poco a casa e, anzi, mi fa tornare ai bei tempi di Venezia e del cosiddetto “Comitatone”, istituito nel 1984 dalla Legge Speciale per Venezia e “costituito dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che lo presiede, dal Ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti, dal Ministro dell’Economia e delle Finanze, dal Ministro per i Beni e le Attività Culturali e per il Turismo, dal Ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, dal Ministro dell’Università e della Ricerca, dal Presidente della Giunta Regionale del Veneto, dal Sindaco della Città Metropolitana di Venezia, ove diverso, dal Sindaco di Venezia e dal Sindaco di Chioggia o loro delegati, nonché da due rappresentanti dei Comuni di Cavallino Treporti, Chioggia, Codevigo, Campagna, Lupia, Mira, Quarto D’Altino, Iesolo e Musile di Piave, designati dai Sindaci con voto limitato. Segretario del Comitato è il Presidente dell’Autorità per le Acque Lagunari, che assicura, altresì, la funzione di segreteria del Comitato stesso”.

In fatto di Comitati, insomma, il Belgio ha ancora molto da imparare.

La Commissione, viceversa, in tema di complicazioni procedurali può forse gareggiare con l’Italia e, infatti, ha trasformato i Comitati addirittura in una scienza: la comitatologia.

Un collegiale saluto.

Stan

Concattedrale

Mia cara Berenice,

questa Nazione che risponde al nome di Belgio è venuta a esistenza nel 1830, con una rivoluzione e conseguente secessione dai Paesi Bassi.

Le cause del rivolgimento furono, come sempre, complesse e molteplici, ma non ultima fra di esse fu il dominio in queste terre del Cattolicesimo, contrapposto al nitido Protestantesimo olandese.

Tanto premesso, immagino che il Belgio contemporaneo sia scristianizzato quanto il resto dell’Europa occidentale, ma questo non impedisce alla Concattedrale di San Michele e Santa Gudula di fare bella mostra di sé in pieno centro. Nel cuore di questo imponente edificio si celebrano i matrimoni e i funerali dei membri della Famiglia Reale.

Concattedrale, perché la Cattedrale dell’Arcidiocesi di Malines-Bruxelles è la Cattedrale di San Rombaldo di Malines, sede del Primate del Belgio, rappresentato nella capitale belga da un Vicario.

Ho visitato San Rombaldo proprio oggi e posso confermarti che è decisamente più notevole di San Michele e Santa Gudula.

Il diritto canonico ha sempre ragione.

Un devoto saluto.

Stan