I due computer

Mia cara Berenice,

ti scrivo sdraiato sul divano di casa, profondamente irritato con me stesso. Sono irritato perché domani avrò due riunioni in parallelo, una del Comitato Europeo Antifrode e una sindacale, piuttosto importante.

Per pianificare il relativo giuoco d’incastri, avrei bisogno dell’agenda e ordine del giorno di entrambe, ma ciò richiederebbe non solo alzarsi dal divano, ma anche avviare il computer aziendale.

Dalla pandemia a oggi, si sono versati fiumi di inchiostro sul lavoro da remoto, non sempre a proposito. Ad esempio, tutti a progettare improbabili arredamenti casalinghi per l’ufficio virtuale (come se chiunque disponesse dei relativi spazi e mezzi), mentre nessuno ha dato consistenza plastica al vero distintivo del lavoratore da remoto: i due computer portatili. Quello personale, nuovo, dal design accattivante e soprattutto funzionante. Quello aziendale, simile a un tombino e che uno non sfiorerebbe neanche con un dito, se non fosse necessario per accedere a certe funzioni aziendali riservate.

A Bruxelles erano uno accanto all’altro, sotto la riprovevole finestra cieca inflittami dalla mia padrona di casa cinese. A Roma stanno uno di spalle all’altro, schiena contro schiena, sul tavolino quadrato del soggiorno, vero monumento all’antagonismo; ciascuno dei due sembra un Napoleone in esilio, intento a ignorare ostentatamente il Governatore inglese di Sant’Elena. In ferie in Veneto, dove sapevo benissimo che sarei stato raggiunto da qualche sporadica seccatura, uno troneggiava sulla scrivania, l’altro stava buttato con malagrazia sul letto, come un adolescente nella sua fase più sgradevole. Un ultimo miglio di evoluzione tecnologica e li vedremo prendersi a botte, finché il perdente – invariabilmente il computer aziendale – non chiederà pietà.

Un saluto con il pollice verso dagli spalti.

Stan

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