Anguilla giapponese

Mia cara Berenice,

“Cosa vuoi da Hattori Hanzo?”

“Anguilla giapponese”.

Ieri mattina sono stato a un aperitivo a Re di Roma. Al termine, essendo ancora presto per pranzare, ho visitato le Basiliche di San Giovanni e di San Giovanni in Laterano. Ti raccomando soprattutto quest’ultima, a mio modesto avviso nettamente superiore a San Pietro; con tre euro pagati alla biglietteria interna è possibile visitare anche il chiostro con le colonne tortili e gli alberi di melograno, vera elfica dimora.

Dopo essermi così ricreato, mi sono dato al pigro passeggio per i vicoli, finché non ho individuato un ristorante giapponese decorato di numerosi contrassegni del Gambero Rosso. La carta esposta era accattivante, l’interno pure, e mi sono fatto accomodare.

Ho ordinato come antipasto un fuori menù, seguito da un piatto a base di riso e anguilla. Quando quest’ultimo mi è stato servito, non ho potuto fare a meno di sorridere tra me e me: dovevo arrivare a Roma, e per di più in un ristorante giapponese, per assaggiare l’anguilla, per la prima volta in vita mia.

L’anguilla sarebbe infatti un piatto tradizionale del Veneto, dove viene chiamata “bisata”. Ora, il destino di molti piatti tradizionali è di essere spesso decantati, ma molto raramente serviti: e così è per la bisata, le “moeche”, il baccalà e la “pinsa”, da non confondersi con la pinsa romana. Quella veneta è un dolce, servito a macchia di leopardo, in alcune zone, soprattutto a ridosso dell’Epifania; un blocco secco e stopposo – almeno per il mio personale gusto -, da mandare giù con abbondante vin brulé.

Ora ecco qui, artisticamente disposta su un letto compatto di riso e guarnita di verdure, la celebrata anguilla, con le sue spire argentee e le sue carni grasse, opulente. Quando il Prof. T. la richiedeva, nonna la andava a prendere al mercato, ancora viva e guizzante, tanto che, un bel giorno, accadde ciò che era ampiamente prevedibile: la fuga del serpente di fiume dal lavandino, con grande panico della già nevrastenica Signora T.

I paralleli tra Veneto e Giappone sono poi proseguiti, compattati nel disco sottile di un dorayaki, tradizionale dolce secco e stopposo, almeno per il mio personale gusto.

Par tera, par mar, par San Marco!

Stan