Il diaframma

Mia cara Berenice,

ti ho già detto, tra il serio e il faceto, che, quando torno a Roma dal Veneto, non tocco carne per una settimana.

È una questione culturale, quassù il piatto della convivialità è la carne. Un dominio figlio di un agro rimpianto, risalente ai tempi della mezzadria, per il companatico che non c’era o non accompagnava in misura sufficiente l’onnipresente polenta. “Si andava ai matrimoni,” ricordava mia nonna, “per ingozzarsi di carne”. L’altra nonna, cuoca provetta, era famosa anche per le lasagne e le crespelle, ma si trattava di un’eccezione dovuta al suo passato cosmopolita di capo cameriera e cuoca nell’alta società italiana e svizzera; comunque, fra i suoi cavalli di battaglia figuravano anche il pollo, l’anatra, la selvaggina.

Del resto le varianti della carne sono infinite, pronte a innestarsi sulla peculiarità dello spiedo, lunghissima ed elaborata preparazione diffusa solo in alcune Province venete e lombarde: per consentire di mangiarlo a un pranzo in onore del 25 aprile, un alpino ultraottantenne si è alzato per predisporre la brace alle tre di notte. Mio padre ha aggiunto alla solita griglia delle costolette di maialetto selvatico, mia zia ha messo in campo un insolito ossobuco. Quanto a mio zio, ha a disposizione un cuoco brasiliano e la relativa carne. Jefferson – così si chiama – ci ha messo del suo, accostando al filetto e alla picanha del diaframma di manzo, considerato in Brasile il taglio più nobile e costoso, spesso riservato dai macellai al loro consumo personale.

Odorando e masticando il diaframma, il pensiero torna inevitabilmente a Roma, dove insegnanti di teatro e coach di public speaking (me ne inflisse uno la Scuola Nazionale dell’Amministrazione) non mancano mai di magnificare le virtù maieutiche e taumaturgiche di questa membrana che, in effetti, svolge il ruolo fondamentale e delicatissimo di limes tra l’apparato respiratorio e quello gastro-intestinale.

Un impostato saluto.

Stan

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